INADEMPIENZA CONTRATTUALE PER NEGLIGENZA E IMPERIZIA: legittimo il licenziamento del lavoratore anche in assenza di codice disciplinare affisso in azienda

Emilia Scalise, Consulente del Lavoro in Milano

Il potere di risolvere il contratto di lavoro subordinato in caso di notevole inadempimento degli obblighi contrattuali deriva al datore di lavoro direttamente dalla legge […] e non necessita, per il suo legittimo esercizio, di una dettagliata previsione, nel contratto collettivo o nel regolamento disciplinare predisposto dal datore di lavoro, di ogni possibile ipotesi di comportamento integrante il suddetto requisito, spettando al giudice di verificare, ove si contesti la legittimità del recesso, se gli episodi addebitati non integrino fattispecie legale”. Lo afferma la Corte di Cassazione con la sentenza n. 20284 del 14 luglio 2023. I giudici di legittimità hanno rigettato il ricorso di un lavoratore, licenziato per scarso rendimento, accogliendo pienamente la posizione adottata dalla Tribunale, prima, e dalla Corte di Appello, dopo.

Entrando nel vivo dei fatti, la vicenda vede partecipe un lavoratore assunto in qualità di venditore di I livello, dal cui contratto di assunzione si evince quale prestazione lavorativa la realizzazione di target di produzione periodicamente stabiliti dalla Società. La società procedeva quindi al licenziamento del lavoratore per scarsa produttività dimostrata da un confronto tra risultati raggiunti con gli obiettivi previsti dalla programmazione aziendale, equiparando anche i risultati raggiunti da parte degli altri lavoratori con stessa mansione e ruolo.

Il lavoratore, pertanto, procedeva ad impugnare il licenziamento intimandone l’illegittimità. A fronte del rigetto sia in primo che in secondo grado, lo stesso proponeva nuovo ricorso in Cassazione sulla base di dodici motivi. Ai fini della nostra trattazione, ci soffermeremo solamente sul settimo, l’ottavo e il nono motivo di ricorso, mediante i quali non solo la Cassazione ribadisce le condizioni in cui è indispensabile l’affissione del codice disciplinare, ma si esprime anche con riferimento ad altri due elementi fondamentali legati al procedimento disciplinare ex art. 7 della Legge n. 300/1970, quali l’obbligo di motivazione e la recidività.

L’AFFISSIONE DEL CODICE DISCIPLINARE (SETTIMO MOTIVO DI RICORSO)

Con il settimo motivo di ricorso, il ricorrente lamentava la falsa applicazione dell’art. 7 della Legge n. 300/1970 per quanto concerne la pubblicità del codice disciplinare. Secondo la Cassazione, tale motivo di ricorso risulta infondato. In particolare, secondo i giudici di legittimità, il potere di risolvere il contratto di lavoro subordinato in caso di notevole inadempimento degli obblighi contrattuali non necessita, per il suo legittimo esercizio, di una dettagliata previsione, nel contratto collettivo o nel regolamento disciplinare predisposto dal datore di lavoro.

Pertanto, anche se non specificamente previste dalla normativa negoziale, costituiscono ragione di valida intimazione del recesso le gravi violazioni dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro ossia quei doveri che sorreggono la stessa esistenza del rapporto (art. 2104 c.c. rubricato “diligenza del prestatore di lavoro” e art. 2105 c.c. rubricato “obbligo di fedeltà”), nonché quelli derivanti dalle direttive.

Con riferimento alle sanzioni disciplinari di cui all’art. 7 della L. n. 300 del 1970, secondo la Cassazione, è opportuno, quindi, distinguere gli illeciti relativi alla violazione di specifiche prescrizioni attinenti all’organizzazione aziendale e ai modi di produzione, conoscibili solamente in quanto espressamente previste, dagli illeciti concernenti comportamenti manifestamente contrari ai doveri dei lavoratori e agli interessi dell’impresa, per i quali non è invece richiesta la specifica inclusione nel codice disciplinare.

IL RUOLO DELL’OBBLIGO DI MOTIVAZIONE (OTTAVO MOTIVO DI RICORSO)

Con l’ottavo motivo di ricorso il lavoratore denunciava la violazione dell’art. 2, co. 2 della Legge n. 604/1966 con riferimento all’obbligo di motivazione.

Anche su questo motivo di ricorso, la Cassazione si è espressa negativamente: infatti, secondo i giudici di legittimità, è sufficiente il richiamo della lettera di contestazione disciplinare all’interno della lettera di licenziamento ai fini dell’assolvimento dell’obbligo di motivazione di cui sopra.

In particolare, secondo la Cassazione, “Nel procedimento disciplinare a carico del lavoratore, l’essenziale elemento di garanzia in suo favore è dato dalla contestazione dell’addebito, mentre la successiva comunicazione del recesso ben può limitarsi a richiamare quanto in precedenza contestato, non essendo tenuto il datore di lavoro a descrivere nuovamente i fatti in contestazione per rendere puntualmente esplicitate le motivazioni del recesso e per manifestare come gli stessi non possano ritenersi abbandonati o superati”.

LA RECIDIVITÀ (NONO MOTIVO DI RICORSO)

Il nono motivo di ricorso, invece, richiama agli atti la violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della Legge n. 300/1970 per quanto concerne l’obbligo di contestazione della recidiva. Viene tuttavia rigettato anche questo motivo di ricorso.

Secondo gli Ermellini, non ricorre alcuna violazione in quanto la Corte d’Appello aveva confermato la statuizione di primo grado avendo interpretato la stessa come avvenuta valutazione non della recidiva in senso tecnico, bensì della “recidività”, cioè della reiterazione delle medesime condotte quale dato rilevante al fine della valutazione di gravità dell’elemento soggettivo: “La preventiva contestazione dell’addebito al lavoratore incolpato deve necessariamente riguardare, a pena di nullità della sanzione del licenziamento disciplinare, anche la recidiva, e i precedenti disciplinari che la integrano, solo quando la recidiva medesima, secondo quanto previsto dalla contrattazione collettiva applicabile, rappresenti un elemento costitutivo della mancanza addebitata e non già un mero criterio, quale precedente negativo della condotta, di determinazione della sanzione proporzionata da irrogare per l’infrazione disciplinare commessa”.

CONCLUSIONI

In conclusione, possiamo quindi sostenere che, secondo i giudici di merito e di legittimità, non risulta essere necessaria la pubblicità del codice disciplinare in relazione a una condotta consistente in un “grave inadempimento della prestazione lavorativa, rimproverabile al lavoratore a titolo di colpa per la negligenza e l’imperizia”. Secondo la Cassazione, deve essere data adeguata pubblicità al codice disciplinare con riferimento a comportamenti che violano mere prassi operative, non integranti usi normativi o negoziali.


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