Sottoposto all’ennesimo vaglio di costituzionalità, l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori esce dall’aula della Consulta nuovamente rimodellato e rafforzato nella tutela offerta ai lavoratori in caso di licenziamento illegittimo. Dopo la sentenza pronunciata lo scorso anno che ha censurato la facoltà che veniva lasciata ai giudici di comminare, in caso di manifesta insussistenza del motivo oggettivo sotteso al recesso, alternativamente la reintegrazione o la sola indennità risarcitoria1, la Corte Costituzionale è tornata a pronunciarsi sul settimo comma dell’art. 18. Per comprendere la portata innovatrice della sentenza in commento, occorre ricordare che in caso di illegittimità del licenziamento per motivo oggettivo il nostro ordinamento prevedeva due diverse sanzioni: prima dell’intervento dei giudici costituzionali, se l’insussistenza del fatto posto alla base del recesso era “manifesta”, il lavoratore poteva contare sulla tutela reintegratoria, che – oltre alla riammissione in servizio – prevede il diritto del lavoratore a vedersi corrispondere un’indennità risarcitoria parametrata all’ultima retribuzione globale di fatto comunque non superiore a dodici mensilità, nonché la copertura contributiva per tutto il periodo di illegittima estromissione. Nelle altre ipotesi in cui era accertato dal giudice che non ricorrevano gli estremi del giustificato motivo oggettivo la sanzione prevista era unicamente risarcitoria, determinata dal giudicante tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Dunque, il diritto alla tutela reintegratoria si giocava sul campo della prova circa il carattere manifesto o meno di uno stesso, identico fatto: l’insussistenza del motivo oggettivo. Ci significa che la differente tutela non era legata alla diversa intensità del vizio del quale risultava essere affetto il recesso, ma alla facilità e rapidità con le quali era possibile farlo accertare giudizialmente, dunque, atteneva a profili prettamente processuali e non sostanziali. La questione di legittimità costituzionale della norma è stata sollevata dal Tribunale di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, che – rimettendo la questione all’alto Consesso – ha sottolineato come una simile disciplina sanzionatoria contrastasse con il principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 della Carta costituzionale sotto molteplici aspetti. Innanzitutto, la disciplina sanzionatoria del licenziamento per motivo oggettivo divergeva senza motivo da quella del recesso per motivo soggettivo dichiarato illegittimo, sanzionato – in caso di insussistenza del fatto – sempre con la reintegrazione, senza alcun rilievo circa la natura manifesta o meno della violazione. Anche nel caso di vizio del recesso conseguente ad un’errata applicazione dei criteri di scelta nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo, al lavoratore è assicurata la tutela reintegratoria, inspiegabilmente preclusa (se non in caso di prova del carattere manifesto della violazione) ai licenziamenti per motivo oggettivo individuali. Peraltro, il criterio individuato dal Legislatore sarebbe stato – per il magistrato del lavoro ravennate – “illogico”, in quanto incerto nella sua concreta applicazione e carente di “un preciso e concreto metro di giudizio” idoneo a definire il carattere manifesto dell’insussistenza del fatto. Infine, l’irragionevolezza della disposizione censurata sarebbe risultata evidente anche nell’inversione dell’onere della prova disposta nella stessa norma: sebbene estraneo alle circostanze che hanno determinato il licenziamento, il lavoratore avrebbe dovuto provare la manifesta insussistenza dei fatti sottesi al recesso, con una conseguente irragionevole compressione del diritto del lavoratore di agire in giudizio in quanto troppo onerosa la prova a suo carico. La Corte Costituzionale ha accolto le istanze del Tribunale di Ravenna, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della L. n. 300 del 1970, limitatamente alla parola “manifesta”2. Pertanto, oggi, tutte le volte che si accerti giudizialmente l’insussistenza del fatto sotteso ad un licenziamento per motivo oggettivo, il giudice è tenuto a riconoscere al lavoratore la tutela reintegratoria.
Partendo dall’assunto che il diritto del lavoratore di non essere ingiustamente licenziato si fonda sui principi enunciati dagli artt. 4 e 35 della Costituzione, che tutelano il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni in quanto fondamento del nostro ordinamento repubblicano, i giudici di legittimità hanno innanzitutto ricordato che “la diversità dei rimedi previsti dalla legge deve essere sempre sorretta da una giustificazione plausibile e deve assicurare adeguatezza delle tutele riservate al lavoratore illegittimamente espulso” 3. Cio’ non significa – tiene comunque a ribadire il Supremo Consesso – che la reintegrazione costituisca l’unico possibile paradigma attuativo dei principi costituzionali a tutela del lavoro4, concetto questo che, in passato, ha “salvato” l’impianto sanzionatorio pensato in caso di recesso illegittimo dei contratti a tutele crescenti, che – salvo rari casi – non contempla il rimedio reintegratorio5. Tuttavia, ove si pensi all’impostazione dell’art. 18 – come novellato dalla Legge Fornero nel 20126 – non pu non rilevarsi come questa sia tutta incentrata sulla nozione di “insussistenza del fatto”, a prescindere dal motivo soggettivo od oggettivo sotteso al recesso. Tale insussistenza, come disposto dall’art. 5, L. n. 604/66, è onere del datore di lavoro provarla, con un’inversione dell’onere probatorio pensata come ulteriore tutela del lavoratore contro scelte datoriali illecite. Se dunque alla base dell’illiceità del recesso vi è l’insussistenza del fatto, differenziare la sanzione a seconda dell’immediatezza della sua prova non ha alcuna ragione plausibile. Peraltro, la prova del carattere manifesto dell’insussistenza del fatto – cui sarebbe pure onerato il lavoratore, ossia il soggetto più lontano dalle ragioni che hanno portato alla decisione estromissiva – è nella prassi impresa non facile, attesa l’indeterminatezza del requisito previsto per legge. “Il criterio prescelto dal legislatore si presta, infatti, ad incertezze applicative e puo’ condurre a soluzioni difformi, con conseguenti ingiustificate disparità di trattamento (…) La scelta tra due forme di tutela profondamente diverse è rimessa a una valutazione non ancorata a precisi punti di riferimento, tanto più necessari quando vi sono fondamentali esigenze di certezza, legate alle conseguenze che la scelta stessa determina” 7.
Inoltre, sottolineano sempre i giudici costituzionali nella sentenza in commento, il criterio della “manifesta insussistenza” risulta eccentrico nell’apparato dei rimedi previsti nel nostro ordinamento giuridico, usualmente incentrato sulla diversa gravità dei vizi e non su una contingenza accidentale legata alla linearità e celerità dell’accertamento. Linearità che peraltro non contraddistingue certamente le controversie che attengono a licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, che hanno un quadro probatorio spesso articolato. Peraltro, sottolinea sempre l’alto Consesso, il requisito del carattere “manifesto” dell’insussistenza del fatto rende paradossalmente ancora più lungo e complesso l’accertamento giudiziale. Infatti, un sistema congegnato su un requisito così indeterminato e ulteriore rispetto al disvalore dell’illecito, allunga inevitabilmente la fase istruttoria del processo, perché – dopo aver accertato l’insussistenza del motivo oggettivo – il giudice dovrà soffermarsi anche sulla valutazione del carattere più o meno manifesto dell’insussistenza. Alla luce, dunque, delle osservazioni sopra riportate, la Consulta ha ritenuto irragionevole, illogico e non equo differenziare le sanzioni sul carattere manifesto dell’insussistenza del motivo oggettivo, assicurando ai lavoratori la reintegrazione tutte le volte che la riorganizzazione aziendale con conseguente soppressione del posto di lavoro sia ineffettiva e dunque insussistente. Rimane invece la tutela meramente risarcitoria negli altri casi di illegittimità del recesso, che non abbiano a che vedere con l’effettività della riorganizzazione o della soppressione del ruolo, quali la violazione dell’obbligo di repêchage o dei principi di correttezza e buona fede nella scelta del lavoratore da licenziare nel caso in cui vi fossero più prestatori con mansioni tra loro fungibili. Insomma, la sentenza in commento segna un ennesimo passo verso il ritorno alla disciplina dell’art. 18 pensata negli anni Settanta, quando la sicurezza del posto di lavoro veniva prima di qualsiasi altra forma risarcitoria meramente economica. Il posto di lavoro come bene della vita non (o comunque, non sempre) monetizzabile, valore di rango costituzionale che – rappresentando un’estrinsecazione della persona e della sua dignità – viene sempre più corazzato e protetto dal potere economico datoriale.
1. Corte Cost., 1 aprile 2021, n. 59.
2. Corte Cost., 19 maggio 2022, n. 125.
3. Sempre Corte Cost., 19 maggio 2022, n. 125.
4. Corte Cost., 1 aprile 2021, n. 59; così anche sentenza Corte Cost., 7 febbraio 2000, punto 5 del considerato in diritto.
5. Corte Cost. 8 novembre 2018, n. 194 con la quale è stata dichiarata “non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, censurato dal Tribunale di Roma, terza sez. lavoro, in riferimento all’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’ingiustificata disparità di trattamento dei lavoratori assunti dal 7 marzo 2015, cui si applica, in caso di licenziamento illegittimo, la tutela solo economica prevista dal d.lgs. n.
23 del 2015, rispetto a quelli assunti anteriormente, cui si applica la più favorevole tutela – specifica (reintegrazione nel posto di lavoro) e per equivalente (risarcimento del danno) – prevista dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970”.
6. L. 28 giugno 2012, n. 92.
7. Sempre Corte Cost., 19 maggio 2022, n. 125.