Ennesima stoccata della magistratura alla vigente disciplina sanzionatoria contro i licenziamenti illegittimi: questa volta è la Corte di Cassazione ad infliggerla con la sentenza n. 26246 del 6 luglio scorso (pubblicata il successivo 6 settembre), nella quale viene di fatto affermato che oggi nessun lavoratore – se non i dipendenti pubblici – gode di tutela stabile in caso di licenziamento illegittimo, nemmeno coloro ai quali si applica l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori o la normativa sulle tutele crescenti. Non garantendo la legge la libertà di rivendicare i propri diritti senza il timore di perdere definitivamente il proprio posto di lavoro, la prescrizione dei diritti di credito da lavoro decorre sempre dalla cessazione del rapporto di lavoro.
Il caso su cui la Cassazione si è pronunciata riguarda due lavoratrici che avevano chiesto al giudice di condannare l’ex datore di lavoro al pagamento di differenze retributive per il lavoro notturno prestato e mai retribuito. Per le corti territoriali il diritto di credito rivendicato era parzialmente estinto: le pretese infatti avrebbero dovuto essere azionate già nel corso del rapporto di lavoro e precisamente entro cinque anni dall’insorgenza del credito rivendicato, attesa la stabilità di tutela apprestata dalla legge ai loro rapporti di lavoro in caso di licenziamento illegittimo. Ma la Suprema Corte non è stata dello stesso avviso, escludendo che le lavoratrici fossero libere di rivendicare i loro diritti in costanza di rapporto per il sol fatto che si applicasse ai loro rapporti una tutela sanzionatoria che, in alcune ipotesi di grave illegittimità del licenziamento, prevede la reintegrazione. Nonostante la pronuncia in commento abbia una portata dirompente e comporti una vera e propria rottura rispetto al passato, la Corte di Cassazione tiene a sottolineare come in realtà la conclusione alla quale è pervenuta con la sentenza in commento si collochi esattamente nel solco dell’orientamento precedente, non costituendo affatto un ripensamento del noto principio del doppio regime di (decorrenza della) prescrizione, a seconda della stabilità o meno del rapporto di lavoro. Infatti, il principio di non decorrenza della prescrizione dei crediti di lavoro durante il rapporto di lavoro può essere previsto solo per quei rapporti non assistiti dalla garanzia della stabilità, “dovendosi invece ritenere stabile ogni rapporto che, indipendentemente dal carattere pubblico o privato del datore di lavoro, sia regolato da una disciplina la quale, sul piano sostanziale, subordini la legittimità e l’efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obbiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo”. Tale stabilità, secondo i giudici della Suprema Corte, era ravvisabile nella disciplina prevista dall’art. 18 dello Statuto prima della novella apportata dal Legislatore del 2012, oppure si realizza ogni qual volta siano applicabili le norme del pubblico impiego o leggi speciali o specifiche pattuizioni che diano al prestatore una tutela che preveda quale sanzione automatica, in ogni caso di recesso, il ripristino del rapporto di lavoro (ossia la reintegrazione).
Non vi è dubbio invece che le modifiche apportate dalla Legge Fornero (n. 92 del 2012) e poi dal D.lgs. n. 23 del 2015 all’art. 18 della Legge n. 300 del 1970 abbiano comportato il passaggio da un’automatica applicazione, per ogni ipotesi di illegittimità del licenziamento, della tutela reintegratoria e risarcitoria in misura predeterminabile (pari al periodo di maturazione dalla data di licenziamento a quella di effettiva reintegrazione dell’ultima retribuzione globale di fatto) “ad un’applicazione selettiva delle tutele, in esito alla scansione delle due diverse fasi di qualificazione della fattispecie (di accertamento di legittimità o illegittimità del licenziamento intimato e della sua natura) e di scelta della sanzione applicabile (reintegratoria e risarcitoria ovvero soltanto risarcitoria), con una sua diversa commisurazione (se in misura cd. “piena” o “ forte”, ovvero “attenuata” o “debole”)”.
Il lavoratore oggi non sa – in costanza di rapporto – a quale tutela avrà diritto nel caso in cui venga licenziato illegittimamente. Il tipo di sanzione (se solo risarcitoria o anche reintegratoria) è stabilito dal giudice ex post, ossia a licenziamento irrogato, sulla base di molteplici valutazioni imposte per legge e dettate da una stratificazione di ipotesi di illegittimità del recesso alle quali si ricollega un altrettanto ampio ventaglio di sanzioni, tra le quali la predominante è sicuramente quella risarcitoria, non già quella reintegratoria. Pertanto, secondo i giudici di legittimità, nessuna tutela oggi in vigore è in grado di eliminare nel lavoratore il timore di perdere il proprio posto di lavoro nel caso di esercizio dei suoi diritti di credito in costanza di rapporto. È sulla base delle motivazioni sopra sintetizzate che la Suprema Corte ha affermato il seguente principio di diritto: “Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della legge n. 92 del 2012 e del decreto legislativo n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità. Sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della legge n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro”.