GESTIONE COMMERCIANTI INPS: NO ALLE SCORCIATOIE PROBATORIE
Mauro Parisi, Avvocato in Belluno e in Milano, Componente dell’Ufficio Legale ANCL.
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Perché scatti l’obbligo della contribuzione alla Gestione commercianti Inps occorre che sia provata, tra l’altro, un’attività di lavoro abituale. Tra le più diffuse tecniche di riscontro del requisito, l’Istituto si rifà a registrazioni camerali e dichiarazioni dei redditi. Ma la giurisprudenza conferma, anche nel 2025, che non basta.
Attualmente, e in modo preoccupante per frequenza, si torna a parlare di recuperi contributivi dell’Inps a favore della sua Gestione commercianti. I motivi di inquietudine, beninteso, non stanno tanto nel fatto che ci sia chi, rientrando tra le categorie dei soggetti di cui all’art. 1, co. 203, della Legge n. 662/1996, debba giustamente versare i contributi all’Istituto. Ma piuttosto nei modi – per così dire “automatici”- in cui, sempre più spesso, i presunti debitori vengono indiscriminatamente individuati dall’Istituto. Per comprendere i termini della (notevole e diffusa) questione, va ricordato che tra quanti sono iscrivibili alla Gestione previdenziale istituita per chi opera nel commercio, vi sono, non solo coloro che gestiscono, appunto, un’attività commerciale, ma pure quanti vi collaborano. Gli uni e gli altri, però -ed è questo il punto di nodale contrasto tra presunti contribuenti e Inps-, occorre che svolgano un’effettiva e abituale attività di lavoro nell’impresa commerciale. La necessità del presupposto circostanziato di tale partecipazione, oltre che espressa dalla legge (che infatti richiede che si partecipi “personalmente al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza”), viene riconosciuta pacificamente dalla giurisprudenza (cfr. Cassazione, Ordinanza n. 20533/2022). Art. 1, co. 203, Legge n. 662/1996 L’obbligo di iscrizione nella gestione assicurativa degli esercenti attività commerciali di cui alla legge 613/1966, e successive modificazioni ed integrazioni, sussiste per i soggetti che siano in possesso dei seguenti requisiti: a) siano titolari o gestori in proprio di imprese che, siano organizzate e/o dirette prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti la famiglia; b) abbiano la piena responsabilità dell’impresa ed assumano tutti gli oneri ed i rischi relativi alla sua gestione. Tale requisito non è richiesto per i familiari coadiutori preposti al punto di vendita, nonché per i soci di società a responsabilità limitata; c) partecipino personalmente al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza; d) siano in possesso, ove previsto da leggi o regolamenti, di licenze o autorizzazioni e/o siano iscritti in albi, registri o ruoli. Per cui, da molti anni, non viene posto in dubbio -dalla Suprema Corte come dai giudici di merito-, che sia l’Inps a essere tenuto a dimostrare che sussista positivamente, non solo, un’attività di lavoro attribuibile al titolare, al socio o al collaboratore nell’impresa commerciale, ma pure che essa sia abituale, nella sufficiente accezione di non occasionale. Va appena osservato, del resto, come non occorra neppure che si tratti di un’attività di lavoro con “grande estensione” di tempi e orari (per esempio, basterebbe un impegno di un paio di ore al mese), purché essa sia posta in essere con la dovuta costanza.
STRATEGIE PROBATORIE INPS
Per l’Inps, una prova certo non facile. Così, malgrado i tribunali, di principio, non ammettano generiche ed astratte deduzioni sull’attività di lavoro (richiedendo una prova concreta e tangibile della prestazione di lavoro svolta e dei suoi caratteri di abitualità e prevalenza), nel tempo l’Inps ha maturato un frequente ricorso strategico a una tecnica probatoria semplificata e presuntiva. Essa si basa, solitamente, sull’utilizzo a carico del contribuente presunto di visure camerali e di dichiarazioni dei redditi. Come noto, dai dati reperibili presso le Camere di Commercio, risulta pubblicamente riconosciuta l’eventuale presenza di soci nell’impresa. Il fatto che un soggetto faccia parte della compagine sociale di una società commerciale, però, non significa che vi lavori. Neppure se ne fosse anche l’amministratore, essendo altro l’attività di amministrazione di una società rispetto a quella propriamente e attivamente commerciale. Tali piani e neutri riscontri documentali, tuttavia, vengono spesso “incrociati” con le dichiarazioni dei redditi dei soci e degli altri soggetti considerati dalla legge. Specialmente quando, questi ultimi, spesso per incomprensioni o disattenzioni, appongono una crocetta su caselle, per cui confermano la “prevalenza” dell’attività svolta, intesa come fattore della produzione del reddito. Occorre riporre grande attenzione alle indicazioni apposte -di cui spesso i “commercianti” sono ignari, non compilando essi stessi le proprie dichiarazioni fiscali-, perché è da esse che di frequente trovano innesco le pretese previdenziali. In tali casi, infatti, l’Inps procede nella certezza di avere ottenuto la prova provata del lavoro abituale svolto e, quindi, della ricorrenza dell’obbligo contributivo ai sensi art. 1, co. 203, Legge n. 662/1996.
LA GIURISPRUDENZA
I giudici, tuttavia, come comprovano anche molti casi recenti, al contrario affermano che, non solo le dichiarazioni dei redditi non possiedono alcuna efficacia confessoria quanto all’attività di lavoro svolto; ma altresì che, malgrado tali “spunte” nelle dichiarazioni dei redditi, l’Istituto mantiene un onere probatorio pieno e positivo e deve dimostrare l’effettività del lavoro abituale svolto da titolari, soci e coadiutori. Lo stato della materia è confermato, tra le molte, anche da una recente pronuncia di merito della Corte d’Appello di Brescia, sentenza n. 212/2025 del 17.07.2025. I giudici di secondo grado risolvono con essa un contenzioso trascinatosi nel tempo -come spesso accade, non senza difficoltà e l’esigenza di perseverare nel contenzioso-, relativo a una società di persone per cui si era data un’errata indicazione di “prevalenza” di lavoro di uno dei soci (benché fosse pensionato e non lavoratore attivo da molto) nelle dichiarazioni dei redditi. Nel caso considerato, i giudici di appello, nel negare il diritto contributivo dell’Inps, rammentavano come la dichiarazione dei redditi, che pure affermi l’esistenza di un’attività prevalente nella società, permette al dichiarante di negarne i contenuti, non avendo tale dichiarazione carattere negoziale o dispositivo.
Per cui, senza alcuna inversione, rimane in capo all’Istituto l’onere della prova, dovendo sempre essere provata l’effettiva sussistenza dei presupposti lavorativi per l’iscrizione alla Gestione commercianti.
Corte Appello Brescia, sez. lavoro, sentenza n. 212/2025
La giurisprudenza consolidata di legittimità in tema di iscrizione alla gestione commercianti ha chiarito che la dichiarazione dei redditi contenente l’affermazione di avere svolto attività prevalente nella società, laddove il dichiarante deduca l’esistenza di errori nella compilazione, come avvenuto nel caso di specie, non avendo detta dichiarazione carattere negoziale o dispositivo, non determina alcuna inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, dovendo sempre l’Inps provare la sussistenza dei presupposti per l’iscrizione (tra le varie, Cass. n. 21511/2018 e Cass. n. 165/2020). Ne consegue che le dichiarazioni reddituali del periodo in esame nelle quali è stato indicato che l’appellante ha svolto attività prevalente nell’ambito della società di persone, non comportando alcuna inversione dell’onere della prova, non esonerano l’Inps dal compito di dimostrare l’effettivo svolgimento da parte dell’appellante di attività lavorativa in via abituale e prevalente nell’ambito della predetta società.