Il treno era quello della linea dei pendolari – avanti e indietro ogni giorno, fino alla sospirata pensione – ma forse a quell’ora, metà pomeriggio, avevo qualche speranza di non finire in mezzo alla solita calca da bolgia dantesca. E difatti trovai uno scomparto con ben quattro posti liberi, tanto da potermi sedere e distendere le gambe, appoggiare la borsa, togliere il cappotto e riporvelo sopra (non proprio con cura, no, non ho mai imparato a piegarlo come si deve) e pure permettermi di leggere qualcosa che mi ero portato appresso, sperando non arrivasse nessuno ad invadere la piccola comodità che mi era stata regalata. Io ho spesso con me roba da leggere, i tempi morti a volte sono tanti, non solo un viaggio, magari è un cliente che si fa attendere, una fila in uno di quei rari uffici dove ancora si degnano di riceverti di persona, cose così. Il treno era ancora fermo in stazione, mancava ancora qualche minuto alla partenza e la luce del sole di traverso, quel sole invernale così raro dalle nostre parti, attraversava – prossima al tramonto – tutto il vagone, creando un effetto fotografico nel gioco di ombre e luci che si riflettevano dentro. Proprio mentre il treno, con un lieve sussulto, cominciò la sua lenta corsa, entrarono nello scompartimento due signore e si sedettero proprio davanti a me. Mi ritirai con garbo in modo da condividere lo spazio, addio gambe distese, ma soprattutto addio al silenzio, perché le due stavano animatamente discutendo ancora prima, probabilmente, di salire sul treno. Io di solito, in quei rari momenti in cui vita e telefono si sospendono per un breve periodo di tempo, sono allegramente intento nei miei pensieri e nei fatti miei, né trovo un particolare diletto nel farmi quelli degli altri; ma così, a un tiro di fiato, mi era impossibile non ascoltare. Ovviamente distoglievo lo sguardo e mi fingevo una concentrazione impossibile sui fogli davanti a me, cercando di non incrociare nemmeno lo sguardo e di seppellire scomparendo nel nulla quel naturale imbarazzo che si crea quando la vita ti avvicina forzosamente a terzi. Non potrei pertanto descrivere le mie due occasionali coinquiline dello scomparto, ricordo di aver notato vagamente che una, la più esagitata e che teneva banco, era bruna mentre l’altra virava all’incirca sul biondo castano; entrambe avevano un look ed un modo di esprimersi che tradiva un lavoro d’ufficio, forse anche in un posto di un discreto standing. – Sono furibonda,fu-ri-bon-da -diceva la bruna – trattarmi così, come una pezza da piedi. Ah ma gli faccio vedere io! – Ma Paola – mi sembra di ricordare questo nome, detto dalla bionda – guarda che non ti ha fatto nulla: ti ha solo detto, anche in modo educato, che quel lavoro era sbagliato e che andava rifatto. – Ma come sbagliato! Sono anni che lo faccio così, anzi mi correggo: si è sempre fatto così! E adesso arriva lui, “il signorino”, a dirmi che non va bene… – Veramente, Paola, c’è una mail di tre mesi fa con le istruzioni nuove, che poi io le trovo anche più efficaci del vecchio metodo. Anzi le stiamo usando tutti, solo tu continui imperterrita. – Ma taci tu e tutti gli altri leccapiedi dell’ufficio. Basta che quello fiati e voi tutti giù a genuflettersi… La bionda replicava con pazienza, si capiva che fra loro c’era una certa amicizia oltre il lavoro, un rapporto che faceva da argine a quello che istintivamente avrei risposto io al suo posto. – Ma dai, non è vero, è una persona intelligente sta facendo solo il bene dell’azienda. È anche attento, cerca di mettere tutti a proprio agio, sei tu che non lo sopporti. – Ah, adesso sono io… Carla, a me nessuno mi dice quel che devo fare o non fare. Ma adesso gli faccio vedere io. Oggi, per cominciare, gli ho taroccato tutti i report del mio lavoro (tanto comunque sono così inviperita che da giorni non faccio praticamente nulla). Poi ho mandato una mail al nostro RLS sindacalista, chiedendogli se i lavori che stanno facendo sul tetto sono a norma o no… – Ma che ti interessa, scusa? Noi siamo tre piani sotto … – Non è cosa mi interessa. È che io mi devo sfogare, devo farla pagare a lui, alla ditta e anche ai colleghi, te compresa eh Carla, che sembrate tutti degli idioti inebetiti, ipnotizzati dal signorino e dalle balle che vi raccontano, e il welfare, e il distributore dell’acqua depurata, e il bonus per le performance… Eh no, io vado controcorrente, la Paola è la Paola ed è capace di fare più casino di un terrorista, se vuole … – Paola, ma così vivi male, cerca di rilassarti, ormai è due anni che vivi così, già lo sai che hai il tuo caratterino (lo hai sempre avuto, eh …) ma poi da quando ti sei separata da Giorgio … – Non mi parlare di Giorgio! Dopo dieci anni di matrimonio se n’è andato, questo imbecille. E ora fa il paparino, tutto dedito ai figli, sembra ci siano solo loro. E invece, lo sai, il mese scorso era in ritardo di ben due giorni con l’assegno! Ah ma ho telefonato subito all’avvocato… se non arriva il bonifico entro sera tu i figli non li vedi per un mese! Che se io non sto bene, non stanno bene neanche loro … – Ma veramente Giorgio, è sempre stato un papà attento, presente… – Smettila! Sembri i miei figli! Io lo so, voi tutti falsi amici siete dalla sua parte, anche tu Carla che mi conosci da anni! Sei dalla parte di Giorgio, dalla parte del capo, dalla parte dei colleghi. Tutti contro di me… ah ma io sono esaurita, sai, sto prendendo goccine come non ci fosse un domani. Ma… ho tanto di certificato medico, io, faccio causa a tutti, alla ditta, al capo, a Giorgio, al mondo intero! – Ma perchè invece di fare cause non fai un po’ pace con te stessa, Paola – disse la bionda in tono un po’ brusco, alzandosi. Io pensavo stesse piantando in asso l’antipaticissima amica, invece si alzò pure questa, erano probabilmente arrivate a destinazione (grazie a Dio, pensai). Il silenzio tardò un po’ a riprendersi il suo spazio, chè da lontano sentivo ancora la mora cianciare contro il mondo e le sue (del mondo, ovviamente) nefandezze; che poi quello che ritornò non era un silenzio vero, era il brusìo indistinto dei treni popolati, ma che accompagnava bene quel minimo di concentrazione necessaria per mettermi a leggere un po’. Però ripensavo alla conversazione appena passata; mi immaginavo quella Paola sul posto di lavoro, mi figuravo lo strazio ed il fastidio di una persona petulante, ostracizzante, conflittuale, pronta a battagliare su inezie, a creare malumori, inefficienze, nervosismo. Non dovevo nemmeno fare troppo sforzo di immaginazione, ho avuto anch’io persone così in ufficio, mi ricordo perfettamente il sollievo di quando hanno preso un’altra strada. Che poi, a dirla tutta, non è che esperienze di questo genere non arrivino mai sulla mia scrivania. E conosco bene il senso di frustrazione che da datore ti prende, anche appassionato e dedito al meglio per chi lavora con te, quel sentimento di impotenza: perché a una persona negativa, diciamo problematica (con se stessa e in se stessa) che puoi fare? Vorresti, lo dico con tutta franchezza, non averla, vorresti poter mettere fra te e lui (o lei) quanti più chilometri possibile, ma strumenti legali, concreti, non ne hai. Sarebbe una defatigante opera in cui contestare cose che sembrano scaturire da una commedia goldoniana o dal pettegolezzo di ringhiera: non rispondi bene, hai sempre il broncio, tratti male tutti, ti lamenti di tutti, non collabori. Per andare al sodo: come fai a liberarti di uno str…acciaanima, uno str…alunato, no, almeno una volta va detta papale papale; come fai a licenziare uno stronzo1 ? E così mi cade l’occhio su un articolo, a volte guarda la combinazione, fra quelli che mi ero portato dietro da leggere, dove si parla di eristress, parola che non avevo mai incontrato prima, unione fra una radice greca (“eris”, conflitto) e il solito stress, che ormai conosciamo perché lo ritroviamo da tutte le parti; insomma, si tratta, per farla breve, di una situazione trascinata di conflitto che alla fine fa star male le persone. No, non pensate al mobbing: qui non c’è bisogno di alcun intento anche vagamente persecutorio, basta che sul posto di lavoro ci sia qualcosa come un’accesa litigiosità, un diverbio continuo, un’incompatibilità di carattere, che a lungo andare (la scienza psico-giuridica in merito ha distillato in tre mesi il periodo minimo di manifestazione) il danno è fatto, il disturbo psicosomatico è belle che servito. Mi ritorna in mente subito un paragone con la signora bruna appena scesa, ma l’articolo è interessante e mi reinoltro nella lettura. Ci sono state delle sentenze recenti, leggo: Cass., n.4664/2024 e n. 5061/2024. Il datore è stato condannato in entrambi i casi, il ragionamento non fa una grinza: l’articolo 2087 c.c. ti impone di valutare i fattori organizzativi ed ambientali tali da far stare al meglio le persone che lavorano nella tua azienda. Se non riesci a gestire il conflitto la gente sta male e tu ne paghi le conseguenze. Quello che però faccio fatica a capire – forse l’impressione del causale incontro è ancora troppo forte – è come fare a gestire la cosa se ti trovi una Paola come quella di prima davanti? Io lo so cosa direte voi: ma ci sono tanti rimedi organizzativi, puoi fare corsi sulla comunicazione e sulle relazioni, esperienze di team building, fare dei focus group, del coaching, puoi anche mettere a disposizione uno psicologo per colloqui individuali. Tutto vero, tutto giusto, forse (anche questo dobbiamo dircelo) alcune cose non sono alla portata di tutti, ma dobbiamo essere orientati al benessere. Sempre e comunque, impavidi come antichi guerrieri pronti ad offrire il petto alle avversità (le simpatiche frecce del nemico). Poi nell’approfondire il tema mi preoccupo ancor di più, perché nelle maglie di questo conflitto possono cadere tutti: non solo lo str. alunato e il suo antagonista (da qualsiasi parte vogliate mettere l’uno o l’altro, che anche certi datori te li raccomando proprio) ma anche coloro che, per quanto terzi, sono esposti a queste schermaglie continue. Perché è l’ambiente di lavoro che diventa stressogeno, e nell’ambiente malsano possono avere disturbi tutti quelli che vi interagiscono. Quindi, lo dico sempre da datore e da consulente, tu hai un dipendente così, mettiamo che sia uno str.acciapazienza irreversibile (non ditemi che non ne avete mai conosciuti) per cui per quanto tu possa investire per calmierare il livello di disagio e ricondurlo a miti consigli (anche per il suo bene), se profondi i tuoi sforzi in serenità e benessere, lui (o lei) rimane tale, anzi peggiora, perché il vero spirito malvagio si nutre della sua cattiveria, ci sguazza dentro (d’altronde, perché poi rovinare solo la propria vita quando puoi guastare anche quella degli altri)? Però il problema non è solo circoscritto fra te e lui (o lei), oppure fra lo str.ainfelice e la sua vittima, perché intanto il malessere serpeggia, le disfunzioni aumentano, qualcuno si dimette per stare finalmente tranquillo, qualcun altro si ammala, quantomeno una gastrite cronica che comunque non fa mai piacere. E per quanto tu cerchi di sistemare le cose, la situazione peggiora. E benchè tu faccia di tutto, beninteso, qualcuno ti dice che la colpa è comunque tua… E allora arrivi ad un punto in cui pensi che sia giunto il momento in cui ognuno vada per la propria strada, ma qui entri nel dedalo dei diritti dei lavoratori (che nemmeno mi sogno di mettere in discussione, sia chiaro, ma quando i diritti vanno in conflitto fra di loro e con la logica, che si fa?) e allora contestazioni, controdeduzioni, sanzioni, tutte azioni che peraltro peggiorano la cosa, in un circolo vizioso, poi arriverà puntuale come il treno su cui sto viaggiando, un bel certificato medico che nel raccontare il travaglio dello str.essator-stressato ti accuserà di ogni infamia. Io me lo vedo, un discorso di questo genere davanti ad un giudice, magari uno di quelli per cui il licenziamento è l’ultima ratio, ma così ultima che se poco poco si trova una scusa, anche banale o formale, oppure con una motivazione pieni di voli arditi e di disquisizioni accademiche, il dipendente te lo ritrovi bel bello da dove avevi cercato di lasciarlo. E d’altronde, la somma di tutto ciò che hai portato a tua difesa, anche frutto di anni di defatiganti osservazioni e contestazioni è che in fondo lo hai licenziato perché era uno str. amaledetto negativo, perché tu e i tuoi altri dipendenti non ce la facevate più. Onestamente, quante speranze hai di vincere? E allora ripenso con una certa invidia al Giorgio (l’ex marito della Paola di prima) anche se non lo conosco, perché ci avrà messo anche dieci anni ma ad un certo punto la porta ha potuto chiuderla, lui. Ma se la Paola è la tua dipendente, è finche morte non vi separi.