IL SALARIO MINIMO LEGALE: l’ultima minaccia (in ordine di tempo) alla contrattazione collettiva?

MICHELE SQUEGLIA , Professore Associato di diritto del lavoro, della previdenza sociale e della sicurezza del lavoro della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano

Sommario: 1. Premessa. – 2. Gli equivoci di un problema mal posto. 3. – Le ragioni del “no” alla legge sul salario minimo. 4. Qualche soluzione dal diritto positivo 1

1.PREMESSA

Nei limiti dello spazio affidatomi, proverò a illustrare le ragioni per le quali sostengo che non è convincente un intervento legislativo in materia salariale, almeno nei termini che si vorrebbe fosse realizzato.
Il dibattito che è intervenuto in questi mesi sul salario minimo legale ripropone l’immagine di un Paese sospeso tra la paura di cambiare e la necessità di farlo.
Nelle diverse proposte di legge che si sono succedute in questi anni, a cavallo di due legislature (sette solo in quest’ultima), è rispecchiata un’illusione largamente diffusa, che una disciplina che introduca livelli retributivi minimi annulli in un battito d’ali le condotte elusive dei datori di lavoro, prima fra tutte quelle che originano dalla negoziazione di contratti collettivi c.d. pirata, e quelle che, trincerandosi dietro al diritto alla libera concorrenza e alla libera prestazione di servizi, aggirano o, forse meglio, by-passano l’applicazione del contratto collettivo del settore, peraltro confortate da autorevoli orientamenti giurisprudenziali (il riferimento è alla sentenza Rynair della Corte UE del 24 maggio 2023, n. 268).
Il richiamo poi al contesto sovranazionale e, in particolare, all’esistenza di forme di salario minimo normativamente regolate in 22 paesi dell’Unione Europea, ma anche all’emanazione della direttiva 2022/2041/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 ottobre 2022 genera aspettative illusorie (e ingannevoli) perché associano allo schema italiano modelli che hanno ben altre premesse.
Non vi è alcun dubbio che siffatte condotte datoriali gradatamente elusive della disciplina del lavoro producono effetti gravissimi e, dunque, vanno neutralizzate e, con ogni mezzo, soppresse: la diffusione del fenomeno economico-sociale del lavoro povero, l’indebolimento del modello di lavoro subordinato, la divaricazione delle disuguaglianze in termini di gender pay gap, la proliferazione dei contratti collettivi nazionali, l’inadeguatezza del concetto di categoria merceologica alla base dell’applicazione della contrattazione collettiva.
Tuttavia, sulla dibattuta questione si annida un equivoco del quale è opportuno dare conto in questa sede.
Una cosa è affermare che una legge sui salari minimi è operazione tecnicamente e normativamente possibile; altra cosa è sostenere che una legge per produrre benefici deve essere accompagnata da altre necessarie proposte di cambiamento al fine di non generare ulteriori e più gravi anomalie. In ogni caso, neppure si tratta, come è stato recentemente sostenuto in dottrina, “anacronisticamente di arroccarsi su una difesa senza se e senza ma”3. Perché si può essere contrari al garantismo legislativo rispetto al controllo sindacale per diverse e plurime ragioni.
L’errore che occorre evitare è di duplicare esperienze (infelici) per certi versi assimilabili.
Si pensi all’art. 603-bis del codice penale, rubricato “Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, introdotto dal D.l. n. 138/2011 e poi emendato dalla Legge n. 199/2016, la cui attuale versione pone più problemi di quelli che sarebbe chiamata a risolvere. La formulazione vigente corrisponde in certo modo alla stessa logica “incompleta” dell’attuale proposta sul salario minimo: per fare fronte agli effetti distorsivi prodotti da una regolazione normativa, ispirata da una costante destrutturazione della disciplina del mercato del lavoro cui lo stesso legislatore ha contribuito a realizzare, viene introdotto un confuso e ambiguo intervento repressivo nel quale si introducono alcuni elementi rivelatori di sfruttamento del lavoro – tra i quali è menzionata “la sintomatica retribuzione dei lavoratori in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o comunque sproporzionata rispetto alla qualità e qualità del lavoro prestato”- che però si presentano come semplici “linee guida” e, dunque, di (solo) ausilio al giudice nella soluzione del caso sottoposto al suo giudizio, anziché concretizzarsi in un’elencazione tassativa.

2.GLI EQUIVOCI DI UN PROBLEMA MAL POSTO
In primo luogo, la contrarietà ad un intervento normativo non si fonda sulla convinzione che esso mini, sotto il profilo della garanzia salariale, la portata salvifica della contrattazione collettiva o comprometta la libertà sindacale costituzionalmente garantita o, finanche, vanifichi gli obiettivi promossi dalle organizzazioni sindacali di rendere il lavoro condizione effettiva di inclusione e di competizione virtuosa fra lavoratori e imprese.
In secondo luogo, la contrarietà neppure si basa sulla convinzione che un tale intervento normativo sia “una esigenza di pochi”, e, dunque, non funzionalmente indispensabile, considerata l’ampia copertura contrattuale (di oltre l’80%) vantata dal nostro Paese, anche rispetto ad altri partners europei nei quali parimenti la retribuzione è determinata dalla contrattazione collettiva.
In terzo luogo, la contrarietà neppure verte sulla convinzione che un intervento normativo replichi quanto già compie diligentemente il giudice del lavoro, allorquando utilizza, in via equitativa (ex art. 36, Cost.), i minimi salariali dei contratti collettivi nazionali di lavoro (oltre 900), sottoscritti dai sindacati comparativamente più rappresentativi, come parametro di riferimento per adeguare le retribuzioni non proporzionate e insufficienti.

Infine, la contrarietà neppure si fonda sul convincimento che una legge, prevedendo un salario orario giornaliero minimo poco elevato, rispetto a quello fissato dai contratti collettivi, finisca per condurre ad un allineamento al ribasso anche dei livelli retributivi più alti. Anzi, a ben vedere, il ricorso ad una legge potrebbe controbilanciare, seppure parzialmente, lo squilibrio sociale consolidatosi negli ultimi decenni a vantaggio dei più abbienti e delle imprese. E, in ogni caso, nulla impedirebbe alle associazioni sindacali dei lavoratori di negoziare salari più alti per determinati settori o categorie di lavoratori.

3.LE RAGIONI DEL “NO” ALLA LEGGE SUL SALARIO MINIMO
Sono altre, all’invero, le ragioni per le quali si è contrari.
Innanzi tutto, l’idea di introdurre un salario minimo legale solo perché essa è suggerita da altre esperienze eurounitarie o perché è imposta dalla recente direttiva UE n. 2022/2041 non persuade affatto dal momento che non è supportata da elementi oggettivi. Le fonti eurounitarie o le autorità internazionali non obbligano gli Stati UE ad una sua introduzione, allorquando la determinazione della retribuzione è già garantita esclusivamente dai contratti collettivi (è il caso della direttiva n. 2022/2041), ma nemmeno giungono alla conclusione di suggerire – sulla base di un’analisi dei contratti collettivi e delle pratiche vigenti in 80 paesi (con diversi livelli di sviluppo), nonché sui quadri giuridici e normativi di 125 Stati – che la contrattazione collettiva è inefficace in termini di riduzione della disparità salariale a livello aziendale, settoriale o industriale” (cfr. il “Rapporto sul dialogo sociale 2022” pubblicato dall’OIL).
Parimenti, non convince l’idea di fissare per legge “(…) una soglia retributiva inderogabile senza però vietare alle imprese di scegliere quale contratto nazionale e – soprattutto – scegliere se applicare un contratto collettivo”4 .. Una tale soluzione, sebbene tecnicamente valida, risolverebbe il profilo socialmente intollerabile del dumping contrattuale, ma finirebbe per generarne un altro: il vuoto contrattuale in ordine ai diritti non retributivi dei lavoratori. In altri termini, al beneficio di sopprimere alla radice il fenomeno dei contratti pirata, affiorerebbe il rischio, nondimeno accettabile, di promuovere “contratti in bianco” o “contratti regredenti”.
Quanto poi alla proposta di determinare la soglia minima legale di retribuzione allineandola a quella fissata dai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative, una tale soluzione contribuirebbe indubbiamente all’eliminazione di (ingiustificabili) casi nei quali la retribuzione non equa è stabilita dalla medesima autonomia collettiva comparativamente più rappresentativa, ma lascerebbe insoluta la questione dell’assenza dell’efficacia erga omnes della contrattazione.
Ebbene, i profili critici che tali idee intendono risolvere per il tramite di un provvedimento “elettivo”, potrebbero trovare una diversa risposta se, come si è anticipato, l’intervento normativo fosse “a tutto tondo”, vale a dire se il legislatore intervenisse risolutivamente su tutta una serie di problemi che incidono in diversa misura sulla questione salariale al fine di rendere il salario minimo uno strumento di contrasto al social dumping sul costo del lavoro.
In particolare, un provvedimento legislativo che puntasse a risolvere la questione dell’adeguatezza delle retribuzioni dovrebbe contemplare “anche” disposizioni:
a) che estendano il salario minimo legale oltre l’alveo del rapporto di lavoro subordinato e, in particolare, alle fattispecie di lavoro autonomo impoverito, (ad esempio nei rapporti di lavoro a collaborazione coordinata e continuativa e nei confronti di lavoratori autonomi mono-committenti). L’esperienza dell’equo compenso, peraltro oggetto di recente modifiche normative, non sembra oggi in grado di eliminare la manifesta disparità;
b) che intervengono sulla misurazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali datoriali e dei lavoratori;
c) che definiscano la “categoria” contrattuale, posto che l’idea di agglomerare i contratti collettivi intorno alla categoria (e, dunque, al ramo di industria) ha mostrato tutta la sua fragilità;
d) che riconsiderino l’attuale disciplina dei meccanismi di cumulo tra nuovo assegno di inclusione e reddito di lavoro, al fine di scongiurare che il prestatore d’opere lasci l’impiego per ottenere il sussidio;
e) che riformulino la regolazione normativa del lavoro sommerso e, dunque, modifichino le previsioni del già citato art. 603-bis del codice penale. Gli indici di sfruttamento, come chiaramente affermato nella relazione ministeriale di accompagnamento alla legge, non fanno parte del fatto tipico: sono delle linee guida che orientano il giudice, il quale deve destreggiarsi – come condivisibilmente ha evidenziato qualche autore – “in un universo semantico così poco definito”5.

4.QUALCHE SOLUZIONE DAL DIRITTO POSITIVO
Tuttavia, ove si decidesse, e sembrerebbe questa almeno per ora la scelta dell’attuale Legislatura, di non intervenire né chirurgicamente né sistematicamente, restano due problemi di cui occorre da subito farsi carico.
In primo luogo, approntare soluzioni che risolvano il caso in cui, con molto imbarazzo anche per chi scrive, le retribuzioni non eque sono sancite dai medesimi Ccnl sottoscritti da organizzazioni sindacali genuine (il riferimento è all’art. 24 dalla sezione Servizi Fiduciari del Ccnl Vigilanza sottoscritto da Cgil e Uil).

Su tale profilo critico, si potrebbe ragionare, sulla falsariga dell’art. 30 della Legge n. 183/20106, di intervenire sul controllo giudiziale per il tramite del parametro della “proporzionalità, ammettendo legislativamente la sindacabilità di criteri ulteriori quali, ad esempio, il tipo e la natura dell’attività svolta, il raffronto con situazioni analoghe, le condizioni di mercato. D’altra parte, si tratterebbe di valorizzare gli approdi giurisprudenziali di merito più recenti7, che si presentano in linea con i principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità8, sempreché il legislatore pervenisse ad un’elencazione tassativa, e non indicasse semplicemente elementi o caratteri sintomatici di retribuzione non proporzionale.

In secondo luogo, promuovere la contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari. La soluzione è contenuta nella già riferita direttiva UE del 2022: in sede di recepimento della direttiva, il legislatore ordinario molto potrebbe fare, approntando “un piano di azione”, previa consultazione delle parti sociali, inteso a rafforzare la contrattazione collettiva (ad esempio, contemplando incentivazioni contributive e fiscali), nonché individuando specifiche misure per aumentare il tasso di copertura della contrattazione collettiva.
Infine, frenare e reprimere la contrattazione pirata, trattandosi di un fenomeno economicamente deprimente e socialmente intollerabile. Sul punto, si potrebbe ragionare sulla fattibilità di un intervento normativo che incida sulle norme del D.lgs. n. 124/2004 in ordine alle funzioni ispettive in materia di previdenza sociale e di lavoro.
In particolare, potrebbe risultare funzionale fornire agli organi ispettivi – i quali hanno il compito di “(…) vigilare sulla corretta applicazione dei contratti e accordi collettivi di lavoro (…)” (art. 7, lett. b) – puntuali criteri di misurazione della rappresentatività – quali, ad esempio, il numero complessivo delle imprese associate, la diffusione sul territorio nazionale e il numero di contratti collettivi nazionali stipulati e vigenti, peraltro già individuati dalla prassi amministrativa9 – al fine di identificare le organizzazioni sindacali “non abilitate” in quanto non comparativamente rappresentative e, sulla base di tale accertamento, di disapplicare – ai fini della concessione dei benefici normativi e contributivi come stabilita dall’art. 1, comma 1175, della Legge n. 296/2006 e della produzione degli effetti derogatori previsti dal D.lgs. n. 81/2015 e dall’art. 8, del D.l. n. 138/2011 – i contratti e gli accordi sottoscritti.
Una tale intervento normativo confermerebbe, rafforzandolo, il potere degli organi ispettivi di disapplicare” le clausole collettive, senza che ciò implichi una violazione dell’art. 39 Cost., dal momento che non costituirebbe un’imposizione dei contenuti all’autonomia collettiva comparativamente più rappresentativa.
Si tratterebbe, dunque, di offrire strumenti che rendano più efficace, nella lotta al contrasto del dumping contrattuale, quanto è già di competenza degli organi ispettivi10.

  1. Tale contributo riprende le riflessioni formulate nel Convegno organizzato in data 3 ottobre 2023 dalla Fondazione Consulenti del Lavoro di Milano, dal Consiglio provinciale di Milano dell’Ordine dei Consulenti di lavoro e dall’Unione Provinciale di Milano.
  2. Professore Associato di diritto del lavoro, della previdenza sociale e della sicurezza del lavoro della
    Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano, Consulente parlamentare della Commissione di Inchiesta sulle condizioni di lavoro, sullo sfruttamento e sulla tutela della salute del lavoro pubblico e privato presso la Camera dei Deputati, Componente della Commissione di certificazione dei contratti di lavoro dell’Università di Roma Tre.
  3. L. CORAZZA, Per legge, ma non troppo. Il rebus del salario minimo nella crisi della contrattazione, 2 maggio 2021 in https: eticaeconomia. it all’interno di Menabò.
  4. V. BAVARO, Per una legge sul salario adeguato in Italia: in favore dell’erga omnes salariale e contro il salario minimo legale, 4 luglio 2022 in https: eticaeconomia.it all’interno di Menabò n. 175/2022.
  5. V. TORRE, Lo sfruttamento del lavoro. La tipicità dell’art. 603-bis c.p. tra diritto sostanziale e prassi giurisprudenziale, in Questione Giustizia n. 4, 2019.
  6. A mente del quale: «1. In tutti i casi nei quali le disposizioni di legge (…) contengano clausole generali (…) il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al
    datore di lavoro… 3. Nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi ovvero nei contratti individuali di lavoro
    (…). Nel definire le conseguenze da riconnettere al licenziamento ai sensi dell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, il giudice tiene egualmente conto di elementi e di parametri fissati dai predetti contratti e comunque considera le dimensioni e le condizioni dell’attività esercitata dal datore di lavoro, la situazione del mercato del lavoro locale, l’anzianità e le condizioni del lavoratore, nonché il comportamento delle parti anche prima del licenziamento».
  7. Cfr. App. Milano 9 dicembre 2021, n. 12 che ha qualificato come relativa la presunzione di conformità all’art.36 Cost. dei trattamenti retributivi dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative.
  8. Cfr. Cass. civ. 5 luglio 2002, n. 975.
  9. Cfr. la nota Ministero del Lavoro n. 10310 del 1° giugno 2012.
  10. È quanto è avvenuto per il settore cooperativo nel quale gli organi ispettivi, constatando la presenza di contratti provenienti da organizzazioni diverse da quelle ritenute maggioritarie (Confcooperative,
    Legacoop, CGIL, CISL, UIL) e contenenti condizioni economiche peggiorative rispetto a queste ultime, ha “disapplicato” tali accordi con l’adozione di diffide accertative, e di recuperi contributivi, al fine di riallineare le retribuzioni ai minimi contrattuali imposti dalla legge.

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