IL PUNTO – SALARIO MINIMO E DINTORNI (SAVE THE DATE)

Potito di Nunzio, Presidente del Consiglio dell’Ordine provinciale di Milano

Cari lettori, si preannuncia un autunno molto cado in Italia e non solo per il clima, che pure fa la sua parte, ma per i temi roventi legati al mondo del lavoro, fomentati dalle forze politiche tutte. Finalmente le sinistre fanno “qualcosa di sinistra”, direbbe Nanni Moretti. Molte le dichiarazioni rilasciate da parlamentari. Ma i più parlano senza avere alcuna cognizione di causa e la demagogia, da ambo le parti, tiene banco assoluto. Il tema più caldo è il salario minimo. Da fissare per legge, secondo la proposta delle opposizioni (Italia Viva a parte); da lasciare nelle mani della contrattazione collettiva, secondo le forze di governo. Vi invito a leggere l’eccellente articolo del Collega Andrea Asnaghi nelle pagine dedicate alla rubrica “Senza Filtro” in questa Rivista. Un articolo saggio ed equilibrato che cerca di dare anche dei suggerimenti operativi.

Consentitemi però di aggiungere qualche riflessione e qualche provocazione. Partiamo da un assunto di base: tutti sono consapevoli che i salari in Italia sono bassi e in alcuni casi, pur nel rispetto della contrattazione collettiva, lasciano i lavoratori economicamente sotto la soglia di povertà (c.d. lavoro povero).

Scusatemi per le semplificazioni che faro’ su questo tema così delicato sia giuridicamente, sia, soprattutto, socialmente. La mia intenzione infatti non è quella di proporre un saggio giuridico, ma di fornire alcuni spunti di riflessione che devono servire a portarci fuori da questa fase del tutto ideologica/demagogica o – coniando un neologismo – “idemagogica”, che non risolve di certo il problema legato al salario sufficiente.

Procediamo con ordine. L’art. 36 Cost. enuncia il principio della sufficienza retributiva, ma nessuna legge ha mai stabilito quale dovesse essere il limite al di sotto del quale la retribuzione diventa insufficiente per “assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

Tutto è stato lasciato nelle mani della magistratura che, in maniera suppletiva, ha stabilito un principio di diritto secondo il quale è sufficiente quella retribuzione che non sia inferiore a quella prevista dalla contrattazione collettiva, comparativamente maggiormente più rappresentativa, del settore merceologico di appartenenza dell’impresa. E qui casca l’asino perché nessuno sa quali siano i soggetti maggiormente rappresentativi (sindacati dei lavoratori e organizzazioni imprenditoriali) titolati a negoziare contratti di riferimento per la retribuzione sufficiente. Da qui il fenomeno del c.d. “dumping contrattuale” che, in otto anni, ha visto la contrattazione collettiva nazionale proliferare talmente tanto da portare il numero di contratti nazionali da 498 (2010) a 884 (settembre 2018). Questi i dati non recentissimi diffusi dal Cnel e, al 30 giugno 2023, sempre il Cnel, nel suo 17° Report, ha comunicato che i contratti collettivi nazionali sono ben 1.037. Quindi in 13 anni si è giunti al 208,23%.

In alcuni settori si registrano incrementi inimmaginabili. Solo alcuni esempi dei Ccnl più diffusi:

Ccnl Commercio da 91 a 213 (234,07%) Ccnl Meccanici da 11 a 31 (281,82%)

Ccnl Edilizia da 28 a 68 (242,86%).

In questi anni abbiamo visto nascere diverse nuove organizzazioni sindacali e soprattutto imprenditoriali. Sottoscrivere un contratto collettivo nazionale dà tanti vantaggi: si incassano e si gestiscono quote per gli enti bilaterali, si costituiscono fondi di assistenza e previdenza, si possono istituire commissioni di certificazione dei contratti di lavoro di conciliazione delle controversie di lavoro, e così via. Si badi bene pero’: ci sono contratti collettivi stipulati dalle “presunte” oo.ss. maggiormente comparativamente più rappresentative che non hanno nulla da invidiare ai c.d. contratti pirata. Quindi pirata è chi toglie o non protegge diritti, indipendentemente se è rappresentativo o meno.

Ora, se in 75 anni dal varo della nostra Costituzione non siamo ancora riusciti a stabilire i criteri della rappresentanza (colpa soprattutto delle parti sociali), delle due l’una: o si impone ai sindacati la registrazione con l’assunzione di uno statuto a base democratica (ex art. 39 Cost.) in modo da poter sottoscrivere contratti a valenza universale, oppure bisogna stabilire per legge un salario minimo. Le formule possono essere tante per salvaguardare la contrattazione collettiva. Non c’è nulla di male se si prevede che il salario sufficiente è quello previsto dalla contrattazione collettiva, maggiormente comparativamente più rappresentativa, ma che comunque non puo’ scendere sotto una determinata soglia. Non c’è nulla di scandaloso.

Così come nessuno si è scandalizzato:

a.quando le ferie sono state fissate per legge in 4 settimane per anno nel 20041. Questa previsione normativa non ha tolto la possibilità alla contrattazione collettiva di prevedere maggiori giornate di ferie rispetto alla legge oppure far crescere i permessi per riduzione dell’orario di lavoro o per compensare le abolite ex festività civili e religiose;

b.quando l’orario normale di lavoro settimanale è stato rimesso nelle mani della contrattazione collettiva e, solo in assenza di disposizioni contrattuali, la legge ne ha stabilito la durata normale in 40 ore settimanali2. Idem dicasi per il limite al lavoro straordinario e per i riposi;

c.quando la retribuzione minima ai fini contributivi e pensionistici è stata stabilita per legge, sin dal lontano 19893. Qui è davvero paradossale. La retribuzione contrattuale può ad esempio prevedere un salario giornaliero di € 40,00 (1.040,00 euro mensili, dati dal prodotto di 40,00 € x 26 giorni), ma la contribuzione previdenziale deve essere calcolata e versata su un salario non inferiore a € 53,95 (1.402,70 euro mensili, dati dal prodotto di 53,95 € x 26 giorni. Così prevede la legge). In sostanza abbiamo già un minimo retributivo orario pari a € 8,09 euro (53,95 € x 6 giorni settimanali: 40 ore settimanali) ma solo per pagare la contribuzione (soprattutto ai fini pensionistici visto che la maggiore aliquota contributiva stabilita per tutti i lavoratori è pari al 33% di cui il 9,19 a carico del lavoratore il quale, dopo una determinata soglia, versa una contribuzione aggiuntiva dell’1% che non gli procura alcun beneficio pensionistico). Come dire al lavoratore: stai tranquillo che durante la tua vita lavorativa guadagnerai pure poco, pero’ in pensione ti ci mando con un reddito più elevato.

Basterebbero quindi due righe di legge per estendere questa norma anche ai fini retributivi e non solo contributivi.

Tra l’altro non siamo certo di fronte a retribuzioni elevate (per fortuna la maggior parte dei Ccnl c.d. leader prevedono retribuzioni superiori). Una retribuzione oraria di € 8,09 equivale ad una retribuzione annua di € 16,827,00 (€ 1.294,38 mensili per 13 mensilità) che, al netto della contribuzione (considerando l’esonero contributivo attualmente previsto) e delle imposte, porta ad una retribuzione netta di € 15.206,48 (€ 1.169,73 mensili per 13 mensilità)4. Ma con questa soglia minima almeno superiamo, sia pur di poco, quella di povertà.

Di esempi ne potrei fare tanti altri, ma solo e sempre sul salario minimo si alzano le barricate. Capisco il sostegno alla contrattazione collettiva, il sofisticato dibattito giurisprudenziale e dottrinale attorno alla questione, ma i bisogni primari vanno soddisfatti e subito, senza filosofeggiare. Oltre al salario minimo dovremmo preoccuparci di garantire tutele di base uniformi a tutti i lavoratori, indipendentemente dal settore merceologico di appartenenza dell’azienda e dal contratto collettivo applicato. Il lavoratore che cambia azienda pensando ad una sua progressione economica, se non fa una attenta comparazione dei Ccnl applicati al suo rapporto di lavoro, potrebbe ritrovarsi con minori tutele, anche di tipo economico.

Si pensi alla diversità dei periodi di comporto per malattia, della diversità degli indennizzi della malattia stessa, delle diversità in materia di permessi per ex festività e riduzione orario (in alcuni contratti non sono neanche previsti) e così via. A volte si è attratti da poche decine di euro in più di retribuzione senza tenere in debita considerazione le altre condizioni contrattuali, che – nel bilanciamento complessivo – potrebbero addirittura azzerare i vantaggi salariali della nuova occupazione. Il lavoratore non può e non deve diventare un esperto in amministrazione del personale, a lui vanno garantite tutele di base uniformi. Una persona gravemente malata non può vedersi fuori dall’azienda dopo sei mesi o dopo tre anni solo perché di diverso rispetto ad un altro lavoratore ha un contratto collettivo e non la malattia.

Consentitemi di continuare con le provocazioni.

Qualcuno sostiene che i salari minimi vanno aumentati riducendo la tassazione. Certamente, ridurre la tassazione (per tutti, vorrei sperare) sarebbe cosa buona e giusta, ma ricordo che sui salari bassi, intorno ai venti/venticinquemila euro annuali, la tassazione è già quasi inesistente. E poi, perché mai i salari dei lavoratori privati dovrebbero essere aumentati dallo Stato? Sulle tecniche di ridistribuzione del reddito ci sarebbe da discutere, ma la questione si farebbe oltremodo complessa considerato che nelle mani di pochi sono concentrati la maggior parte dei profitti.

Qualcun altro si domanda chi pagherebbe gli aumenti retributivi che deriverebbero dalla previsione del salario minimo legale. La risposta non è difficile: l’imprenditore. Ma così facendo molte aziende chiuderebbero, si replicherebbe. Ce ne faremo una ragione; rimarrebbero in vita solo le aziende che hanno il coraggio di competere rimanendo nella legalità e nell’eticità. Ci sarebbero ancora più disoccupati, mi si obietterebbe. Non ne sono così sicuro, perché i disoccupati sarebbero assunti in altre aziende dello stesso settore, che vedrebbero crescere la loro attività. Altra obiezione: con l’introduzione del salario minimo legale aumenterebbero i prezzi dei prodotti e quindi si alzerebbe l’inflazione. Anche questo non mi convince. Valgono le considerazioni precedenti, anche perché di competitors che offrono gli stessi prodotti e applicano i contratti collettivi “non pirata” ce ne sono già sul mercato. Analizziamo il caso Mondialpol. La procura di Milano a metà agosto ha revocato il provvedimento di controllo giudiziario imposto all’azienda per presunto caporalato e sfruttamento dei lavoratori. Ricordo che Mondialpol è una delle aziende leader nei servizi di vigilanza privata, con quasi 210 milioni di euro di fatturato e 4.742 dipendenti. Ma perché il provvedimento giudiziario è stato revocato? Perchè la società si è impegnata ad innalzare i salari degli addetti ai servizi di sicurezza non armata del 20% dalla data del primo settembre 2023, in «un percorso progressivo che porterà a un aumento del 38% alla scadenza del Ccnl prevista per il primo aprile 2026». La decisione – ha spiegato sempre la società nel comunicato – è stata presa «per pervenire all’obiettivo della sempre maggiore professionalizzazione e fidelizzazione degli addetti e così concretizzare salari più equi rispetto al contesto economico attuale del settore». «La nostra azienda – ha commentato Fabio Mura, ceo Mondialpol Service S.p.A. – ha sempre riconosciuto il contenuto del contratto nazionale, anzi, spesso lo abbiamo anticipato introducendo di nostra iniziativa miglioramenti salariali e operativi». «Abbiamo individuato nella posizione della magistratura – ha aggiunto – la via per sostenere i lavoratori al fine di superare un momento economicamente difficile e, da qui, la decisione di aderire a queste indicazioni è stata immediata». Adesso «stiamo condividendo l’iniziativa con tutti i nostri fornitori di servizi – ha concluso – così da garantire salari non inferiori a quelli da noi riservati al nostro personale dipendente». Che cosa emerge dal caso Mondialpol: 1) che la società rispettava i minimi della contrattazione collettiva (ritenuta dai giudici una retribuzione di sfruttamento); 2) che l’intervento della magistratura ha portato l’azienda ad incrementare la retribuzione del 38%; 3) che Mondialpol per ora non licenzia nessuno; 4) che la società si avvarrà di fornitori che rispetteranno politiche retributive adeguate, innestando così un evidente circolo virtuoso ed espungendo dalla propria catena le aziende non conformi. Mi chiedo: ma dobbiamo sempre attendere che la magistratura intervenga in via suppletiva? Quante sono le aziende come la Mondialpol che pero’ non sono state poste sotto controllo giudiziario e quindi non adegueranno i salari ai propri dipendenti? Non sarebbe meglio se in questa materia ci fosse una regolamentazione che dia certezza del diritto al fine di evitare sacche di elusione e di irregolarità?

Ricordo a tutti inoltre che nel PNRR è previsto che entro il 2026 le aziende devono essere accompagnate al rispetto dei parametri ESG e quindi al rispetto di tutti gli stakeholders, ma soprattutto dei lavoratori, con politiche di sicurezza e salute, welfare aziendale, diversità e inclusione, benessere, formazione e sviluppo, politiche retributive, lotta alla povertà.

Ma sono certo che la “nostra” Ministra del Lavoro, la Collega Marina Calderone, da esperta qual è, saprà fare sintesi delle diverse tesi e proporrà una soluzione che da un lato ponga rimedio al c.d. lavoro povero e dall’altro risolva il problema della retribuzione sufficiente, dando certezza al mercato e agli operatori del diritto.

Di tutto questo ne discuteremo insieme al Comitato scientifico della Fondazione milanese e alle parti sociali, in un Convegno che terremo il prossimo 3 ottobre 2023 dalle 14:00 alle 18:00 (SAVE THE DATE).

  1. Art. 10 del D.lgs. n. 66 dell’8 aprile 2003.
  2. Art. 3 del Dlgs. n. 66 dell’8 aprile 2003.
  3. Art 1, comma 1, del D.l. 9 ottobre 1989, n. 338, convertito, con modificazioni, dalla Legge 7 dicembre 1989, n. 389, “La retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore all’importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione d’importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo”.
    La stessa circolare Inps n. 11 dell’11 febbraio 2013 (ultima in ordine di tempo) ricorda che “In forza della predetta norma, anche i datori di lavoro non aderenti, neppure di fatto, alla disciplina collettiva posta in essere dalle citate organizzazioni sindacali, sono obbligati, agli effetti del versamento delle contribuzioni previdenziali e assistenziali, al rispetto dei trattamenti retributivi stabiliti dalla citata disciplina collettiva.
    Per trattamenti retributivi si devono intendere quelli scaturenti dai vari istituti contrattuali incidenti sulla misura della retribuzione.
    Inoltre, si ribadisce che, con norma di interpretazione autentica, il legislatore ha precisato che “in caso di pluralità di contratti collettivi intervenuti per la medesima categoria, la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi previdenziali e assistenziali è quella stabilita dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative nella categoria” (articolo 2, comma 25, della Legge 28 dicembre 1995, n. 549).
    Come premesso, nella determinazione della retribuzione minima ai fini contributivi, si deve tenere conto anche dei “minimali di retribuzione giornaliera stabiliti dalla legge”.
    Non solo, il reddito da assoggettare a contribuzione, ivi compreso il minimale contrattuale di cui al citato articolo 1, comma 1, del D.l. n. 338/1989, deve essere adeguato, se inferiore, al limite minimo di retribuzione giornaliera, che ai sensi di quanto disposto dall’articolo 7, comma 1, secondo periodo, del D.l. 12 settembre 1983, n. 463, convertito, con modificazioni, dalla Legge 11 novembre 1983, n. 638 (come modificato dall’articolo 1, comma 2, del D.l. n. 338/1989), non può essere inferiore al 9,50% dell’importo del trattamento minimo mensile di pensione a carico del Fondo pensioni lavoratori dipendenti (FPLD) in vigore al 1° gennaio di ciascun anno.
    In applicazione delle previsioni di cui al predetto articolo 7 del D.l. n. 463/1983, anche i valori minimi di retribuzione giornaliera già stabiliti dal legislatore per diversi settori, rivalutati annualmente in relazione all’aumento dell’indice medio del costo della vita (cfr. il D.l. 29 luglio 1981, n. 402, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 settembre 1981, n. 537), devono essere adeguati al limite minimo di cui al predetto articolo 7, comma 1, del D.l. n. 463/1983, se inferiori al medesimo.”
  4. Ipotesi di retribuzione di un single residente a Milano, cui è stato applicato esonero contributivo del 7% in quanto la retribuzione imponibile riparametrata su base mensile non risulta superiore a 1.923 euro (Legge n. 197/2022, art. 1, comma 281 come modificato dall’art. 39, D.l. n. 48/2023).

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