La lotta al precariato sembrerebbe essere la priorità anche del nuovo Governo… ma siamo sicuri che le novità introdotte dal Decreto Dignità siano davvero la soluzione ai problemi del mercato del lavoro italiano?
Il dubbio sorge e sembra alquanto fondato: se da un lato, infatti, il neo-ministro Luigi Di Maio ritiene che le nuove disposizioni possano indurre i datori ad abbandonare i contratti a temine ed a sottoscrivere sempre più contratti di lavoro a tempo indeterminato, è pur vero che, dall’altro lato, non si possa, invece, escludere che tali previsioni inducano ad un turn-over rapido ed irrefrenabile, al solo fine di evitare di raggiungere le ridotte soglie imposte dalla nuova normativa ed il conseguente potenziale contenzioso.
Il Decreto Dignità rinnova la durata massima del contratto a termine, passando da complessivi 36 mesi a 24 e riducendo il numero massimo di proroghe applicabili all’originario contratto da 5 a 4 (art. 1 co. 1 lett. b) in riforma dell’art. 21 del D.lgs. n. 81/2015).
Ma non solo.
La riforma del contratto a tempo determinato sembra essere l’obiettivo condiviso dai Governi che si sono succeduti negli ultimi anni: se con il Governo Renzi abbiamo assistito alla totale abolizione della distinzione tra “causalità” ed “acausalità”, con l’attuale Governo assistiamo ad una drastica virata ed un ritorno alle causali, seppur in una versione completamente differente.Il D.l. n.87/2018, in vigore dal giorno successivo alla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale avvenuto il 13 luglio scorso, prevede infatti che, nel caso in cui il contratto di lavoro venga stipulato e/o prorogato per una durata complessiva superiore a 12 mesi (ma, comunque, inferiore a 24), nonché rinnovato (indipendentemente dalla durata, purchè inferiore a 24 mesi complessivi e, in ogni caso, ferme restando le condizioni del cd. Stop and go), il datore di lavoro sarà tenuto a specificare la causale, ossia ad indicare esplicitamente le ragioni che giustificano il ricorso a tale tipologia contrattuale (art. 1 co. 2 del D.l. n. 87/2018).
A tal proposito, l’art. 1 co. 1 lett. a) del D.l. n.87/2018 (in riforma dell’art. 19 del D.lgs. n. 81/2015) individua le seguenti condizioni:
esigenze temporanee ed oggettive estranee all’ordinaria attività (lett. a);
esigenze sostitutive di altri lavoratori (lett. a);
incrementi temporanei significativi e non programmabili dell’attività ordinaria (lett.b).
È di tutta evidenza che le nuove causali non hanno nulla a che vedere con quelle previste dall’art. 1 co. 1 del D.lgs. n. 368/2001, secondo cui era sufficiente indicare le ragioni “tecniche, organizzative, produttive e/o sostitutive” che giustificavano l’apposizione di un termine ai contratti di lavoro.
Le causali così individuate, dunque, vengono del tutto tipizzate, a discapito delle precedenti che, seppur obbligatorie, lasciavano un più ampio margine di “discrezionalità” al datore di lavoro.
Tuttavia, in mancanza di causale e/o nel caso in cui, per quanto apposta, sia del tutto generica e non rispondente alle condizioni di cui all’art. 1 co. 1 lett. a), il termine indicato risulterà nullo ed il rapporto di lavoro potrà essere, conseguentemente, ricondotto ab origine ad un contratto a tempo indeterminato.
Al lavoratore viene, inoltre, concesso un termine di 180 giorni, in luogo dei precedenti 120, per impugnare formalmente il termine apposto al proprio contratto di lavoro (art. 1 co. 1 lett. c) in riforma dell’art. 28 co. 1 del D.lgs. n. 81/2015).
Sarà davvero questa l’arma decisiva per sconfiggere il precariato? Ci auguriamo che in sede di conversione, il Decreto Legge venga rivisto in modo significativo, poiché le novità introdotte rischiano, da un lato, di indurre i datori di lavoro a stipulare contratti di soli 12 mesi per sfuggire alle causali e, dall’altro, di incrementare notevolmente il contenzioso al fine di ottenere il riconoscimento di rapporti di lavoro a tempo indeterminato.
Se così fosse, assisteremmo ad un vero e proprio effetto boomerang: alimentare i contratti a termine (di soli 12 mesi!) nel tentativo di sconfiggere il precariato.
Si noti, peraltro, che l’attuale sistema assistenziale, in questo panorama normativo, non agevolerebbe certo i lavoratori nell’accesso agli strumenti di sostegno al reddito ma, anzi, aumenterebbe considerevolmente la spesa pubblica e diminuirebbe gli importi effettivamente erogabili in quanto calibrati non già su 12-24 mesi ma sui precedenti 36.
Sì alle riforme, dunque, purché organiche, strutturate e, per stare in tema, dignitose!