IL CONVIVENTE MORE UXORIO AL COSPETTO DELLA CORTE COSTITUZIONALE

Alberto Borella, Consulente del Lavoro in Chiavenna (So)

Chi ci segue con attenzione ricorderà sicuramente che nella rubrica Una proposta al mese di questa Rivista, parliamo di gennaio 2024, affrontammo la problematica dei conviventi di fatto sollecitando un intervento legislativo onde definire il loro inquadramento, anche e soprattutto dal punto di vista previdenziale1 . E ricorderanno pure che a luglio 2024 eravamo tornati sull’argomento sollecitati dalla sentenza della Cassazione, la numero 9778 dell’ 11 aprile 2024, che avevamo ritenuto poco convincente nel sostenere il principio che un’attività svolta da un convivente mediante una quotidiana e costante presenza presso la struttura del compagno, con il pieno inserimento quindi nella relativa gestione amministrativo contabile e nella organizzazione del lavoro ed implicante anche la spendita di specifiche competenze professionali, giustificasse l’inquadramento del convivente more uxorio quale lavoratore subordinato del proprio compagno2. I nostri dubbi che ci fosse qualcosa che non funzionasse nella Legge Cirinnà – e in particolare nel nuovo art. 230-ter c.c. in quanto ritenuto discriminatorio nel negare al convivente di fatto lo stesso trattamento previdenziale e pensionistico previsto per il classico collaboratore familiare previsto dall’art. 230- bis – vengono ora confermati dalla sentenza della Corte Costituzionale che, a dire il vero, va ben oltre le nostre perplessità, addirittura dichiarando l’illegittimità costituzionale del citato articolo 230-bis e in via consequenziale anche dell’articolo 230-ter del codice civile. Una decisione che, a parere di chi scrive, impone urgentemente di riconsiderare la posizione anche di altri soggetti coinvolti nella convivenza di fatto, situazioni che il giudice delle leggi non ha ancora affrontato.

LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE N. 148 DEL 2024

La sentenza è molto articolata per cui lasciamo al lettore la sua analisi, limitandoci ad evidenziarne i passaggi conclusivi. Si parte da una prima considerazione ovvero che vi è stata una convergente evoluzione sia della normativa, sia della giurisprudenza costituzionale, comune ed europea, che ha dato piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto pur non dimenticando il fatto che il modello di famiglia secondo la scelta del Costituente è la famiglia fondata sul matrimonio (art. 29 Cost.). Vero è quindi, prosegue la Corte, che permangono differenze di disciplina tra famiglia tradizionale, fondata sul matrimonio, e convivenza, ma, quando si tratta di diritti fondamentali, esse sono recessive e la tutela non può che essere la stessa sia che si tratti, ad esempio, del diritto all’abitazione o della protezione di soggetti disabili o dell’affettività di persone detenute. E ancora parimenti fondamentale è il diritto al lavoro e alla giusta retribuzione che, quando reso nel contesto di un’impresa familiare, richiede uguale protezione … Questa esigenza di approntare una speciale garanzia del lavoro è stata realizzata (nel 1975 – NdA) dall’art. 230-bis cod. civ. … con un ampio raggio di applicazione perché abbraccia non solo il coniuge e gli stretti congiunti dell’imprenditore, ma anche tutti i parenti fino al terzo grado e gli affini fino al secondo grado secondo l’elencazione contenuta nel terzo comma della disposizione; elencazione alla quale deve ritenersi che si siano aggiunti, nel 2016, i soggetti legati da unioni civili. In tale contesto si evidenzia che anche il convivente more uxorio versa nella stessa situazione in cui l’affectio maritalis fa sbiadire l’assoggettamento al potere direttivo dell’imprenditore, tipico del lavoro subordinato, e la prestazione lavorativa rischia di essere inesorabilmente attratta nell’orbita del lavoro gratuito. Si smarrisce così l’effettività della protezione del lavoro del convivente che, in termini fattuali, non differisce da quello del lavoro familiare prestato da chi è legato all’imprenditore da un rapporto di coniugio, parentela o affinità. È vero che successivamente il legislatore ha posto rimedio – solo parzialmente e in termini ingiustificatamente discriminatori – a questa carenza quando, nell’istituire le unioni civili, ha introdotto una fattispecie dimidiata di partecipazione all’impresa familiare del convivente di fatto (art. 230-ter cod. civ.). A quest’ultimo infatti non spetta alcuna tutela per il lavoro prestato all’interno della famiglia. Non spetta il diritto al mantenimento. Non spetta alcun diritto di prelazione per il caso di divisione ereditaria o cessione dell’impresa familiare. Non gli è riconosciuto alcun diritto partecipativo circa le decisioni gestionali e gli indirizzi produttivi. La Corte evidenzia a latere come, anche prima della disciplina delle unioni civili, sussistesse l’esigenza di tutelare il lavoro reso nell’impresa familiare dal convivente di fatto, quale diritto fondamentale con la conseguenza che la protezione del lavoro del convivente di fatto doveva essere la stessa di quella del coniuge e non poteva essere inferiore a quella riconosciuta finanche all’affine di secondo grado che prestasse la sua attività lavorativa nell’impresa familiare. Ciò premesso, la conclusione a cui si giunge è che emerge palesemente una violazione del diritto fondamentale al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) e alla giusta retribuzione (art. 36, primo comma, Cost.), in un contesto di formazione sociale, quale è la famiglia di fatto (art. 2 Cost.). Anche l’art. 3 Cost. risulta violato «non per la sua portata eguagliatrice, restando comunque diversificata la condizione del coniuge da quella del convivente» … ma per la contraddittorietà logica della esclusione del convivente dalla previsione di una norma posta a tutela del diritto al lavoro che va riconosciuto quale strumento di realizzazione della dignità di ogni persona, sia come singolo che quale componente della comunità, a partire da quella familiare (ancora, art. 2 Cost.) … La reductio ad legitimitatem della disposizione censurata va operata inserendo il convivente di fatto dell’imprenditore nell’elenco dei soggetti legittimati a partecipare all’impresa familiare di cui al terzo comma dell’art. 230-bis cod. civ., e quindi prevedendo come impresa familiare quella cui collabora anche «il convivente di fatto». Ai conviventi di fatto, intendendosi come tali «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale» (art. 1, comma 36, della legge n. 76 del 2016), vanno dunque riconosciute le stesse prerogative patrimoniali e partecipative del coniuge e della persona unita civilmente all’imprenditore. Per questi motivi la Corte Costituzionale: 1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-bis, terzo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede come familiare anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella cui collabora anche il «convivente di fatto»; 2) dichiara, in via consequenziale … l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-ter cod. civ. in quanto, come si legge nella stessa sentenza, l’ampliamento della tutela apprestata dall’art. 230-bis cod. civ. al convivente di fatto per effetto della predetta pronuncia di illegittimità costituzionale fa sì che la previsione dell’art. 230-ter cod. civ. avrebbe oggi il significato non più di apprestare per quest’ultimo una garanzia prima non prevista, come nell’intendimento del legislatore del 2016, bensì quella di restringere – ingiustificatamente e in modo discriminatorio (in violazione dell’art. 3, primo comma, Cost.) – la più ampia tutela qui riconosciuta; un abbassamento di protezione che viola il diritto fondamentale al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.), oltre che il diritto alla giusta retribuzione (art. 36, primo comma, Cost.). Per capirci meglio l’illegittimità costituzionale deve essere estesa anche all’art. 230-ter cod. civ. in quanto, lasciandolo in vigore, attribuirebbe al convivente di fatto una tutela dimidiata dal mancato riconoscimento del lavoro «nella famiglia», del diritto al mantenimento, del diritto di prelazione nonché dei diritti partecipativi, e quindi significativamente più ridotta rispetto a quella che consegue all’accoglimento della questione sollevata in riferimento all’art. 230-bis cod. civ..

I POSSIBILI SVILUPPI FUTURI

È chiaro che la sentenza impone, sin da ora, a tutti gli Enti che si sono pronunciati sulla questione – parliamo di Inps in ambito previdenziale, di Inail per quello assicurativo e di Agenzia delle Entrate per le questioni di rilevanza fiscale – un nuovo intervento correttivo e chiarificatore. Ma abbiamo anche detto che chi scrive ritiene sia opportuno affrontare da subito altre tematiche di analoga rilevanza. Un’urgenza che nasce dal fatto che l’illegittimità costituzionale ha coinvolto l’art. 230-bis, comma terzo, nella parte in cui non prevede come familiare anche il convivente di fatto e come impresa familiare quella cui collabora il suddetto familiare. Si noti che il convivente di fatto non viene assimilato tout court al coniuge, come è accaduto per l’unito civilmente, ma viene unicamente considerato – lui e soltanto lui – alla strega di qualsiasi altro familiare. E qui una doverosa riflessione si impone. Come ben sappiamo le convivenze di fatto ex lege n. 76 riguardano due persone, anche di sesso diverso, unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale. Non è però inusuale che a queste convivenze partecipino anche i figli nati da precedenti unioni (anche di tipo non matrimoniale). E non è altrettanto raro che questi figli entrino a far parte di una famiglia di fatto in tenera età, legandosi affettivamente al nuovo nucleo, compresi fratellastri e sorellastre nati dalla convivenza. Dovremmo quindi domandarci se: – è condivisibile che vengano esclusi dall’impresa familiare ex art. 230-bis c.c. (a cui oggi, dopo la sentenza della Consulta, partecipa il convivente more uxorio) i figli di colei o colui che sono legati da stabili legami affettivi – seppur non di coppia – e talvolta anche di reciproca assistenza morale e materiale sia con il compagno del genitore che con i figli avuti in seguito dalla coppia? – è tollerabile una differenza tra il figlio adottato (che può essere anche un già maggiorenne) e il figlio del convivente – magari non riconosciuto dall’altro genitore o addirittura rimasto precocemente orfano di padre o di madre – cresciuto dalla tenera età in una famiglia di fatto? – è ammissibile una disparità tra il figlio di uno dei conviventi cresciuto in una famiglia di fatto e il figlio dell’unito civilmente nato da precedente matrimonio? Si tenga presente che la Corte Costituzionale ha già statuito che la protezione del lavoro del convivente di fatto non può essere inferiore a quella riconosciuta finanche all’affine di secondo grado che prestasse la sua attività lavorativa nell’impresa familiare. Ora è più meritevole di tutela un figlio di uno dei due conviventi, nato e cresciuto nella famiglia di fatto, o un affine di secondo grado (fratelli, sorelle, nonni e abiatici da parte del coniuge) che magari ha già formato una famiglia tutta sua? Ricordiamo quanto affermato dalla Consulta: le convivenze di fatto, al pari delle unioni civili, appartengono alle formazioni sociali di cui all’art. 2 Cost. e che l’eventuale violazione di diritti costituzionali deve essere valutata in un contesto di formazione sociale, quale è la famiglia di fatto (art. 2 Cost.). Non solo quindi riguardo al convivente ma all’intera famiglia di fatto.


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