Dopo il contrordine Inps1 ricevuto con il messaggio 27 settembre 2022, n. 3516, con la pubblicazione in G.U. del Decreto Lavoro arriva l’attesa modifica delle sanzioni amministrative relative alla fattispecie depenalizzata dell’omesso versamento delle ritenute previdenziali. Salvacondotto sui procedimenti Inps pendenti.
Dal 5 maggio 2023, data di entrata in vigore del Decreto Lavoro, sono state rideterminate le sanzioni amministrative punitive previste per le fattispecie di omesso versamento delle ritenute previdenziali, adottando un sistema maggiormente proporzionale e graduale, parametrato sulla base dell’effettiva gravità della violazione contestata. Di converso, il secondo comma, art. 23, Decreto legge 4 maggio 2023, n. 48, estende il periodo di contestazione dell’illecito, in deroga all’art. 14, Legge 24 novembre 1981, n. 689, posticipandolo alla data del 31 dicembre del secondo anno successivo a quello dell’annualità oggetto di violazione.
La disciplina di riferimento della fattispecie è, ancora oggi, contenuta nell’art. 2, Decreto legge 12 settembre 1983, n. 463, convertito con modificazioni dalla Legge 11 novembre 1983, n. 638 e, in origine, prevedeva, con appositi termini per la riammissione in bonis, la configurazione del delitto di omesso versamento delle ritenute previdenziali in capo al datore di lavoro che non procedeva, nei termini previsti dalla legge, alla liquidazione nei confronti dell’Istituto previdenziale delle quote contributive effettivamente trattenute ai lavoratori dipendenti.
Come noto, il meccanismo della contribuzione previdenziale assegna al datore di lavoro un obbligo contributivo diretto sulla quota di sua spettanza ed un obbligo contributivo indiretto sulla minor quota di spettanza del lavoratore, in relazione alla quale egli agisce come responsabile del versamento all’ente preposto.
In tal senso, la fattispecie dell’omesso versamento delle ritenute previdenziali, così come da consolidato orientamento giurisprudenziale, è individuabile in due distinte fasi:
– nella condotta commissiva del datore di lavoro, consistente nell’appropriazione delle ritenute previdenziali operate;
– nella condotta omissiva del datore di lavoro, consistente nel mancato versamento delle somme trattenute all’Istituto previdenziale.
Da sempre, il rilievo penale della questione intende colpire non già il fatto omissivo del mancato versamento delle ritenute previdenziali (fattispecie non rientrante nelle ipotesi di reato) quanto, piuttosto, quello commissivo dell’appropriazione indebita da parte del datore di lavoro commessa in relazione alle ritenute operate sulle retribuzioni spettanti al lavoratore.
Si noti, infatti, che tra le caratteristiche principali dell’illecito, sia esso penalmente rilevante o depenalizzato, vi è il presupposto che le retribuzioni siano state effettivamente corrisposte e che, conseguentemente, le trattenute previdenziali siano state effettivamente operate.
Si rammenta, che ai sensi dell’art. 39, Legge n. 187/2010, la fattispecie dell’omesso versamento delle ritenute previdenziali non è relativa solo con riferimento ai rapporti di lavoro dipendente in genere ma anche rispetto ai committenti di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa tenuti alla corresponsione dei contributi presso la Gestione Separata di cui all’art. 2, comma 26, Legge n. 335/19952.
Avendo ripercorso brevemente la natura dell’illecito in argomento, il Decreto Lavoro ha agito in maniera sostanziale sulla depenalizzazione operata dall’art. 3, comma 6, Decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8, a mente del quale era stato previsto un duplice regime sanzionatorio:
– uno di tipo amministrativo, laddove l’importo annuo delle ritenute previdenziali non versate sia inferiore o uguale a euro 10.000, determinato nella sanzione pecuniaria amministrativa da 10.000 a 50.000 euro;
– uno di tipo penale, nel caso in cui l’importo annuo delle ritenute previdenziali non versate sia superiore a euro 10.000, punito con la reclusione fino a tre anni e la multa fino a 1.032 euro.
Invero, l’art. 23, comma 1, Decreto legge 4 maggio 2023, n. 48, ha fissato l’importo della sanzione amministrativa pecuniaria (fattispecie sotto-soglia) nella forbice tra una volta e mezza e quattro volte l’importo omesso.
IL NECESSARIO INTERVENTO DEL LEGISLATORE
Un intervento normativo sul tema era fortemente atteso dai datori di lavoro incappati sulla questione dell’illecito in trattazione, ma stando alla lettura della relazione tecnica al disegno di legge, non siamo innanzi ad un atto di benevolenza del legislatore quanto piuttosto ad una mera valutazione di opportunità di finanza pubblica.
I profili rilevabili sono almeno tre: il primo, certamente, di tipo sociale; il secondo economico-finanziario; il terzo costituzionale. Tutti, in qualche modo, connessi e collegabili tra loro. Sulla portata sociale dell’intervento, la Direzione Centrale Entrate dell’Inps ha reso noto che, fino a tutto il 2019, sono state notificate più di un milione di omissioni non superiori alla soglia di 10.000 euro, non sanate nei tre mesi successivi e delle quali l’importo medio omesso ammonta a circa 465 euro. Una sanzione amministrativa minima che è pari a oltre 36 volte l’importo medio omesso applicando i criteri di cui all’art. 16, Legge n. 689/1981, ovvero ad oltre 10 volte l’importo medio omesso applicando i criteri previsti dall’art. 9, comma 5, D.lgs. n. 8/2016 (messaggio Inps 27 settembre 2022, n. 3516).
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L’abnormità della sanzione amministrativa per le ipotesi sotto-soglia appare chiara ed incontrovertibile tant’è che, nell’anzidetta relazione illustrativa, si ritiene che la disposizione non produca effetti negativi per la finanza pubblica in termini di minore entrate e che il regime sanzionatorio particolarmente severo
vigente sino al 4 maggio 2023 rende poco probabile l’incasso di importi consistenti (…) sicché con sanzioni più moderate si renderebbe più esigibile il credito con effetti finanziari migliorativi.
Si ricade, conseguentemente, sul secondo profilo, quello prettamente economico – finanziario. Seppur il concetto di sanzione amministrativa pecuniaria efficiente ed afflittiva deve rispondere adeguatamente alla natura, alla gravità ed alle conseguenze della violazione, ma anche agli effetti che la stessa ottiene sul comportamento dei consociati, il ragionamento posto in essere dal legislatore pare rispolverare gli assunti di Laffer 3 in materia di pressione e gettito fiscale. Quanto al terzo ed ultimo profilo, quello costituzionale, dapprima il Tribunale di Verbania (ordinanza 13 ottobre 2022) e, successivamente, il Tribunale di Brescia (ordinanza 16 febbraio 2023) hanno sollevato la questione di legittimità della norma in commento per contrarietà all’art. 3 della Costituzione, in quanto hanno ritenuto che la fissazione di un minimo pari ad euro 10.000 e di un massimo pari ad euro 50.000 sottopone ad una irragionevole disparità di trattamento i trasgressori della norma per le omissioni contributive sotto la soglia di rilevanza penale. Infatti, laddove astrattamente il trasgressore violi il precetto normativo nel suo valore massimo sotto-soglia (10.000 euro) potrà accusare una sanzione amministrativa pari ad un quintuplo della violazione stessa. Diversamente, il trasgressore che violi il precetto normativo per un importo minimo (es. 100 euro) vedrà applicarsi una sanzione che rappresenta il centuplo della propria
violazione. I predetti giudici a quo hanno, dunque, messo in risalto un’evidente asimmetria di trattamento tra contribuenti che, violando con diversa gravità il medesimo precetto normativo, non sono assoggettati ad una reale e diversa gradualità della sanzione. Questione, questa, dichiarata dalla Corte Costituzionale non manifestamente infondata. Tra i principi del nostro ordinamento, la tutela della proporzionalità della pena è assicurata ogniqualvolta si faccia richiamo all’art. 3 e/o 27 della Carta Costituzionale ovvero all’art. 49, par. 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea,
potendo i giudici di legittimità dichiarare la semplice illegittimità dell’intera norma ovvero operando una riproporzione chirurgica della sola parte illecitamente sproporzionata. Sul punto appare rilevante evidenziare che i giudici della Corte Costituzionale hanno recentemente avuto modo di affermare che sono illegittime le:
PRIME INDICAZIONI (NON PUBBLICATE) INPS
Con il messaggio 23 maggio 2023, n. 1901, non pubblicato sul sito istituzionale, l’Inps ha fornito le prime istruzioni alle proprie sedi territoriali per la gestione delle ordinanze ingiunzione oggetto di contenzioso giudiziario ovvero di rateizzazione di cui all’art. 26, Legge 24 novembre 1981, n. 689.
In particolare, la Direzione Inps ha predisposto, tra gli allegati al messaggio, modelli di comunicazione
inerenti le:
Nessuna ulteriore indicazione amministrativa riguardo la possibilità di effettuare il pagamento in misura ridotta ai sensi dell’art. 9, comma 5, D.lgs. n. 8/2016 (metà della sanzione da irrogare entro il termine di 60 giorni dalla notifica), sebbene tale norma sia ancora in vigore e sia, come da indicazioni fornite con il citato messaggio n. 3516/2022, applicabile.
NUOVI TERMINI DI CONTESTAZIONE DELL’ILLECITO
Se da un lato il quadro sanzionatorio è decisamente più mite del precedente, il secondo comma del sopracitato art. 23 prevede che, per le violazioni riferite alle omissioni per i periodi decorrenti dal 1° gennaio 2023, gli illeciti dovranno essere notificati, in deroga all’art. 14, Legge 24 novembre 1981, n. 689, entro il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello dell’annualità oggetto di violazione,
sicché le omissioni relative all’anno 2023 dovranno necessariamente essere notificate entro il 31 dicembre 2025.
Viene, dunque, meno il termine di 90 giorni dal riscontro o dall’accertamento dell’omissione precedentemente conosciuto (ex art. 14, L. n. 689/1981).
A fronte di una sostanziale revisione migliorativa dell’apparato sanzionatorio vi è, dunque, un altrettanto sostanziale aumento dei termini di accertamento da parte dell’Istituto.