I NUOVI CONTRATTI A TERMINE E L’AZZERAMENTO DEL PERIODO “ACAUSALE”

Alberto Borella, Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

“Se si consente al legislatore (e alla prassi) l’utilizzo
di un linguaggio giuridico inadeguato,
non ci si può poi lamentare dell’incertezza del diritto.”

Fiumi di parole sul contratto a termine che pare proprio non trovare pace. Del resto norme scritte male portano al proliferare di indicazioni contrastanti della dottrina, di circolari fantasiosamente interpretative, di sentenze che dicono tutto e il contrario di tutto. Con incertezze operative che durano anni, con inevitabili ricadute sul raggiungimento degli obiettivi che i provvedimenti si prefiggono. La Legge n. 85 del 3 luglio 2023, di conversione del D.l. n. 48 del 4 maggio 2023 è, ahimè, destinata a produrre altro spreco di inchiostro in quanto da un lato non ha risolto alcuni dubbi dell’originario decreto-legge e dall’altro ne ha introdotti dei nuovi. E pure di un certo peso.

LE NUOVE CAUSALI
Con il D.l. n. 48/2023 come sappiamo si è provveduto alla riscrittura della Disciplina del contratto di lavoro a termine di cui all’articolo 19 del D.lgs n. 81 del 15 giugno 2015, nei seguenti termini:

Al contratto di lavoro subordinato pu essere apposto un termine di durata non superiore a dodici mesi. Il contratto pu avere una durata superiore, ma comunque non eccedente i ventiquattro mesi, solo in presenza di almeno una delle seguenti condizioni:
nei casi previsti dai contratti collettivi di cui all’articolo 51;
in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 30 aprile 2024, per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti; b-bis) in sostituzione di altri lavoratori.
Partiamo dalla premessa che l’inciso solo in presenza di almeno una delle seguenti condizioni letto in tutt’uno con ognuna delle tre ipotesi non aiuta di certo la comprensione del testo, motivo per il quale sarebbe stata opportuna la sua espunzione e una migliore riscrittura delle singole casistiche.

Va da sé che molti commentatori – tra cui chi scrive – si sono domandati il senso della previsione della lettera b), un confuso mix di condizioni e di motivi, che si presta ad una duplice lettura. Proviamo a riassumere la questione.

Il passaggio va letto in stretta connessione con la precedente lettera a) che consente il superamento del limite dei primi dodici mesi complessivi di acausalità (senza superare comunque i ventiquattro) nei casi previsti dai contratti collettivi di cui all’articolo 51. Qui non vi è alcun dubbio che il rimando è ai contratti collettivi di cui all’art. 51 del D.lgs. n. 81/2015 che, lo ricordiamo, sono i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria.

La lettera b) invece è scritta davvero male. Nulla questio sulla prima parte del periodo che ci segnala come la possibilità prevista dalla lettera b) di superare l’anno di acausalità rilevi solo nel caso si registri una assenza delle previsioni di cui alla lettera a). Una premessa assolutamente chiara.

Il problema nasce dal successivo periodo che risulta separato da una virgola, segno di interpunzione la cui presenza o assenza cambia, e di molto, il senso del discorso. Una cosa infatti è dire in assenza delle previsioni di cui alla lettera a) nei contratti collettivi applicati in azienda (senza virgola), la cui conseguenza è che in tale ipotesi rilevano le esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti. In questo caso risulta pacifico che il riferimento ai contratti collettivi (seppur ridondante) è sempre a quelli di cui all’art. 51.

Altra cosa è leggere la frase come è stata scritta – appunto con la virgola – che per taluni deve essere interpretata nel senso che, in assenza delle previsioni derogatorie nei contratti collettivi ex art. 51, rilevano quelli applicati in azienda anche se non comparativamente più rappresentativi oltre che, ma solo sino al 30 aprile 2024, le casistiche individuate dalle parti del contratto individuale riferite ad esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva. Questa lettura è senza dubbio intrigante potendosi basare sul fatto che proprio l’art. 51 sopra citato dispone che Salvo diversa previsione, ai fini del presente decreto, per contratti collettivi si intendono … Non si puo’ quindi escludere che con la lettera b) si sia voluto fare riferimento proprio ai contratti collettivi non comparativamente più rappresentativi ma comunque applicati in azienda. Un ostacolo a questa lettura è dato per , ancora una volta, dal mal posizionamento di una virgola. Quella virgola posta all’inizio dell’inciso “e comunque entro il 30 aprile 2024” che andrebbe spostata da prima a dopo la congiunzione “e”.

Volendo far finta di nulla, secondo questa tesi avremmo una sorta di podio che vede: – al primo posto i contratti leader;

al secondo qualsiasi contratto collettivo applicato in azienda;
medaglia d’argento ex aequo, ma solo fino al 30 aprile 2024, alle pattuizioni individuali siglate tra ditta e lavoratore.
Il che avrebbe un senso ovvero di sprone ai contratti comparativamente più rappresentativi di darsi da fare. E pure in fretta perché il dubbio che sovviene è che non abbiano tutta questa voglia di farlo.

Comunque la si veda – e intenzionalmente si son volute evitare disquisizioni troppo tecniche che del resto lascerebbero il tempo che trovano dato che un punto fermo lo metterà, ahinoi, la magistratura non prima di qualche decennio – è pacifico che oggi il passaggio di questa disposizione non puo’ ricevere una lettura univoca. Proprio per questo, a fronte di tutte le richieste di aiuto partite dalla dottrina, ci saremmo aspettati una puntuale modifica della norma che chiarisse definitivamente il punto. Un po’ di sana umiltà da parte del legislatore sarebbe stata apprezzata.

L’AZZERAMENTO DEL CONTATORE “PRECEDENTI RAPPORTI”
La legge di conversione introduce una novità sulla cui lettura la dottrina, manco a dirlo, si sta nuovamente dividendo.

Ci riferiamo alla introduzione nell’art. 24 del D.l. n. 48/2023 del nuovo comma 1-ter. Ai fini del computo del termine di dodici mesi previsto dall’articolo 19, comma 1, e dall’articolo 21, comma 01, del decreto legislativo n. 81 del 2015, come modificati dai commi 1 e 1-bis del presente articolo, si tiene conto dei soli contratti stipulati a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto.

In questo caso i dubbi riguardano la portata del termine “contratti” sul quale si registrano due letture.

Per parte della dottrina i contratti di cui non tenere conto sono solo i rinnovi stipulati dal 5 maggio 2023. Continuerebbero invece a rilevare, ai fini della durata massima di 12 mesi di acausalità, le eventuali proroghe concordate dopo la data di entrata in vigore del D.l. n. 48/2023 in quanto si dovrebbe considerare la proroga non quale contratto ma unicamente la volontà delle parti di spostare in avanti la scadenza di un contratto già in essere.
Secondo altri commentatori invece anche ! le eventuali proroghe beneficerebbero dell’azzeramento dei termini in quanto la proroga è a tutti gli effetti, civilisticamente parlando, un contratto ai sensi dell’art. 1321 c.c. che stabilisce che
Il contratto è l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale. Lo spostamento del termine è infatti un modo di “regolare” un precedente contratto che, senza questo nuovo patto, cesserebbe di esistere. Tale effetto lo si ottiene con un altro accordo tra le parti che rappresenta quindi un fatto sostanziale che – seppur innegabilmente collegato al precedente contratto – non pu essere derubricato a qualcosa di secondaria o marginale importanza rispetto all’accordo originale. Chi scrive aderisce a questo secondo schieramento anche perché va sottolineato che il D.lgs n. 81/2015 non dà alcuna specifica definizione, per le proprie finalità, del termine contratto così come non lo ha mai fatto per i termini proroga e rinnovi. In assenza di una simile precisazione si ritiene che per il termine contratto non possano che rilevare le definizioni civilistiche. Ulteriore conferma la si trova nello spirito della legge di conversione dove si registra la volontà di assimilare le ipotesi di proroga e di rinnovo modificando, in questa direzione, il comma 01 dell’art. 21 del D.lgs. n. 81/2015, disponendo così che

Il contratto pu essere prorogato e rinnovato liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente, solo in presenza delle condizioni di cui all’articolo 19, comma 1.

Del resto proroga e rinnovo sono per la lingua italiana dei sinonimi. Se proprio vogliamo operare un distinguo il rinnovo è la proroga di pari durata del contratto originario. Si rinnova l’abbonamento alla piscina, l’assicurazione; si proroga il soggiorno al mare, la scadenza di un pagamento.

Altra considerazione che si pu fare è che una lettura restrittiva della disposizione verrebbe agilmente superata in quelle realtà dove la contrattazione aziendale ha ridotto di molto o addirittura eliminato il cosiddetto Stop&Go. In sostanza per bypassare questa lettura restrittiva basterebbe licenziare il lavoratore il venerdì e riassumerlo il lunedì seguente. Del resto, inutile nasconderlo, la differenza tra proroga e rinnovo – soprattutto nella situazione sopra descritta di accordi aziendali – riguarda, nella sostanza, la presenza di un periodo di stacco. Gli effetti che si ottengono sono assolutamente identici: proseguire il medesimo rapporto di lavoro fino ad una data successiva.

DELUSIONE ED AMAREZZA
Abbiamo già evidenziato tutta la nostra delusione per il mancato chiarimento legislativo sulla prima problematica. Come al solito ci toccherà navigare a vista nel mare magnum dell’incertezza.

Chi scrive deve anche esprimere la propria amarezza nel prendere atto della cronica rassegnazione di molti degli operatori del settore, pubblicisti in primis, che confidano in rapidi chiarimenti da parte del Ministero del Lavoro. Ministero che, per inciso, a distanza di oramai quattro mesi dal D.l. n. 48/2023 ancora non si è espresso sulle questioni qui evidenziate. Ovviamente un intervento ministeriale rappresenterebbe un più che autorevole parere sulla portata delle disposizioni qui in commento dato che le modifiche alla disciplina dei contratti a termine sono state dettate proprio dal Dicastero a guida Calderone. Ma sappiamo bene che spesso la magistratura se ne infischia bellamente delle circolari. A volte pure della legge: ve lo ricordate cosa è successo alla disciplina dei licenziamenti introdotta dal Jobs Act?

Per questi motivi si auspica sulle problematiche qui trattate un rapido intervento di interpretazione autentica.

Magari facendosi aiutare non solo nel rigoroso ed incisivo utilizzo della terminologia ma anche per il necessario corretto posizionamento delle virgole.


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