Risale al 27 giugno 2017 una significativa pronuncia del Tribunale di Catania in merito alla possibilità di ritenere legittimo, sotto il profilo formale, un licenziamento comminato ad un lavoratore tramite WhatsApp. La tematica è indubbiamente rilevante ed attuale in quanto l’utilizzo massivo dei social network, di internet e delle c.d. Mobile App, sta rivoluzionando le modalità di comunicazione tradizionali e i rapporti giuridici connessi.
Per quanto concerne i fatti di causa, la pronuncia trae origine dal ricorso giudiziale proposto da una lavoratrice al fine di ottenere dal Tribunale adito l’accertamento dell’invalidità/inefficacia del licenziamento comminato dal proprio datore di lavoro, con conseguente reintegra nel posto di lavoro. Dal punto di vista processuale, il Giudice ha accolto l’eccezione preliminare formulata dal datore di lavoro, fondata sulla tardività della proposizione del ricorso per violazione del termine di decadenza previsto dall’art. 6, comma secondo, della L. n. 604/1966 (60 giorni dal rifiuto o dal mancato accordo in sede di tentativo di conciliazione o arbitrato).
Ciò che, tuttavia, ha destato maggiore interesse e stupore è il passaggio dell’Ordinanza con il quale il Giudice adito ha riconosciuto un informale messaggio inviato dal datore di lavoro tramite WhatsApp, come valida comunicazione idonea a porre fine al rapporto di lavoro. Al riguardo, si ricorda che la legge impone al datore di lavoro di comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore di lavoro e che lo stesso deve qualificarsi come atto unilaterale ricettizio che si perfeziona nel momento in cui giunge a conoscenza del destinatario (Cfr. ex multis Cass. Sez. Lav. n. 6845/2014).
Nel caso di specie, il Giudice del Tribunale di Catania ha affermato che la modalità utilizzata dal datore di lavoro è da considerarsi idonea ad assolvere i requisiti formali previsti ex lege “ … in quanto la volontà di licenziare è stata comunicata per iscritto alla lavoratrice in maniera inequivoca …”. Dal punto di vista tecnico, l’onere della forma scritta è stato ritenuto integrato in quanto il messaggio inviato a mezzo WhatsApp presenterebbe le caratteristiche peculiari proprie di un documento informatico dattiloscritto. A sostegno delle proprie argomentazioni, il Giudice del Tribunale di Catania ha richiamato una corrente interpretativa costante della Suprema Corte di Cassazione secondo cui in tema di forma scritta del licenziamento non sussiste a carico del datore di lavoro l’onere di adoperare forme “sacramentali”, ben potendo comunicare la volontà di licenziare anche in forma indiretta purché chiara (Cfr. Cass. Civ. Sez. Lav. n. 17652/2007).
Il ragionamento giuridico posto alla base dell’Ordinanza in commento, seppur innovativo, presenta alcuni profili che meritano di essere analizzati in quanto potrebbero comportare, nella prassi, alcune problematiche in relazione al c.d. principio della certezza del diritto. In particolare, posto che, come detto in precedenza, il licenziamento si perfeziona nel momento in cui lo stesso entra nella sfera di conoscenza del destinatario, potrebbe essere molto rischioso per un datore di lavoro affidarsi ad un mezzo di comunicazione informale che non garantisca, a livello giuridico, il momento di avvenuta consegna del messaggio al pari di una tradizionale raccomandata con ricevuta di ritorno. E ciò anche ai fini del computo dei termini di decadenza.
Nello specifico, seppur vero che WhatsApp consente al mittente del messaggio di conoscere l’avvenuta consegna del messaggio mediante la c.d. “doppia spunta grigia”, è altrettanto vero che si tratta di un’attestazione temporale propria dell’applicazione di messaggistica e, come tale, non disciplinata a livello giuridico.
La domanda sorge dunque spontanea: il datore di lavoro può ritenere di aver assolto il proprio onere sulla base di una comunicazione che non trova, ad oggi, una disciplina peculiare nell’ordinamento giuridico italiano? Stando all’interpretazione fornita dal Giudice del Tribunale di Catania ciò sarebbe astrattamente possibile.
Al contrario, ragioni di opportunità e di etica professionale suggerirebbero, almeno in questa fase, di evitare di regolare un momento così delicato del rapporto di lavoro mediante comunicazioni informali che potrebbero far scaturire dubbi applicativi. Non è difficile, infatti, immaginare in ipotesi del genere un notevole incremento delle strumentalizzazioni da parte dei lavoratori in merito all’effettiva conoscenza diretta della comunicazione di recesso con conseguente aggravio dell’onere probatorio a carico del datore di lavoro.