A. Ripa mette al centro di un’analisi sulle dimissioni la figura del dirigente unitamente alle tutele risarcitorie previste
Introduzione
Il dirigente è definito, sulla carta, l’alter ego dell’imprenditore, dato il tenore elevato delle mansioni che gli sono affidate, in termini di qualità, ampiezza e responsabilità.
Questa prossimità al vertice comporta che nel rapporto di lavoro dirigenziale l’elemento fiduciario assuma sfumature particolarmente intense, che da un lato elevano il livello di diligenza richiesto e dall’altro, implicano una sua particolare sensibilità ai cambiamenti sul fronte aziendale.
Proprio come possibilità di reazione a queste interferenze sull’equilibrio del rapporto di lavoro, la contrattazione collettiva ha nel tempo previsto una serie di ipotesi di dimissioni c.d. “qualificate” o “giustificate”, a cui si ricollegano specifiche tutele a favore del dirigente costretto a dimettersi.
L’Autore le analizza.
DIMISSIONI PER MANCATA ACCETTAZIONE DEL TRASFERIMENTO INDIVIDUALE
Con formulazioni sostanzialmente identiche, il CCNL Dirigenti Industria e quello dei Dirigenti del Commercio prevedono che “Il dirigente che proceda alla risoluzione del rapporto entro 60 giorni dalla comunicazione” del trasferimento “motivando il proprio recesso con la mancata accettazione del trasferimento, ha diritto, oltre al trattamento di fine rapporto, a un trattamento pari all’indennità sostitutiva del preavviso spettante in caso di licenziamento”.
Il solo CCNL Dirigenti Industria prevede, in aggiunta all’indennità sostitutiva del preavviso, “una indennità supplementare al trattamento di fine rapporto pari a 1/3 del corrispettivo del preavviso individuale maturato”.
La norma non pone particolari problemi di interpretazione.
DIMISSIONI PER IL TRASFERIMENTO D’AZIENDA O LA CESSIONE DEL PACCHETTO AZIONARIO
Nelle ipotesi di trasferimenti relativi all’azienda, la contrattazione collettiva dirigenziale offre, nei diversi settori, differenti gradi di tutela, accomunati dal presupposto – a volte implicito, a volte esplicitato – che tale variazione possa compromettere il rapporto fiduciario tra le parti. Circostanza da valutarsi sul più lungo periodo di sei mesi.
L’art. 21 del CCNL Dirigenti Commercio attribuisce al dirigente la facoltà, fino a sei mesi dall’avvenuta comunicazione formale del trasferimento di proprietà, di risolvere il rapporto di lavoro con diritto all’indennità sostitutiva del preavviso di cui all’art. 41, comma 5.
Diversa è la formulazione dell’art. 13 del CCNL Dirigenti Industriali, in cui la possibilità delle crisi nel (nuovo) rapporto fiduciario è sottintesa e l’indennità risarcitoria meno elevata ossia il riconoscimento, oltre al trattamento di fine rapporto, di un trattamento pari a 1/3 dell’indennità sostitutiva del preavviso spettante in caso di licenziamento.
Sulla specifica interpretazione della norma, la Cassazione ha ritenuto che essa “accolga un concetto di trasferimento della proprietà dell’azienda non coincidente con quello di cui all’art. 2112 c.c., ma funzionale allo scopo della norma, con la quale le parti stipulanti avevano inteso tutelare il dirigente in tutti i casi in cui il mutamento della proprietà dia luogo a una alterazione del rapporto fiduciario con il datore”.¹
Per questo motivo, è preferibile una interpretazione estensiva della norma contrattuale, per cui è il cambiamento del proprietario dell’azienda a facoltizzare il recesso del dirigente.
Analogamente, a quasi vent’anni di distanza, in un caso di trasferimento del pacchetto azionario di un editore datore di lavoro, la Cassazione ha ritenuto fondate le richieste del dirigente dimissionario in quanto “non si rinviene nell’art. 19 del CCNL alcuna necessità di un formale subentro di una nuova azienda rispetto alla precedente (…), essendo letteralmente sufficiente il solo passaggio di proprietà della maggioranza del capitale sociale anche all’interno della medesima azienda”.²
Analoga la formulazione prevista dal CCNL Dirigenti Agricoli che dapprima ricorda, all’art. 18, che “il trasferimento dell’azienda o, comunque, il cambiamento della titolarità dell’azienda non risolve il rapporto di lavoro”, poi precisa che “il dirigente che non accetti il passaggio alle dipendenze del nuovo titolare dell’azienda o le conseguenze derivanti dalla trasformazione o dalla riduzione dell’azienda, ha diritto a tutte le indennità spettategli come nel caso di licenziamento”.
In argomento, la sentenza della Cassazione n. 9955 del 23 aprile 2018 ha riconosciuto che nel concetto di cambiamento della titolarità dell’impresa devono intendersi compresi, ai fini della tutela contrattuale, anche mutamenti del “soggetto cui faccia capo una percentuale del capitale sufficiente a garantire la nomina dei componenti dell’organo amministrativo”, e quindi il potere di governare l’impresa (come nel caso della cessione del pacchetto azionario di maggioranza). Anche se il soggetto giuridico aziendale non muti esternamente.
Merita di essere ripresa la chiusura finale: “quanto alla sopra ricordata tutela dei contrapposti interessi valga la considerazione che la previsione di una disciplina di favore per il dirigente che intraveda ripercussioni sul rapporto fiduciario in ragione dell’intervenuto mutamento dell’assetto societario salvaguarda anche la nuova proprietà operando, evidentemente, la fiducia anche nel senso del rapporto di tale nuova proprietà con un dirigente di cui non ha più fiducia”.
Ragionamento corretto, e apprezzabile, ma c’è un avverbio di troppo: “più”. La frase sarebbe stata, forse, migliore così: la norma “salvaguarda anche la nuova proprietà (…) nel senso del rapporto di tale nuova proprietà con un dirigente di cui non ha fiducia”. Questo perché la nuova proprietà non può aver perso la fiducia (cioè non averne più) in un dirigente che non conosce, non avendone ancora sperimentato le qualità professionali e non.
Del resto, la via di uscita che, in caso di mutamento della proprietà dell’azienda, è offerta al dirigente legato alla precedente proprietà (e vertice, il più delle volte), è in linea con l’ulteriore principio della Suprema Corte per il quale la “giustificatezza del recesso del datore di lavoro (…) non deve necessariamente coincidere con l’impossibilità della continuazione del rapporto di lavoro o con una situazione di grave crisi aziendale» perché il concetto di giustificatezza deve essere coordinato con la libertà di iniziativa economica ex art. 41 Cost., che sarebbe «negata ove si impedisse all’imprenditore (…) di scegliere discrezionalmente le persone idonee a collaborare con lui ai più alti livelli della gestione dell’impresa”.³
DIMISSIONI PER MUTAMENTO DELLA ATTIVITÀ SOSTANZIALMENTE INCIDENTE SULLA POSIZIONE
In altri casi ancora, l’ipotesi delle dimissioni qualificate del dirigente è collegata a rilevanti cambiamenti organizzativi del datore incidenti sulla posizione in precedenza assegnata. Condizione a cui l’art. 16 del CCNL Dirigenti Industria e l’art. 26 del CCNL Dirigenti Commercio ancorano il riconoscimento dell’indennità sostitutiva del preavviso.
Per il CCNL dei Dirigenti Industria: “il dirigente che, a seguito di mutamento della propria attività sostanzialmente incidente sulla sua posizione, risolva, entro 60 giorni, il rapporto di lavoro, avrà diritto, oltre al trattamento di fine rapporto, anche a un trattamento pari all’indennità sostitutiva del preavviso spettante in caso di licenziamento”.
Il CCNL dei Dirigenti Commercio prevede che il mutamento debba riguardare le proprie mansioni, ma il significato è, all’atto pratico, identico.
Il solo CCNL Dirigenti Industria prevede che tale indennità sostitutiva del preavviso “non ha effetto sulla determinazione dell’anzianità, né per il computo del trattamento di fine rapporto”, al pari di quella liquidata per la mancata accettazione del trasferimento individuale, del trasferimento di proprietà dell’azienda, e per l’ulteriore ipotesi delle dimissioni a seguito dell’apertura di un procedimento penale.
L’interpretazione della norma, e dei suoi presupposti, ha dato origine a un contenzioso nutrito.
In una prima fattispecie⁴ l’azienda aveva attuato una riorganizzazione che per il dirigente aveva comportato la “concentrazione del suo incarico alla responsabilità dell’area commerciale, con sottrazione dell’area di amministrazione, finanza e controllo”: aree affidate al dirigente nella lettera di assunzione, ma poi riservate, da un giorno all’altro, alla gestione del vertice aziendale.
La Suprema Corte chiarisce che l’art. 16 del CCNL Dirigenti Industria è norma più favorevole al dirigente della clausola generale sulla giusta causa, poiché “integra un’autonoma e diversa ipotesi di recesso, per il solo effetto del “mutamento della propria attività sostanzialmente incidente sulle sue posizioni nella sua giuridica ricorrenza obiettiva, rispetto alla giusta causa di recesso eventualmente integrata dal demansionamento vietato del dirigente”.
La Cassazione riprendeva, sul punto, il ragionamento del Giudice di prime cure, che aveva giustamente rilevato come fosse “indifferente, al fine dell’applicazione dell’art. 16 CCNL Dirigenti Industria se tale ridimensionamento abbia o meno integrato gli estremi del demansionamento e della dequalificazione professionale”, poiché l’art. 16 opera sempre, in caso di “mutamenti organizzativi che incidono sulla sua posizione, seppur legittimamente assunti nell’ambito del potere di libertà organizzativa dall’imprenditore” e pertanto non può essere “interpretata alla stregua di una forfetizzazione dell’indennità di recesso per giusta causa”.
Sulla stessa linea si colloca l’ordinanza della stessa Cassazione n. 4296 del 13 febbraio 2023. La Suprema Corte, infatti, citando il precedente del 2015, rigettava il ricorso della azienda, ritenendo che “il mutamento di posizione del dirigente non coincide con la dequalificazione che giustifica le dimissioni per giusta causa ex art. 2119 c.c.” – di cui altrimenti sarebbe solo una duplicazione – bastando “il (mero) verificarsi dell’effetto giuridico del mutamento della posizione del dirigente nell’organizzazione aziendale, a prescindere dalla configurazione di una modifica in senso peggiorativo”.
Ciò non solo per il tenore lessicale della clausola collettiva (priva di connotazioni sul mutamento di posizione), ma anche secondo un “approccio esegetico di natura sistematica”.
Con un’articolata riflessione sulla mobilità nel settore dirigenziale dopo la modifica dell’art. 2103 c.c., la sentenza giungeva alla conclusione che l’art. 16 del CCNL, in quanto norma della contrattazione collettiva, debba avere portata innovativa rispetto agli artt. 2103 e 2119 c.c.
Più in dettaglio, secondo la stessa Corte l’ampio spazio, per il mutamento di mansioni, consentito dal nuovo art. 2103 c.c. in danno dei dirigenti (che non hanno una suddivisione interna in livelli come parametro), rende necessaria la tutela offerta dall’art. 16 del CCNL citato, che si applica a qualsivoglia mutazione di mansioni, anche quindi astrattamente migliorative, o comunque solo diverse, rispetto alle precedenti.
Uno strumento, insomma, pensato anche per i dirigenti meno propensi ad assumersi carichi di responsabilità crescenti, o ad accettare mansioni per le quali, come si esprime la Corte, “è richiesto un diverso apporto professionale”.
DIMISSIONI DOPO IL SUPERAMENTO DEL PERIODO DI COMPORTO
L’art. 11 del CCNL dei Dirigenti Industriali, dopo aver dettagliato il periodo di comporto (comma 1) e la possibilità, su domanda del dirigente, di conservare il posto in aspettativa non retribuita per ulteriori sei mesi (comma 2) prevede al terzo comma che “alla scadenza dei termini sopra indicati ove, per il perdurare dello stato di malattia, il rapporto di lavoro venga risolto da una delle due parti, è dovuto al dirigente il trattamento di licenziamento, ivi compresa l’indennità sostitutiva del preavviso”.
Un esempio di tali controversie è offerto dalla sentenza del Tribunale di Novara n. 55 del 7 marzo 2023 che ha respinto le richieste economiche di un dirigente industriale – ininterrottamente assente per malattia per tredici mesi – dimessosi quasi un mese dopo la scadenza del periodo di comporto.
In tal caso, in assenza di alcuna iniziativa sulla cessazione del rapporto, “il rapporto rimane sospeso salvo la decorrenza dell’anzianità agli effetti del preavviso”, senza alcun obbligo di erogare alcunché da parte dell’azienda.
Nel caso di specie, era invece “pacifico che il ricorrente abbia rassegnato le proprie dimissioni, non alla scadenza del periodo di comporto, ma in data 23 novembre 2021, a distanza di circa un mese dalla scadenza predetta”.
Niente indennità, quindi, perché il citato terzo comma “prevede quale specifico presupposto per la sua operatività l’immediatezza del recesso del dirigente alla scadenza del periodo di comporto”.
Non solo: l’aver “rassegnato le dimissioni con effetto immediato al di fuori dell’ipotesi prevista dall’ art. 11 comma 3 CCNL senza tuttavia addurre alcuna giusta causa di recesso” esponeva il dirigente ritardatario anche all’obbligo di indennizzare l’azienda per il mancato preavviso previsto dal medesimo CCNL, pari a 1/3 delle mensilità spettante per l’ipotesi di recesso datoriale.
Il dirigente era stato evidentemente mal consigliato sulla scelta di tempi e modi del recesso.
DIMISSIONI PER GIUSTA CAUSA: ALCUNE PARTICOLARI IPOTESI A CONFRONTO
Da ultimo il dirigente, di fronte a improvvisi cambiamenti di rilievo, può comunque provare a rivendicare, per il proprio recesso, la giusta causa delle proprie dimissioni, con le conseguenze risarcitorie eventualmente offerte dal proprio contratto collettivo per la liquidazione del preavviso e di indennità aggiuntive (di norma, la c.d. “indennità supplementare”).
La contrattazione collettiva di settore introduce diverse misure compensative per il dirigente dimissionario che riesca a dimostrare (il più delle volte, in sede giudiziale) la sussistenza della giusta causa di recesso invocata.
In particolare, il CCNL Dirigenti del Commercio (art. 40, comma 4) prevede che il dirigente dimissionario per giusta causa possa vantare, oltre all’indennità sostitutiva del preavviso, anche un’indennità supplementare pari a un terzo dell’indennità del preavviso stesso. Analogamente prevedono il CCNL per i Dirigenti delle aziende di autotrasporto (art. 41, comma 4) e il CCNL per i Dirigenti di aziende alberghiere (art. 42, comma 4).
Il CCNL del settore assicurativo (art. 36, comma 2), invece, assegna al dirigente che receda per giusta causa, oltre all’indennità sostitutiva del preavviso, un’indennità supplementare pari a quella prevista in caso di recesso ingiustificato del datore di lavoro.
Il CCNL per i dirigenti industriali, infine, non dispone nulla in proposito, lasciando al dirigente fuoriuscito la sola pretesa dell’indennità sostitutiva del preavviso.
La giurisprudenza si è espressa ampiamente su questo argomento, generando valutazioni, relative alla consistenza degli inadempimenti datoriali addotti, variamente concentrate nelle fasi di merito dei processi, a cui spetta, come noto, il giudizio “di fatto” sulla gravità dei medesimi.
Sul punto, merita tuttavia un commento l’ordinanza n. 18263 del 3 luglio 2024 con cui la Cassazione, rovesciando l’esito dei due gradi precedenti, ha ritenuto viziata la precedente valutazione dei fatti, e integrata una giusta causa di dimissioni.
La vicenda riguardava un dirigente apicale del settore marittimo al quale, in seguito alle sue dimissioni con preavviso, era stata impedita, per cinque giorni, ogni attività lavorativa e ogni accesso in azienda. Circostanza che lo costringeva a dimettersi nuovamente per giusta causa.
La sentenza impugnata sarebbe incorsa in un errore per essersi focalizzata sul dato temporale dei cinque giorni di inadempimento, ritenendo la brevità un requisito quasi dirimente per concludere nel senso dell’assenza della giusta causa. Omettendo, in tal modo, una più ampia valutazione dell’inadempimento datoriale anche relativamente alle brutali “modalità attraverso cui ciò era stato realizzato (ritiro immediato di computer, telefono, carte di credito, chiavi dell’ufficio, disabilitazione dell’account di posta elettronica, assenza di qualsiasi comunicazione sulla durata della sospensione del rapporto)”; elementi “rilevanti ai fini della verifica di sussistenza o meno della impossibilità di prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”.
Tra le ipotesi più frequenti prevalgono le doglianze sull’attribuzione di mansioni inferiori, che impongono di valutare la gravità dell’inadempimento datoriale in relazione a un congruo lasso di tempo.
Così la Cassazione, con l’ordinanza del 20 giugno 2022, n. 19838, analizzati i due anni di rapporto precedenti il recesso, confermava la sussistenza di una dequalificazione professionale di un Direttore tecnico, e avallava la decisione della condanna della società al pagamento dell’indennità di preavviso, considerata la giusta causa di dimissioni⁵.
In altra recente vicenda, la giusta causa di dimissioni è stata invocata da un dirigente apicale del settore industriale, per azionare un accordo privato, siglato con il datore, che gli garantiva una stabilità retributiva e di incarichi durante il rapporto, o la corrispettiva compensazione economica in caso di recesso azionato o indotto dalla società.
La Cassazione, nella ordinanza 3 luglio 2024, n. 18214, respingeva le pretese economiche del dirigente basate sul preteso inadempimento delle obbligazioni contenute nell’accordo. Secondo i giudici, infatti, nessuna delle due condizioni previste dalla scrittura privata si era realizzata: “a) non la prima, atteso che il [dirigente] non è cessato dalla carica per volere» del datore «bensì per dimissioni volontarie (…); b) non la seconda, perché le dimissioni immediate non sono state causate da ripetuti comportamenti dei vertici aziendali, nemmeno in concreto dedotti, ma da motivi personali di aggravamento delle condizioni di salute”.
GIUSTA CAUSA E INADEMPIMENTO RETRIBUTIVO: ORIENTAMENTO SFAVOREVOLE AL DIRIGENTE
Il tentativo del dirigente dimissionario di addebitare al datore una giusta causa – che può approdare in Tribunale con differenti esiti – viene compiuto anche quando le dimissioni non reagiscano a un singolo evento, ma interrompano, in realtà, una sequenza di inadempimenti del datore. Sia quando questi vadano di pari passo con la parabola discendente del suo gradimento in azienda (e al suo graduale ridimensionamento per indurlo a recedere, evitando i rischi e i costi di un licenziamento); sia quando gli stessi inadempimenti riguardino solo il trattamento economico per il quale il dirigente, in genere, rivendica maggiori importi.
È il caso trattato da Cass., 8 agosto 2022, n. 24432, di cui è protagonista un dirigente con oltre dieci anni di anzianità aziendale, che nel 2013 rassegnava le proprie dimissioni per giusta causa “avendo verificato che a partire dal 2008 non gli era stata corrisposta la retribuzione nella misura convenuta”, per erronea applicazione dei vari CCNL dei Dirigenti Industria succedutisi nel tempo.
Secondo la prospettazione del dirigente, l’azienda avrebbe disatteso la disciplina transitoria sugli scatti di anzianità, riducendo indebitamente il suo compenso.
La Cassazione, osservando preliminarmente che sulle differenze retributive vantate si dovesse confermare il giudizio di merito (sulla base del rinvio alla contrattazione di settore succedutasi nel tempo), confermava anche l’insussistenza della giusta causa, “in mancanza di una prova del fatto che la mancata percezione delle somme da erogare mensilmente, pur cumulativamente di importo rilevante, abbiano inciso sull’immediato soddisfacimento delle esigenze di vita del lavoratore e della sua famiglia”.
Ovvero, difettava una giusta causa perché il dirigente non aveva né dedotto (né provato), che la mancata erogazione periodica dei singoli importi rivendicati avesse cagionato, ogni volta, un danno immediato alle basilari esigenze della sua vita familiare.
Anzi, secondo la Cassazione, la silenziosa prosecuzione del rapporto per anni diventava indicativa, piuttosto, dell’assenza di una giusta causa, “sempre che il ritardo suddetto non assuma un significato di gravità per avere il lavoratore dovuto provvedere con mezzi sostitutivi della retribuzione non corrisposta alla scadenza contrattuale o consuetudinaria (…): circostanza che, però, deve essere oggetto di allegazione e prova”, mancante nel caso di specie.
Pertanto, non è il prorogarsi di un inadempimento a escludere ex se la giusta causa: da un lato occorre valutare i singoli inadempimenti; dall’altro spetta al dirigente “allegare specificatamente quale incidenza pregiudizievole la condotta datoriale abbia avuto”.
Non potendosi procedere, specialmente in queste circostanze, sulla base di presunzioni.
GIUSTA CAUSA E INADEMPIMENTO RETRIBUTIVO: ORIENTAMENTO FAVOREVOLE AL DIRIGENTE
In altra recentissima pronuncia⁶ la Suprema Corte ha affrontato ancora il tema del rapporto tra inadempimento retributivo e giusta causa di dimissioni, riconoscendo al dirigente le tutele indennitarie del caso.
La vicenda riguardava il recesso di un dirigente in reazione a due successive contrazioni del suo compenso: dapprima un taglio del 10% della sua retribuzione effettuato in base a un accordo non formalizzato in sede protetta (in violazione dell’art. 2103 c.c.); poi, per l’unilaterale decisione della società, anch’essa non siglata in sede protetta, di addebitare al dirigente, in misura maggiore al pattuito, i costi della vettura aziendale, concessagli a uso promiscuo.
La Cassazione respingeva in toto i motivi proposti.
Innanzitutto, ribadendo il principio di irriducibilità della retribuzione, che nella nuova formulazione dell’art. 2103 c.c. consente modifiche peggiorative solo “in caso di modifica di mansioni, qualora concordate, con determinati presupposti, e formalizzate esclusivamente in sede protetta, a pena di nullità”.
In secondo luogo, sottolineando che se neppure un mutamento di mansioni ricorre, la retribuzione è a maggior ragione irriducibile, specie se al di fuori della sede protetta.
Dunque, da un lato confermava la nullità dell’accordo di riduzione della retribuzione, dall’altro confermava la natura retributiva dell’uso promiscuo dell’auto aziendale, a cui si applicava, quindi, il principio di irriducibilità.
La Suprema Corte liquidava poi le altre censure sulla giusta causa, in particolare ritenendo ininfluente la “conoscenza, da parte del dirigente poi dimessosi, delle ragioni di crisi aziendale poste a fondamento della riduzione retributiva” e “riconducendo la sottoscrizione dell’accordo a un metus, piuttosto che alla condivisione della scelta aziendale”.
In sostanza, la consapevolezza del dirigente che la riduzione della retribuzione fosse giustificata da una effettiva crisi aziendale non escludeva la giusta causa di dimissioni, perché tale conoscenza non equivaleva a un avallo della riduzione retributiva, evidentemente decisa unilateralmente dalla Società.
Anche la sottoscrizione di quell’accordo peggiorativo da parte del medesimo, lungi dal denotare consapevolezza o complicità nell’operazione, doveva considerarsi semplicemente motivata da timori di ulteriori ripercussioni.
(*) Sintesi dell’articolo pubblicato in D&PL, 10/2025, pag. 611 dal titolo Dimissioni qualificate del dirigente