Può un periodo di ferie interrompere la malattia, al fine di evitare il superamento del periodo di comporto fissato dal Ccnl? Se sì, a quali condizioni? Si può dire che esiste un principio giuridico generale di convertibilità delle cause di assenza dal lavoro? Sono questi i punti sinteticamente affrontati dalla Corte di Cassazione con ordinanza n. 582 dell’8 gennaio 2024. Il caso oggetto di giudizio è quello di un lavoratore che, al fine di impedire il superamento del periodo di comporto (esterno) contrattuale, al termine di un periodo di malattia chiedeva e otteneva l’autorizzazione a fruire di una settimana di ferie, in prossimità del periodo estivo di chiusura collettiva aziendale. Concluso il periodo di ferie il lavoratore riprendeva la malattia. Il datore di lavoro procedeva al licenziamento ritenendo superato il periodo di comporto fissato dal Ccnl applicato, sul presupposto che qualora “tra la fine di una malattia e l’inizio di un’altra vi siano dei giorni festivi o comunque non lavorati, si debba presumere che la malattia sia continuativa”. Il datore di lavoro sosteneva infatti che sarebbe stato onere del lavoratore provare che in assenza del periodo di ferie il medesimo sarebbe stato nelle condizioni per prestare l’attività lavorativa, mentre in assenza di tale prova quei giorni non potevano che essere imputati al congedo per malattia, ancorché questo determinasse il superamento del periodo di comporto. Come già nei precedenti gradi di giudizio sul caso, anche la Cassazione ha rigettato tale interpretazione e ritenuto illegittimo il licenziamento. Nelle sue motivazioni, la Corte ha richiamato i seguenti principi di un consolidato indirizzo di legittimità cfr. Cass., n. 26997/2023; Cass., n. 10725/2019 e giurisprudenza ivi citata: – al lavoratore assente per malattia è consentito mutare il titolo dell’assenza con la richiesta delle ferie già maturate, al fine di sospendere il decorso del periodo di comporto. Una eventuale successiva volontaria rinuncia da parte del lavoratore alle ferie autorizzate, dovrà essere espressa in modo chiaro ed inequivoco, e non potrà essere presunta dal datore di lavoro, per un duplice ordine di motivi: 1) perché le ferie sono un diritto costituzionalmente garantito (e la pregnanza di tale garanzia costituzionale non viene meno se la fruizione delle ferie non risponde direttamente alla funzione della reintegrazione delle energie psicofisiche, come nel caso in cui le ferie vengano richieste dal lavoratore per evitare il superamento del periodo di comporto); 2) per la rilevanza del fondamentale diritto alla conservazione del posto di lavoro che verrebbe meno con il superamento del periodo di comporto, e che il periodo di ferie autorizzato interrompe; – tuttavia, il diritto del lavoratore a mutare il titolo delle assenze (tutelate) dal lavoro non è incondizionato, dovendo essere bilanciato con il potere organizzativo del datore di lavoro, che ha la sua radice nell’art. 41 Cost. e in merito al quale l’art. 2109 c.c. prevede che il periodo feriale è fissato “nel tempo che l’imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del prestatore di lavoro”; – pertanto, se in base ai principi di correttezza e buona fede, “a fronte di una richiesta di conversione della malattia in ferie il datore di lavoro è tenuto ad una considerazione e ad una valutazione adeguate alla posizione del lavoratore in quanto esposto alla perdita del posto di lavoro con la scadenza del comporto”, è anche vero che tale obbligo datoriale non è ragionevolmente configurabile qualora il lavoratore possa fruire di altre forme di tutela del rapporto di lavoro, come ad esempio il ricorso ad una aspettativa non retribuita, ove prevista dalla contrattazione collettiva o da regolamentazione aziendale (così Cass. civ., sez. lav., 27.3.2020, n. 7566; e in termini esatti o analoghi id., 5.4.2017, n. 8834; id., 22.3.2005, n. 6143; id., 10.11.2004, n. 21385; id., 9.4.2003, n. 5521; id., 8.11.2000, n. 14490). Con le suddette motivazioni la Corte si inserisce nel filone giurisprudenziale inaugurato, su caso analogo, da Cass. n. 2608 del 30 marzo 1990. Tale ultima sentenza aveva previsto che, per effetto della pronuncia della Corte Costituzionale n. 616 del 1987, che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2109 c.c. nella parte in cui non prevedeva la sospensione del periodo feriale all’insorgere dell’evento di malattia, “deve ritenersi introdotto nell’ordinamento giuridico il principio di conversione delle cause di assenza dal lavoro e cioè della possibilità di mutamento del titolo dell’assenza stessa, ancorché in corso, in altro che presupponga una diversa giustificazione”. La Corte di Cassazione, nella medesima sentenza n. 2608 del 30 marzo 1990, aveva reso noto di aver elaborato tale principio giurisprudenziale in difetto di una disciplina legislativa di dettaglio, precisando che anche il periodo di comporto, ai fini dell’art. 2110 c.c., diviene suscettibile di interruzione per effetto della richiesta del dipendente di godere il periodo feriale, che il datore di lavoro deve concedere anche in costanza di malattia del dipendente stesso. Premessi i sopra richiamati principi la Suprema Corte ha precisato che, nel caso specifico: – non era stata fornita prova “che il lavoratore avrebbe potuto beneficiare di istituti contrattuali alternativi alle ferie” risultando invece accertata l’autorizzazione delle ferie da parte del datore di lavoro in prosecuzione della malattia; – la richiesta di ferie avanzata con decorrenza dal primo giorno successivo al termine di assenza per malattia esprimeva la volontà di assentarsi per un titolo diverso da quello che sino a quel momento aveva giustificato l’assenza, con conseguente corretta interruzione del periodo di comporto alla data di scadenza della certificazione medica. La Corte di Cassazione ha pertanto rigettato il ricorso della società condannandola al pagamento delle spese di lite.