Lasciatemi innanzitutto dire che sono molto contento di tornare a scrivere su Sintesi, rivista piena di spunti interessanti e che leggo sempre con grande interesse e con piacere. Colpevolmente assente qui da troppo tempo, provo a dare ora il mio contributo in merito alle recenti novità introdotte al contratto a termine (tanto diretto quanto a scopo di somministrazione) dal decreto Lavoro e dalla sua legge di conversione.
Forse ci si aspettava di più da questo decreto. Puo’ darsi. Anche perché le anticipazioni diffuse dalla stampa nei primi mesi dell’anno facevano pensare ad un superamento totale del decreto dignità con un sostanziale ritorno al Jobs Act (salvo la conferma, ormai consolidata, della riduzione da trentasei a ventiquattro mesi della durata massima contrattuale). Si dava infatti ormai per certa l’eliminazione delle causali, con un conseguente ritorno pieno alla acausalità dei contratti a termine. Ma sappiamo non è stato così. Cosa sia avvenuto nei palazzi romani non è dato sapersi con esattezza. I ben informati dicono di un governo preoccupato di non innervosire troppo la CGIL vista l’abrogazione del reddito di cittadinanza, questa sì avvenuta ad opera del decreto Lavoro con la sua sostituzione mediante il diverso istituto dell’assegno di inclusione, che a Maurizio Landini non è piaciuta per nulla.
Ma torniamo al punto. Dopo aver accantonato (Deo gratias) l’impraticabile idea della certificazione dei contratti, il governo Meloni decide di riscrivere completamente il meccanismo delle causali introdotto dal decreto Dignità.
Nessun ritorno alla acausalità sempre e comunque, come detto, ma un primo colpo al decreto Dignità è servito (l’altro arriverà con la legge di conversione, vedremo dopo). Ricordate cos’era necessario per prorogare un contratto oltre i dodici mesi o, semplicemente, per rinnovarlo? Non era sufficiente, ad esempio, un incremento dell’attività ordinaria, ma era necessario che tale incremento fosse i) temporaneo, ii) significativo e iii) non programmabile, con specifica declinazione dei tre aggettivi. Insomma, una prova diabolica a cui era possibile assolvere solo – forse – a seguito di un allineamento di tutti i pianeti del nostro sistema solare. Pensiamo a un gelataio che registra un incremento della produzione di gelato alla crema (attività ordinaria), in pieno inverno (non programmabile), per un mese o poco più (temporaneo), pari al triplo, anzi facciamo al quadruplo, della produzione media di quel periodo (significativo). Che poi, chissà, se questo allineamento planetario avrebbe anche trovato accoglimento da parte dei nostri giudici del lavoro.
Ora tutto questo non c’è più. E, lasciatemelo dire, io lo trovo un profondo senso di liberazione. Il governo col decreto Lavoro decide, infatti, di assegnare in prima battuta (D.lgs. n. 81/2015, art. 19, comma 1, novellata lettera a)) ai contratti collettivi, di ogni livello anche aziendali, l’individuazione in via normale dei “casi” per cui, vedremo meglio dopo, è possibile “andare oltre i dodici mesi” di contratto/i (pur sempre entro i ventiquattro mesi). E anche la scelta del termine “casi” va letta con favore, in quanto molto ampia. Non più “specifiche esigenze” come fece in epoca Covid il governo Draghi col decreto Sostegni bis, ma “casi” appunto. Aprendo in questo modo alla contrattazione nazionale (che con “specifiche esigenze” era forse un po’ sacrificata) oltre che confermare, certo, quella aziendale. E avvalorando ora, senza dubbio alcuno, la possibilità di avere causali (rectius casi) anche soggettive e quindi rivolte a particolari tipologie di lavoratori e non solo, oggettive, legate all’organizzazione aziendale. In seconda battuta (D.lgs. n. 81/2015, art. 19, comma 1, novellata lettera b), solo se e finché i contratti collettivi nulla dicono in tema di causali, sono le parti individuali del contratto di lavoro, datore di lavoro e lavoratore, a poter individuare una esigenza tecnica, organizzativa o produttiva a “far da causale”. Una funzione suppletiva pero’ a tempo, in quanto esercitabile solo sino al 30 aprile 2024. Poi, dall’1 maggio 2024, o i contratti collettivi saranno intervenuti oppure, salvo l’utilizzo della causale sostitutiva laddove possibile, il limite dei dodici mesi diverrà un limite temporale invalicabile.
In molti hanno osservato come, per un anno, potremmo essere in presenza di un ritorno al cosiddetto “causalone”. Un balzo indietro sino al 2001, al decreto legislativo n. 368, con tanto di pesante contenzioso giudiziale che ne è seguito? Sul punto, personalmente, preferisco l’interpretazione che porta a dare una risposta negativa a tale equiparazione. Perché, se da un lato la formulazione testuale è pressoché identica a quella del 2001, dall’altro lato molto diverso è l’impianto normativo in cui è oggi inserita rispetto a quello del passato. Se infatti il causalone di allora era sostanzialmente l’unica misura prevista per contrastare l’abuso derivante dalla successione di più contratti a termine (che è quanto chiede la direttiva europea) e quindi la causale oltre ad essere specifica doveva anche far emergere il necessario requisito della temporaneità, ora – fermo l’onere della specificazione in capo al datore di lavoro – la presenza di un limite temporale alla successione dei contratti che nel 2001 non era presente, i ventiquattro mesi, potrebbe da solo essere sufficiente per soddisfare la prerogativa della temporaneità. Vedremo se i giudici del lavoro terranno conto di questa possibile lettura nel valutare la bontà di una causale individuata dalle parti individuali.
Ci si è anche domandati se le causali introdotte dalla contrattazione collettiva prima del decreto Lavoro siano ancora utilizzabili oppure no. E, se sì, quali gli effetti sulla possibilità per le parti individuali di procedere con il causalone che, come detto, risulta precluso in caso di intervento della contrattazione collettiva. Personalmente ritengo che le “specifiche esigenze” introdotte dai contratti collettivi in attuazione del decreto Sostegni bis siano certamente ancora valide, per due ordini di motivi.
Il primo attiene al fatto che si tratta di norma successiva al decreto Dignità, nel tentativo di allargarne le maglie. Per lo stesso motivo, ri- ! tengo quindi che non abbiano più valore le causali collettive introdotte prima del decreto Dignità, dato che quest’ultimo aveva fatto tabula rasa di tutto quanto introdotto e normato prima della sua entrata in vigore. Il secondo ordine di motivi attiene al dato letterale. E cioè se le parti collettive erano state così brave nell’individuare una “specifica esigenza”, di certo questa previsione puo’ ora avere cittadinanza anche come “caso” che indubbiamente ha una accezione molto più ampia. Sono anche del parere, pero’, che queste causali collettive ante decreto Lavoro non siano, come lo saranno invece le post per espressa previsione di legge, impeditive della causale individuale (causalone). E questo perché, a ragionare diversamente, si assegnerebbe alla fonte collettiva ante decreto Lavoro una funzione che certo il Legislatore dell’epoca non aveva previsto. In altri termini, quando, ad esempio, nel 2022 le parti sociali intorno al tavolo hanno di comune accordo individuato le causali, l’hanno fatto per allargare le maglie del decreto Dignità e non certo, neppure, potendo immaginare che quell’allargamento, da lì a poco, avrebbe comportato al contrario un restringimento, essendo di fatto l’unico impianto causale possibile. Ora, dopo aver analizzato il primo colpo che il decreto Lavoro ha inferto al decreto Dignità (la completa riscrittura e semplificazione delle causali, come visto), proviamo ad analizzare il secondo colpo infertogli dalla legge di conversione. Premessa doverosa. Il decreto Dignità prevede(va) che la causale fosse necessaria in tre situazioni: i) contratto di durata iniziale superiore a 12 mesi, ii) proroga che porta la durata del contratto a superare i dodici mesi, iii) rinnovi, cioè riassunzioni del lavoratore a termine, indipendentemente dalle durate.
Questa impostazione era rimasta immutata con l’entrata in vigore, il 5 maggio 2023, del decreto Lavoro. La legge di conversione, in vigore dal 4 luglio 2023, ci consegna invece una novità importante: anche coi rinnovi la causale non serve sempre e a prescindere ma, invece, è necessaria solo quando “il termine complessivo eccede i dodici mesi” (D.lgs. n. 81/2015, art. 19, comma 4, ultimo periodo). Quindi, d’ora in avanti – riporto il testo novellato del D.lgs. n. 81/2015, art. 21, comma 01, primo periodo – “Il contratto puo’ essere prorogato e rinnovato liberamente nei primi dodici mesi”. Sul punto si sono già confrontate almeno due diverse interpretazioni. La prima afferma che i dodici mesi sono di calendario cioè, in altre parole, un contratto sottoscritto ad esempio il 1° settembre 2023 potrà essere (oltre che prorogato anche) rinnovato per dodici mesi, tenendo pero’ come ultimo giorno di contratto sempre e comunque il 31 agosto 2024. Una seconda e diversa, a mio parere più aderente alla lettera della norma (“termine complessivo”) e che credo collimi anche con la ratio della novella in commento, considera invece i dodici mesi non come anno solare ma come sommatoria delle durate dei vari contratti (il primo e i successivi rinnovi). Aderendo alla prima interpretazione, tra l’altro, i dodici mesi complessivi potrebbero non raggiungersi mai in considerazione della necessità di rispettare uno stacco (il cosiddetto stop & go) tra un contratto a termine e il successivo (previsione che, ricordo, non si applica in caso di contratti a termine a scopo di somministrazione). Anche in base a questo assunto, oltre al fatto di voler riconoscere al rinnovo una distinta connotazione rispetto al diverso istituto della proroga, la mia preferenza va appunto all’interpretazione che considera i dodici mesi raggiungibili per sommatoria in forza di diversi contratti stipulati anche in un arco temporale superiore all’anno. Ma non è finita qui. Perché la legge di conversione del decreto Lavoro introduce anche un’ulteriore novità. Si prevede infatti una sorta di franchigia che, in sostanza e ai soli fini dei dodici mesi sopra trattati, azzera tutti i contratti sottoscritti prima dell’entrata in vigore del decreto Lavoro (5 maggio 2023). Riporto testualmente: “Ai fini del computo del termine di dodici mesi previsto dall’articolo 19, comma 1, e dall’articolo 21, comma 01, del decreto legislativo n. 81 del 2015, come modificati dai commi 1 e 1-bis del presente articolo, si tiene conto dei soli contratti stipulati a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto”. Quindi, tanto ai fini delle proroghe (D.lgs. n. 81/2015, art. 19, comma 1) quanto ai fini dei rinnovi (D.lgs. n. 81/2015, art. 21, comma 01), i dodici mesi superati i quali si rende necessaria una causale, decorrono solo a partire dalla stipula dei contratti (attenzione, non proroga che non è un contratto ma la sua prosecuzione) dal 5 maggio 2023 in avanti.
Concludendo sul punto, possiamo dire che la legge di conversione introduce un nuovo e diverso contatore, di dodici mesi, necessario per sapere se e quando è necessario apporre una causale. Conteggio che si affianca (non sostituisce e non modifica) a quello dei ventiquattro mesi di durata complessiva di uno o più (salvo diverse disposizioni dei contratti collettivi) contratti a termine.
Chiudo questo mio scritto con una domanda: alla luce della seconda novità introdotta dalla legge di conversione sopra descritta (computo dei dodici mesi solo a partire dai contratti post 5 maggio 2023), è possibile sostenere che il causalone (ricordo utilizzabile entro il 30 aprile 2024 in assenza della contrattazione collettiva) sia stato in sostanza ora definitamente abbandonato dal Legislatore, pur senza una abrogazione esplicita, in quanto fatto rivivere solo per i due mesi intercorrenti tra l’entrata in vigore del decreto lavoro e la sua conversione in legge?