Lo avevamo intuito da subito. L’applicazione sul campo del Decreto Dignità ci avrebbe riservato delle spiacevoli sorprese.
La tecnica legislativa approssimativa non lasciava del resto presagire nulla di buono. Lo stesso Ministero, resosi probabilmente conto delle moltissime carenze ed incertezze create dal provvedimento, aveva cercato di rasserenare tutti promettendo, immediatamente dopo l’entrata in vigore del decreto, alcuni solleciti chiarimenti.
Adesso che i chiarimenti sono arrivati – con quella serafica calma (ovvia l’ironia) che l’urgenza di restituire la dignità al lavoro richiede – non possiamo dire di essere più tranquilli di prima.
Uno dei dubbi emersi da subito ha riguardato l’esatta definizione di proroghe e rinnovi, dato che il decreto non ne fornisce una esplicita definizione.
Volendo semplificare si era sostenuto che la proroga consistesse nella prosecuzione senza soluzione di continuità del contratto. Il rinnovo invece sarebbe consistito nella sottoscrizione di un nuovo contratto dopo l’avvenuta cessazione del precedente.
Ma è tutto così semplice? Assolutamente no. Non lo sembrava prima, non lo è ora dopo l’interpretazione datane dalla circolare ministeriale.
Il Dicastero di Via Vittorio Veneto, dopo averci ricordato che la proroga sottoscritta entro il primo anno di rapporto non necessita di motivazione, si spinge in una interpretazione rigida, potremmo dire fantasiosa, asserendo che dopo il superamento del predetto termine (complessivo) di 12 mesi
la proroga presuppone che restino invariate le ragioni che avevano giustificato inizialmente l’assunzione a termine, fatta eccezione per la necessità di prorogarne la durata entro il termine di scadenza.
La questione andrebbe, a detta di chi scrive, probabilmente posta in termini diversi, rammentando in primis che la disposizione di legge parla di un “contratto (che) può essere prorogato liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente, solo in presenza delle condizioni di cui all’articolo 19, comma 1” e chiedendoci se per proroga si voglia intendere il mero spostamento del termine finale, prescindendo quindi dalle motivazioni sottostanti le singole proroghe, oppure se la modifica del termine in corso di contratto debba, trascorsi i primi 12 mesi, essere supportata da una motivazione, la quale ove diversa modificherebbe la volontà delle parti, da prorogare il contratto a quella di rinnovarlo.
Possiamo subito notare che l’articolo 21, con il neo introdotto comma 01, non stabilisce che vi debba essere l’esatta coincidenza tra le eventuali causali indicate, ma al contrario che vengano rispettate le “condizioni di cui all’art. 19, comma 1” senza però richiamare espressamente la disciplina dello stop&go, peraltro prevista al successivo articolo 21, comma 2, ma soprattutto per la sola ipotesi di “riassunzione” o per meglio dire di rinnovo.
Ciò che viene richiesto, almeno così pare a chi scrive, è che sia esplicitata una delle motivazioni richiamate ma non necessariamente che questa rimanga immutata per tutto il rapporto lavorativo.
Ma il Ministero va dritto per la sua strada. Ritenuto che una proroga sia di fatto un rinnovo ove le parti richiamino in contratto una causale diversa, sembra altresì implicitamente sostenere che i motivi della prosecuzione del rapporto – che abbiamo visto essere irrilevanti nel primo anno – assurgano ad elemento di validità del contratto a termine una volta entrati nel secondo anno di rapporto.
Ecco allora l’inevitabile conclusione, ovvero che
non è possibile prorogare un contratto a tempo determinato modificandone la motivazione, in quanto ciò darebbe luogo ad un nuovo contratto a termine ricadente nella disciplina del rinnovo, anche se ciò avviene senza soluzione di continuità con il precedente rapporto.
Si noti anche che è lo stesso Ministero a riconoscere implicitamente che la soluzione di continuità è, di norma, il requisito identificativo della fattispecie “rinnovo”, facendo eccezionalmente rientrare in questa figura quelle proroghe per le quali venga successivamente a modificarsi la causale indicata in fase di assunzione o successivamente.
Resta il fatto che chiunque si fosse organizzato pensando di poter legittimamente prorogare, dopo il 1° novembre, un contratto che aveva già superato complessivamente i 12 mesi, citando una motivazione diversa dalla precedente, avrebbe dovuto, circolare n. 17/2018 alla mano, rivedere i propri programmi, probabilmente imponendo al lavoratore uno stop&go.
E se l’avesse fatto senza leggere le, ahimè, tardive precisazioni ministeriali si troverebbe oggi con la classica spada di Damocle sulla testa.
Sul rinnovo, l’esordio del Ministero parrebbe a prima vista allineato alle conclusioni della stampa specializzata, affermando che
Si ricade altresì nell’ipotesi del rinnovo qualora un nuovo contratto a termine decorra dopo la scadenza del precedente contratto.
La definizione, in evidente contrapposizione al concetto di proroga, individua in un precedente rapporto di lavoro già cessato il presupposto perché vi sia un rinnovo del contratto.
La soluzione di continuità pare assurgere – ma vedremo oltre, parlando della somministrazione, che così non è – a requisito che distingue il rinnovo dalla proroga.
Purtroppo il chiarimento ministeriale si ferma qui. Coloro che avevano ritenuto che il rinnovo si realizzi – citando una delle tante definizioni tratte dalle enciclopedie online – al “verificarsi di nuovo, ripetersi” di una determinata situazione, rimangono ancora senza risposta.
Chi, come chi scrive, aveva ipotizzato di considerare rinnovi i soli contratti che riproponessero gli elementi essenziali del precedente contratto quali individuati dall’art. 1325 c.c. – ovvero l’accordo delle parti, l’oggetto, la forma ove prescritta dalla legge a pena di nullità e la causa intesa come lo scopo economico sociale del negozio giuridico – dovrà attendere le prime sentenze della magistratura.
Nelle more sarà opportuno fare attenzione a non modificare nessuno degli elementi del contratto che si intende prorogare poiché anche una piccola modifica delle condizioni contrattuali – pensiamo al mero cambio di livello mantenendo sostanzialmente le medesime mansioni – potrebbe essere considerata da qualche giudice non una proroga bensì un rinnovo, con ciò che ne consegue in termini di mancato rispetto dello stop&go e del mancato pagamento del contributo addizionale dello 0,50%.
Tutto ciò evidentemente non aiuta né le imprese, che per evitare problemi opteranno per il turnover, né di conseguenza i lavoratori che della dignità senza il lavoro se ne fanno ben poco.
E per fortuna che il Ministero aveva esordito nella sua circolare parlando di indicazioni operative che hanno considerato le “richieste di chiarimento finora pervenute”. Come dire che nessuno ha mai chiesto cosa debba intendersi per rinnovo.
Resta evidente un fatto: l’averlo ripetutamente scritto sulle riviste e sui quotidiani specializzati non vale. Del resto, date le note ristrettezze economiche in cui opera la P.A., mica si può pretendere che il Ministero faccia l’abbonamento a Il Sole 24 Ore o a Italia Oggi, e tanto meno alle riviste di Euroconference o di Ipsoa!
Anche se, a pensarci bene, Sintesi è gratuita.
Il Ministero prende atto che, stando al decreto-legge n. 87/2018, anche i contratti di somministrazione a termine necessitano, sia se di durata superiore a 12 mesi che in ogni caso di loro rinnovo, l’esplicitazione dei motivi, che comunque, viene sottolineato, riguardano il solo utilizzatore.
Il Ministero, bontà sua, rammenta altresì che per la verifica di tale limite temporale sono cumulabili i soli periodi svolti presso il medesimo utilizzatore, restando irrilevanti quelli prestati presso altre e diverse imprese.
E qui il Ministero parte con l’ennesima interpretazione che non convince affatto chi, oggi, qui la commenta. Vediamo esattamente cosa si dice.
In proposito, si evidenzia che l’obbligo di specificare le motivazioni del ricorso alla somministrazione di lavoratori a termine sorge non solo quando i periodi siano riferiti al medesimo utilizzatore nello svolgimento di una missione di durata superiore a 12 mesi, ma anche qualora lo stesso utilizzatore aveva instaurato un precedente contratto di lavoro a termine con il medesimo lavoratore per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria.
Semplicemente imbarazzante. Il Ministero fa di tutta l’erba un fascio arrivando a ritenere che si rinnovi un accordo anche quando il precedente rapporto lavorativo si sia basato su un diverso contratto civilistico. Si scordano, evidentemente, i tecnici ministeriali, che nella somministrazione l’utilizzatore non stipula alcun contratto con il lavoratore. Il contratto di lavoro il lavoratore lo sigla con l’Agenzia, la quale a sua volta formalizza un contratto commerciale con l’utilizzatore.
Forse il Ministero si confonde pensando alla disposizione di cui al comma 2 dell’articolo 19 che assimila esplicitamente – ma, attenzione, ai soli fini del computo del periodo massimo di 24 mesi – tutti i periodi svolti con contratto a termine, comprendendovi quindi anche quelli con contratto di somministrazione a termine, per lo svolgimento di mansioni dello stesso livello e categoria legale.
Che volete che sia tutto ciò. Facezie. L’importante, sembra, è porre più paletti possibili all’utilizzo di contratti a tempo determinato.
Il Ministero quindi procede spedito e ne trae le inevitabili conseguenze citando alcuni esempi che vorrebbero chiarire le condizioni per la legittima successione di una missione in somministrazione dopo un contratto subordinato a termine, fornendo questa precisazione
– in caso di precedente rapporto di lavoro a termine di durata inferiore a 12 mesi, un eventuale periodo successivo di missione presso lo stesso soggetto richiede sempre l’indicazione delle motivazioni in quanto tale fattispecie è assimilabile ad un rinnovo;
Ma ovviamente non ci si ferma qui. Giammai. Il ragionamento vale anche per il caso opposto, ovvero di un contratto a tempo determinato che venga stipulato dopo uno in somministrazione.
– in caso di un periodo di missione in somministrazione a termine fino a 12 mesi, è possibile per l’utilizzatore assumere il medesimo lavoratore direttamente con un contratto a tempo determinato per una durata massima di 12 mesi indicando la relativa motivazione.
Il ragionamento del Ministero appare decisamente contorto e purtroppo deve darsi atto che anche la Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro risulta avvallare l’interpretazione ministeriale riproponendone in toto i contenuti nel proprio approfondimento dello scorso 5 novembre 2018.
Vediamo in cosa risulta fallace – secondo il modesto parere di chi scrive – questo ragionamento. Va detto che secondo il disposto dell’articolo 34 del D.lgs. n. 81/2015 “in caso di assunzione a tempo determinato il rapporto di lavoro tra somministratore e lavoratore è soggetto alla disciplina di cui al capo III, con esclusione delle disposizioni di cui agli articoli 21, comma 2, 23 e 24”.
Nella sostanza potremmo semplificare dicendo che nel Capo IV dedicato alla Somministrazione di lavoro sono stati inseriti, paro paro, gli articoli 19, 20, 22, 25 e seguenti, mentre l’articolo 21 solo limitatamente ai commi 01, 1 e 3.
Sottolineiamo subito che l’articolo 21 – il cui comma 01 dispone che “il contratto può essere rinnovato” e che “il contratto può essere prorogato” – risulta inserito nel Capo III che disciplina il “Lavoro a tempo determinato”. Di conseguenza il termine generico di “contratto” deve, contestualizzandolo, intendersi riferito a questa e solo a questa tipologia di rapporto.
Se quindi rileggiamo il citato comma 34 ove si dispone che anche al “rapporto di lavoro tra somministratore e lavoratore” si applica la disciplina dei rinnovi e delle proroghe ex comma 01 e 1 dell’articolo 21, dovremmo dedurre che il “contratto” qui citato sia in questo caso da riferire a quello di somministrazione e solo a questo.
Insomma, qualche dubbio sulla correttezza della lettura ministeriale appare più che fondato.
Spiace ad ogni buon conto dover sottolineare che il chiarimento venga dato nella sezione della circolare dedicata alle “Condizioni” della somministrazione di lavoro e non in quella dedicata al tempo determinato.
Chissà a quanti datori di lavoro, soprattutto quelli che non ricorrendo alle agenzie interinali non si sono soffermati a leggere la parte finale della circolare dedicata alla somministrazione, sarà sfuggito questo piccolo dettaglio.
Resta il fatto che il Ministero non vacilla: l’aver utilizzato un lavoratore con assunzione diretta a termine o in somministrazione è la stessa cosa, il che fa sì che in caso di nuovo utilizzo del medesimo soggetto, sia a termine che in somministrazione, si configuri sempre un rinnovo e quindi l’obbligo del richiamo alle causali.
Emerge con chiarezza come l’interpretazione ministeriale risulti assolutamente allineata alla ratio del provvedimento ovvero operare una massiccia limitazione all’utilizzo del contratto a termine, il male assoluto alla stabilizzazione dei rapporti di lavoro che, debellato, restituirà la dignità a lavoratori e pure, ma non si capisce come, alle imprese.
Si giunge così ad assecondare la convinzione del Legislatore che negare il più possibile il ricorso ai rapporti a scadenza possa avere l’effetto di costringere i datori di lavoro ad assumere a tempo indeterminato il lavoratore (l’individuazione fumosa delle causali rientra in questa strategia). E questo anche rischiando sulla pelle di coloro che siano già stati alle dipendenze di un datore di lavoro o che abbiano svolto presso costui un qualsiasi, anche brevissimo, periodo in somministrazione.
La cecità di tale visione è presto dimostrata ipotizzando un lavoratore che sia stato inviato in missione presso un datore di lavoro per un paio di giorni. Se, come sostiene il Ministero, la successiva assunzione, anche a distanza di anni, di un lavoratore già utilizzato in somministrazione dovesse considerarsi giuridicamente un rinnovo, veramente esiste qualcuno convinto che costui, dato l’obbligo di ricorso alle causali, abbia una qualche possibilità di essere assunto a termine o addirittura a tempo indeterminato? Sarà. Chi scrive qualche dubbio lo nutre.
Già ingenti si ritengono i danni che farà la disciplina legale del rinnovo, ovvero la riassunzione del lavoratore dopo un precedente, anche ridotto, rapporto di lavoro subordinato, imponendo il ricorso alle causali. C’era davvero il bisogno di ampliare, peraltro mediante una opinabilissima indicazione di prassi, questo vincolo anche a coloro che nell’impresa ci sono entrati come somministrati convinti che il poterci lavorare un paio di giorni rappresentasse una opportunità per farsi conoscere da un possibile futuro datore di lavoro?