IN ARRIVO UNA SENTENZA DELLE SEZIONI UNITE A TUTELA DEL DIRITTO DI DIFESA

Nina Catizone, Consulente del Lavoro in Torino

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Quanto mai pressante è diventata in questi giorni l’esigenza che i processi penali in materia di sicurezza sul lavoro tutelino effettivamente le ragioni delle vittime dei reati, e che pertanto non si celebrino con una tale lentezza o superficialità da concludersi con la prescrizione, se non con l’assoluzione. Ma altrettanto indispensabile è tener ben presente un’altra esigenza viceversa troppo spesso passata sotto silenzio. L’esigenza che occorre rispettare con rigore le garanzie previste a tutela dell’imputato, perché la libertà di una persona è sacra. Non senza contare che a ben vedere la violazione di queste garanzie può comportare controproducenti intralci, tali da mettere in forse la conclusione del procedimento penale nel rispetto dei termini di prescrizione del reato di omicidio colposo o lesione personale colposa.

IL DIRITTO DI DIFESA DELL’IMPUTATO

Fanno scuola in proposito gli insegnamenti giurisprudenziali impartiti su vari fronti. Come l’indicazione data da Cass. pen., 28 febbraio 2025, n. 8298 che annulla con rinvio la condanna alla reclusione in tre anni e sei mesi di un committente per l’infortunio mortale occorso per caduta dalla tettoia della sua azienda a un settantasettenne privo dei necessari requisiti fisici: e ciò per la nullità con conseguente inutilizzabilità del verbale di accertamenti urgenti compiuti dagli ispettori dell’ASL in violazione delle garanzie difensive.

UNA SENTENZA DELL’ULTIMA ORA

Ma è una sentenza dell’ultima ora a lanciare un messaggio particolarmente prezioso in rapporto a un fenomeno in crescente sviluppo nel mondo del lavoro. Basti pensare a quegli appalti intra-aziendali e a quei cantieri edili o d’ingegneria civile che compongono l’universo in cui attualmente più imperversano infortuni e persino disastri. Appalti e cantieri nei quali vediamo ormai comparire anche lavoratori distaccati da imprese non italiane. E basilare diventa, quindi, il messaggio lanciato dalla Sezione Quarta nella sentenza n. 30478 del 9 settembre 2025.

a) Il caso è quanto mai emblematico, anzitutto per la complessità della vicenda sottostante all’infortunio. La Corte d’Appello conferma la condanna di una imprenditrice tedesca alla pena della reclusione di tre anni, per aver colposamente cagionato la morte di un proprio dipendente quale tecnico supervisore al montaggio e alle prove avvenuta nello stabilimento italiano di una s.p.a. durante l’esecuzione di un collaudo idraulico di un serbatoio in pressione destinato a una società statunitense.

b) Agevole comprendere, sin dalla stessa narrazione della vicenda, la complessità anche tecnica degli addebiti di colpa mossi all’imputata. E ben s’intende la motivazione sottostante al ricorso proposto dall’imputata avverso la condanna inflitta dalla Corte d’Appello: omessa traduzione degli atti nella lingua da lei conosciuta dall’imputata.

c) E qui emerge un ulteriore motivo d’interesse della sentenza n. 30478/2025. Perché la Sez. IV anticipa a ben vedere le soluzioni adottate in materia dalle Sezioni Unite con decisione del 29 maggio 2025 a seguito del ricorso n. 39137/2024, basandosi sulla relativa “informazione provvisoria” già disponibile. Tre i quesiti affrontati dalle Sezioni Unite:

1) “se il decreto di citazione per il giudizio di appello debba essere tradotto in una lingua nota all’imputato che non conosca la lingua italiana”;

2) “se la sentenza debba essere tradotta in una lingua nota all’imputato che non conosca la lingua italiana”;

3) “se la mancata traduzione del decreto di citazione per il giudizio di appello e della sentenza in una lingua nota all’imputato che non conosca la lingua italiana integrino una nullità generale a regime intermedio”. La Sez. IV prende atto che le soluzioni adottate dalle Sezioni Unite con riferimento ai primi due quesiti sono affermative. Quanto al terzo quesito, segnala che le Sezioni Unite hanno stabilito che la mancata traduzione del decreto di citazione per il giudizio d’appello in una lingua nota all’imputato che non conosca la lingua italiana comporta la nullità generale a regime intermedio dello stesso ove riguardante le indicazioni di cui al combinato disposto degli artt. 601, comma 6, e 429, comma 1, lett. f), c.p.p., e che la mancata traduzione della sentenza in una lingua nota all’imputato che non conosca la lingua italiana comporta la nullità generale a regime intermedio della “sentenza-documento”, con conseguente rinvio al giudice del grado precedente per la traduzione stessa.

d) Quanto mai istruttive per i difensori italiani di imputati alloglotti sono le considerazioni svolte a proposito del loro ruolo. Mal si comprende -rileva la Sez. IV- come potrebbe l’imputato, che non comprende la lingua italiana e al quale non è stata data traduzione della sentenza, dedurre personalmente la violazione dell’art. 143 c.p.p., concernente il diritto all’interprete e alla traduzione di atti fondamentali. Spiega che la proposizione di eccezioni in senso tecnico è attività propria del difensore, e che la richiesta di traduzione non può configurarsi quale uno degli atti personalissimi che il codice di rito riserva alla parte, in quanto espressione di poteri dispositivi di diritti soggettivi sottratti, in quanto tali, al potere di rappresentanza attribuito al difensore. A supporto di questa soluzione, la Sez. IV mette in luce, anzitutto, che l’art. 143 c.p.p., in attuazione delle previsioni contenute nella direttiva 2010/64/UE del Parlamento e del Consiglio del 20 ottobre 2010 sul diritto all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali, ha previsto, al comma 2, che il diritto dell’imputato alla traduzione scritta dei principali atti del procedimento (fra i quali viene dal legislatore espressamente ricompresa la sentenza) è finalizzato a consentire il concreto esercizio dei diritti e delle facoltà della difesa, ragion per cui il legislatore l’ha resa obbligatoria, non avendo introdotto alcun preventivo onere di richiesta della traduzione. E aggiunge che, proprio in virtù della presunzione ope legis della necessità della traduzione, non è neppure richiesto che l’imputato eccepisca l’esistenza di un concreto e reale pregiudizio alle sue prerogative, poiché un tale pregiudizio è già presente in re ipsa e permane fino all’adempimento dell’obbligo di traduzione dell’atto. E ancora. La comprensione linguistica del provvedimento giurisdizionale non costituisce mero presupposto formale, bensì condizione ontologica per l’esercizio consapevole delle prerogative difensive. L’imputato alloglotto, privo dell’accesso diretto al contenuto decisorio, si trova nell’impossibilità di valutare la fondatezza della pronuncia e di individuare i profili di doglianza meritevoli di censura. E a sua volta, il difensore, per quanto tecnicamente preparato, non può surrogare tale valutazione: la percezione del pregiudizio subito, la comprensione delle incongruenze fattuali, l’individuazione di possibili travisamenti probatori, richiedono quella cognizione immediata e personale che solo la lettura diretta nella propria lingua può garantire. Ecco perché la piena intellegibilità del provvedimento nella lingua dell’imputato costituisce il presupposto indefettibile per quella interlocuzione consapevole tra assistito e difensore che rappresenta l’essenza stessa della difesa tecnica.

e) Di qui una conclusione che induce a meditare. La condanna della datrice di lavoro alloglotta a tre anni di reclusione per l’infortunio mortale sul lavoro occorso a un dipendente -si badi- nel 2013 è annullata senza rinvio limitatamente alla sua omessa traduzione in una lingua conosciuta all’imputata, con trasmissione degli atti alla Corte d’Appello per gli adempimenti conseguenti, e segnatamente con il compito di rendere il provvedimento linguisticamente accessibile all’imputata di lingua tedesca.

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