In relazione al tema delle pari opportunità(di genere) nel diritto del lavoro e delle tutele apprestate alla donna lavoratrice, è particolarmente interessante seguire l’evoluzione storica e legislativa, in quanto le attuali Direttive europee hanno attinto e preso spunto soprattutto dall’esperienza italiana. Infatti, dalla Legge n. 242/1902 (recante norme sul lavoro femminile e minorile, con disposizioni specifiche per le donne in gravidanza) alla Legge n. 903/1977 (già rubricata “Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro), passando per la Legge n. 125/1991 (“Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro”), fino ad arrivare ai D.lgs. n. 151/2001 e n. 198/2006 (poi rinominati, rispettivamente, “T.U. sulla maternità e paternità” e “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna”), il Legislatore non ha smesso di individuare le linee guida e suggerire nel tempo gli strumenti ritenuti più idonei alla realizzazione della parità. La ratio è stata, in primo luogo, quella di fornire la protezione adeguata alle donne e ai soggetti “svantaggiati” e, in un secondo momento, favorire l’uguaglianza tra i lavoratori. Dal primo Novecento fino alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso si è cercato di estendere alla donna lavoratrice le stesse tutele già concesse al lavoratore uomo; gli anni Sessanta e Settanta sono stati, invece, segnati dall’affermazione del principio di parità di trattamento retributivo, sancito all’articolo 37 della Costituzione e tuttora oggetto di Direttiva europea; con l’ultima fase, che interessa anche i nostri giorni, il Legislatore cerca di promuovere il lavoro femminile e le azioni positive.
Se la Legge n. 903/1977 ha aperto una breccia in relazione al concetto di discriminazione uomo-donna nel lavoro, la Legge n. 125/1991 è più completa dal punto di vista definitorio, ancorché, all’art. 4, comma 1 si richiami il generico concetto di discriminazione, costituito da “qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole, discriminando anche in via indiretta i lavoratori in ragione del sesso”. Proprio in relazione a quest’ultimo inciso (“via indiretta”) il Legislatore è stato più puntuale, fornendo, per la prima volta, la definizione di un concetto, quello di discriminazione indiretta, ricavato sino ad allora dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Il comma 2 dell’articolo 4, Legge n. 903/1977 prevede che costituisca “discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente alla adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori dell’uno o dell’altro sesso e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa”. Tale definizione fa riferimento a quelle misure che, apparentemente neutre, creano disparità di fatto idonee a pregiudicare le opportunità di lavoro delle donne. Novità determinante della Legge n. 125/1991 è la oggettivizzazione” del concetto di discriminazione, nel senso che non occorre un’indagine soggettiva mirante all’individuazione di uno specifico elemento psicologico connesso al comportamento che pone in essere l’atto discriminatorio, ma rileva l’effetto che lo stesso comportamento produce in concreto.
L’elemento fondamentale, spesso sottinteso, è la contrapposizione tra l’uguaglianza formale e l’uguaglianza sostanziale; su questa contrapposizione si fonda la ricostruzione delle azioni positive come eccezione alla regola generale posta dal primo principio e, dunque, come strumento da usare con cautela, entro limiti ben determinati, non suscettibile di interpretazione analogica.
Quando si parla di “azioni positive”, ci si riferisce a provvedimenti o misure necessariamente diseguali perché ripercorrono in senso contrario le disuguaglianze esistenti nella società; ma, se sono diseguali, la loro previsione non può non porre un problema di compatibilità con il principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Carta Costituzionale. Purtroppo, a mio avviso, la parità sostanziale, sancita dal comma 2 dell’articolo 3 della Costituzione, è ancora da raggiungere, non tanto per le svariate tutele concesse dai numerosi interventi legislativi, ma poiché probabilmente tali interventi non hanno approntato gli strumenti di promozione idonei. Ed infatti, ancora di recente, nell’anno 2022, fa capolino, in Italia, la certificazione di parità, corredata per le aziende virtuose da incentivi economici (coincidenti con uno sgravio contributivo Inps) e normativi, tra cui un meccanismo di premialità soprattutto con riferimento alla partecipazione a bandi e gare d’appalto, come riformati del nuovo Codice degli Appalti, in vigore dallo scorso 1° luglio 2023. Non mancano inoltre finanziamenti regionali e comunitari stanziati sia per la fase di analisi (propedeutica al rilascio della certificazione), sia per il vero e proprio iter di certificazione e audit. L’ottima organizzazione di azioni positive, tutele, promozione e sistema di certificazione di parità resta purtroppo in larga parte sulla carta, e nella realtà quotidiana emerge il vero limite: la tutela aiuta la donna e al tempo stesso la confina, delimitando il suo tempo di lavoro, ponendo vincoli alle imprese nella gestione del lavoro femminile (per esempio, lavoro notturno, maternità). La diretta conseguenza è la riduzione delle possibilità d’impiego (o di mantenimento dell’impiego) delle donne.
Il paradosso della protezione e promozione (ti danneggio in quanto ti aiuto) vale per tutti e non solo per le donne, ma per queste ultime si tratta di un quid specifico, in quanto il vincolo alle possibilità d’impiego è un vincolo relativo, rispetto al lavoro maschile. La donna è tutelata nel suo lavoro in ragione della sua presunta missione di sposa e di madre: il conflitto tra tutela/ diritto al lavoro, e tutela/diritto alla famiglia, nel caso delle donne, appare in piena luce. Poiché il ruolo della donna si snoda tra la famiglia, in cui ha “essenziale funzione” ex art. 37 Cost., e il mondo del lavoro, un aiuto cospicuo alla realizzazione della madre-lavoratrice potrebbe giungere da una nuova organizzazione del lavoro (piani orari), insieme con nuove strutture, sia interne sia esterne alle aziende (come ad esempio asili nido), ricalcando l’esperienza di altri Stati.
La strategia dell’UE per la parità di genere si prefigge: a) l’emancipazione femminile nel mondo; b) l’eliminazione di violenza e stereotipi; c) la parità di genere, anche nell’economia; d) la promozione della prospettiva a tutto tondo, intersezionale; e) l’accesso a ruoli apicali e dirigenziali. Per far cio’ , la Commissione europea intende operare tramite finanziamenti specifici, lotta alla violenza, eliminazione di modelli standardizzati di donna che generano anche divario di responsabilità nell’assistenza familiare, e creazione di una task force per la parità, con interventi tesi alla acquisizione da parte delle donne di competenze imprenditoriali e di processi di digitalizzazione (Agenda UE 2020-2025).
La parità uomo-donna, monitorata da aziende, enti, Ispettorato, Organizzazioni sindacali e Consigliere di Parità per il tramite del rapporto biennale sulla situazione del personale di cui all’articolo 46, D.lgs. n. 198/2006, e “stimolata” dai benefici previsti dalla PDR (certificazione di parità)è il primo tassello del disegno di Diversità ed inclusione: queste sono le sfide ancora aperte, e legate alla realizzazione della missione n. 5 del PNRR.
Un ulteriore passo è rappresentato dalla Direttiva UE 2023/970 dello scorso 10 maggio 2023, in vigore dal 6 giugno 2023, e mirante a rafforzare l’effettiva applicazione nel rapporto di lavoro – privato e pubblico – del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore.
Anche se dovrà essere recepita entro il 2026, la parità salariale è un elemento importante negli indicatori dell’area 5 della PDR, denominata “Equità remunerativa per genere”, che interessano: a) la percentuale di differenza retributiva per medesimo inquadramento per genere a parità di competenze; b) la percentuale di promozioni di donne su base annua; c) la percentuale di donne con remunerazione variabile.
Tuttavia, si ricorda che il tema della parità salariale, oltre ad essere principio Costituzionale, era oggetto di attenzione già nel 1977… Il limite riscontrato è quello di pensare che l’inferiorità della donna nel lavoro possa essere risolta con misure sul solo lavoro, senza affondare le mani nelle vere radici del problema, che è di natura culturale, sociale, familiare, scolastica e, anche, normativa. Di fatto, la donna non trova la sua inferiorità nel lavoro; la donna porta nel lavoro la sua inferiorità in tutti gli altri campi della vita.
È necessario quindi un cambiamento non solo delle norme, del welfare, della disciplina del lavoro, ma anche del background culturale, che insegni agli uomini la corretta percezione del mondo femminile; ulteriore scoglio è rappresentato dall’autolimitazione delle donne stesse, in nome di una aspettativa generalizzata e patriarcale, bloccate da stereotipi di genere e sul piano lavorativo anche da soffitti di cristallo.