Alessandro Perego analizza le caratteristiche degli gli enti religiosi nell’ambito della riforma del Terzo Settore[1]
Il D. Lgs. 3 luglio 2017, n. 112 ha dettato una nuova disciplina inserendo tra i soggetti del Terzo Settore o dell’Impresa sociale anche gli enti religiosi civilmente riconosciuti “limitatamente allo svolgimento delle attività d’impresa di interesse generale”.
Non si tratta di un beneficio, come potrebbe apparire ad una prima lettura, ma di una inevitabile conseguenza che trova origine in uno degli elementi che definiscono l’ente religioso civilmente riconosciuto. Questi soggetti, infatti, non possono svolgere solo attività di interesse generale in quanto devono svolgere principalmente e necessariamente un’attività di religione o culto, dato che questa è la loro precipua finalità; ma tale finalità non è riconducibile a quelle “civiche, solidaristiche e di utilità sociale” che, invece, caratterizzano e definiscono gli enti di Terzo settore[2].
È assiomatico che la qualificazione di ente religioso dipenda dal legame dell’ente con una confessione religiosa e non sia l’esito di una auto qualificazione amministrativa.
Questo legame è infatti riconosciuto ope legis quando l’ente è costituito dalla confessione religiosa ai sensi di quelle norme accolte nei “patti, accordi o intese con lo Stato”.
Per le attività del ramo d’impresa sociale l’ente religioso deve adottare un apposito regolamento la cui forma è quella dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata[3].
Quanto ai contenuti, esso deve certamente comprendere:
Questa seconda condizione potrebbe ricondursi ad una volontà di salvaguardare le risorse necessarie all’attività istituzionale-religiosa.
Necessita in primo luogo di una chiara ed univoca indicazione della consistenza del patrimonio destinato: nel regolamento del ramo d’impresa sociale dell’ente religioso devono essere individuati i beni e i rapporti giuridici compresi nel patrimonio destinato.
Tale onere assolve, infatti, la duplice funzione a) di pubblicità della consistenza del patrimonio destinato per i futuri
creditori dell’impresa sociale e b) di tutela dei creditori dell’ente religioso anteriori alla costituzione del ramo d’impresa, che potrebbero avere l’interesse ad opporsi alla destinazione ad esso di risorse sottratte al soddisfacimento delle loro pretese.
Il secondo elemento della disciplina codicistica dei patrimoni destinati è quello della congruità allo svolgimento dell’attività di interesse generale che ne costituisce l’oggetto[8].
“La distinzione contabile è il presupposto indispensabile ad una gestione informata e trasparente dell’attività d’impresa, alla tutela dalle varie classi di creditori, alla corretta imputazione delle voci al rendiconto dell’ente religioso o al bilancio del suo ramo d’impresa sociale ed all’esatta determinazione delle imposte”.
L’ente religioso deve[10]: tenere il libro giornale e il libro degli inventari ai sensi degli artt. 2216 e 2217 c.c.; depositare presso il registro delle imprese il bilancio d’esercizio redatto, a seconda dei casi, ai sensi degli artt. 2423 e seguenti, 2435-bis o 2435-ter c.c., in quanto compatibili; depositare presso il registro delle imprese e pubblicare nel proprio sito internet il bilancio sociale, redatto secondo le linee guida che verranno adottate con apposito Decreto ministeriale, “tenendo conto, tra gli altri elementi, della natura dell’attività esercitata e delle dimensioni dell’impresa sociale, anche ai fini della valutazione dell’impatto sociale delle attività svolte”.[11]
[1] Sintesi dell’articolo pubblicato in Cooperative e Enti non profit, n. 10/2018, pag 18 dal titolo Il ramo d’impresa sociale degli enti religiosi civilmente riconosciuti
[2] Lorenzo Simonelli, “Gli enti religiosi civilmente riconosciuti nella Riforma del Terzo settore”, in Corriere Tributario n. 31/2018, pag. 2461 e ss.
[3] Derogando al principio generale di cui all’art. 5, co. 1, D. Lgs. n. 112/2017.
[4] Cioè il vicolo della non “distribuzione, anche indiretta di utili ed avanzi di gestione, fondi e riserve comunque denominati, a fondatori, soci o associati, lavoratori e collaboratori, amministratori ed altri componenti degli organi sociali, anche nel caso di recesso o di qualsiasi altra ipotesi di scioglimento individuale del rapporto”.
[5] Art. 7, co. 3.
[6] Che abbiano i requisiti di cui all’artt. 2397, co. 2, e 2399 c.c.
[7] Previste dall’art. 10 del D.lgs. n. 112/2017.
[8] In generale, sul “vincolo di congruità” dei patrimoni destinati ad uno specifico affare v. R. Santagata, Dei patrimoni destinati ad uno specifico affare. Artt. 2447-bis-2447-dieces, Giuffre’, 2014, pagg.111-118; P. Manes, F. Pasquariello, Dei patrimoni destinati ad uno specifico affare, Zanichelli, 2013, pagg. 86-91.
[9] Un requisito questo che è ormai sperimentato in quanto è stato previsto già in sede di disciplina del Ramo Onlus e, per gli enti non commerciali, anche dall’art. 144 del T.U.I.R.
[10] Art. 9, D. Lgs. n. 112/2017.
[11] La valutazione dell’impatto sociale è definita dall’art.7, co. 3, della L. n. 106/2016, come valutazione qualitativa e quantitativa, sul breve, medio e lungo periodo, degli effetti delle attività svolte sulla comunità di riferimento, rispetto all’obiettivo individuato.