Negli ultimi anni la Corte Costituzionale è stata più volte interpellata in merito alla legittimità costituzionale di previsioni contenute nel D.lgs. n. 23/2015, arrivando in alcuni casi a dare interpretazioni che, di fatto, hanno smantellato alcuni dei principi che avevano ispirato il legislatore nell’introduzione del contratto di lavoro subordinato a tutele crescenti. Si pensi ad esempio all’importante sentenza n. 194 dell’8 novembre 2018, con la quale la Corte Costituzionale aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo il meccanismo di rigida predeterminazione dell’indennizzo spettante al lavoratore, previsto dall’art. 3, co. 1 del D.lgs. n. 23/2015.
Ci troviamo ora di fronte ad un nuovo capitolo di quello che, a tutti gli effetti, sembra essere un rapporto particolarmente conflittuale. Con l’ordinanza interlocutoria n. 9530 del 7 aprile 2023, infatti, la Corte di Cassazione ha nuovamente chiesto alla Corte Costituzionale di pronunciarsi in merito ad un passaggio del D.lgs. n. 23/2015, nello specifico ponendola di fronte al dubbio se sia costituzionalmente legittima la delimitazione, contenuta nell’art. 2, co. 1, della tutela reintegratoria ai soli casi di nullità previsti espressamente dalla legge.
Ma facciamo un passo indietro e andiamo ad esaminare brevemente come il Jobs Act del 2015 ha rimodulato, rispetto alla previsione contenuta nell’art. 18, co. 1-3 Statuto Lavoratori, le tutele contro i licenziamenti nulli, dedicando l’intero articolo 2 alla disciplina dei licenziamenti discriminatori, nulli ed intimati in forma orale.
L’art. 2 in argomento, infatti, ha sostanzialmente replicato il contenuto co. 1-3 dell’art. 18, L. n. 300/1970 (così come riformulato dalla Legge Fornero del 2012), pur con alcune differenze testuali, la prima delle quali riguarda il sistema dei rinvii normativi utili a definire i contorni della nozione di licenziamento discriminatorio. Tale differenza, tuttavia, non ha destato particolari problematiche interpretative, non alterando infatti la portata del concetto di discriminatorietà del recesso operato dal datore di lavoro.
Decisamente più discussa, in dottrina e giurisprudenza, è stata invece la differenza testuale tra le due norme in esame nella definizione delle ulteriori ipotesi alle quali si applica la tutela reintegratoria forte. Mentre infatti l’art. 18, co. 1 elenca in modo preciso alcune di tali ipotesi di nullità del licenziamento (quali il recesso disposto in concomitanza col matrimonio, ovvero in violazione dei divieti disposti dalla normativa a tutela della maternità e paternità, ovvero perché sorretto da motivo illecito determinante), per poi concludere con il richiamo ad altri casi di nullità “previsti dalla legge”, l’art. 2 del D.lgs. n. 23/2015 non contiene alcun elenco esemplificativo, ma si limita a fare riferimento agli altri casi di nullità “espressamente previsti dalla legge”.
A questo proposito, va innanzitutto evidenziato come le ipotesi di recesso nullo specificamente citate dal co. 1 dell’art. 18 Stat. Lav. sono comunque da intendersi pacificamente incluse nella formulazione di cui all’art. 2, D.lgs. n. 23/2015, in quanto esse sono ascrivibili alla categoria della c.d. nullità testuale, alla quale l’art. 2 fa appunto riferimento con l’avverbio espressamente. La nullità del licenziamento «in concomitanza col matrimonio» è infatti espressamente prevista dall’art. 35 del D.Lgs. n. 198/2006; la nullità del licenziamento intimato alla lavoratrice nel periodo di protezione e di quello causato dalla domanda o dalla fruizione di congedi legati alla genitorialità è espressamente prevista dall’art. 54 del D.lgs. n. 151/2001; per quanto riguarda il licenziamento per motivo illecito, la sanzione della nullità è espressamente contenuta nel c.c. 2 dell’art. 1418 cod. civ., secondo cui il contratto è nullo per illiceità dei motivi ex art. 1345 cod. civ.
Ma quindi, cosa comporta l’inserimento dell’avverbio “espressamente” nell’art. 2, co. 1, D.lgs. n. 23/2015 rispetto alla previsione di cui all’art. 18 St. Lav., che tale avverbio non contiene?
La risposta a questo quesito, elaborata dalla dottrina, sta nella differenza tra la sopra citata nullità testuale, che si fonda sul co. 3 dell’art. 1418 c.c. (secondo cui il contratto è nullo nei casi stabiliti dalla legge), e la c.d. nullità virtuale, che trova il suo fondamento nel co. 1 dell’art. 1418 c.c., secondo cui il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, ciò a prescindere che tali norme non contengano un’esplicita sanzione di nullità.
Proprio in applicazione della tesi della nullità virtuale, la giurisprudenza di legittimità e merito, successiva alla riforma dell’art. 18 Statuto Lavoratori operata dalla L. n. 92/2012, ha individuato varie ipotesi di nullità non testuale del licenziamento, quali, ad esempio: il licenziamento intimato in violazione del divieto di cui all’art. 5 del D.lgs. 25 febbraio 2000, n. 61, secondo cui non costituisce giustificato motivo di recesso il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto da tempo pieno a tempo parziale (cfr. Trib. Bologna ord. del 19 novembre 2012); il licenziamento intimato per malattia prima dell’effettivo superamento del periodo di comporto, sulla base del carattere imperativo dell’art. 2110 c.c. (cfr. Cass. n. 2425 del 18.11.2014); il licenziamento intimato in violazione della sospensione dei licenziamenti economici durante il periodo emergenziale disposta dall’art. 46, D.l. n. 18 del 17.03.2020 (cfr. Trib. Mantova sent. n. 112/2020).
Ebbene, l’inserimento nell’art. 2, co. 1, D.lgs. n. 23/2015 dell’avverbio espressamente ha fatto propendere la dottrina e la giurisprudenza per la tesi secondo cui la formulazione di tale norma escluderebbe l’applicabilità della nullità virtuale alle fattispecie soggette alle tutele crescenti, con la conseguenza che sarebbero esclusi dalla tutela reintegratoria forte quei licenziamenti disposti in violazione di una norma imperativa, qualora tale norma, pur non prevedendo una sanzione diversa, non preveda espressamente la sanzione della nullità.
Un esempio esemplificativo di questa differenza di disciplina è proprio il caso oggetto dell’ordinanza interlocutoria n. 9530/2023 commentata nel presente articolo. Trattasi nello specifico del licenziamento disciplinare disposto in violazione della procedura prevista dalla normativa speciale per gli autoferrotranvieri di cui al Regio Decreto n. 148/1931, normativa ritenuta pacificamente di carattere imperativo che, tuttavia, non contiene espressamente la previsione di nullità degli atti espulsivi disposti in sua violazione.
La giurisprudenza che si è occupata di tale tipologia di licenziamento nell’ambito di rapporti di lavoro soggetti all’art. 18 Statuto Lavoratori ha infatti attuato il principio della nullità virtuale, ritenendo quindi applicabile a tali fattispecie la tutela reintegratoria forte (cfr. Cass. n. 32681 del 9.11.2021).
Lo stesso identico licenziamento, comminato però ad un lavoratore assunto in regime di tutele crescenti, ha portato la Corte di Appello di Firenze (con la sentenza n. 134/2021) ad escludere la tutela reintegratoria e a riconoscere al lavoratore licenziato la sola tutela economica prevista dall’art. 3, D.lgs. n. 23/2015, in quanto in tal caso la nullità non era espressamente prevista dalla norma violata.
La sentenza della Corte d’Appello di Firenze è stata quindi impugnata in Cassazione dallo stesso lavoratore, il quale, in riferimento all’art. 76 Cost., ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, co. 1, D.lgs. n. 23/2015 nella parte che prevede l’applicabilità della tutela reintegratoria ai soli casi di nullità espressamente previsti dalla legge, per contrasto di tale norma con quanto previsto dalla legge delega n. 183/2014 e, in ogni caso, per l’illogicità e l’incoerenza dell’esclusione della tutela reintegratoria anche a tutti i casi di nullità derivante dall’applicazione dell’art. 1418, co. 1, cod. civ.
Ebbene, la Corte di Cassazione, con l’ordinanza interlocutoria n. 953/2022 in commento, ha ritenuto fondata la suddetta questione di legittimità costituzionale, trasmettendo di conseguenza gli atti alla Corte Costituzionale, con le seguenti argomentazioni:
1) considerato che la legge delega n. 183/2014 stabiliva che il legislatore delegato dovesse prevedere la limitazione della reintegrazione, per le nuove assunzioni rientranti nell’ambito delle tutele crescenti, “ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato”, potrebbe risultare non legittima, in quanto appunto in contrasto con la legge delega, la scelta dell’esecutivo di non estendere la tutela reintegratoria a tutti i casi di nullità del licenziamento, ma di limitarla ulteriormente a quelli “espressamente previsti dalla legge”;
2) la restrizione della tutela reintegratoria ai soli casi di nullità espressa, escludendo l’operatività del principio generale fissato dall’art. 1418, co. 1, c.c. che ricollega la conseguenza della nullità alla violazione di norme imperative, sarebbe da considerarsi in contrasto con i valori di logicità e coerenza del nostro sistema giuridico.
A questo punto non resta che attendere la decisione della Corte Costituzionale per vedere se la disciplina delle tutele crescenti prevista dal D.lgs. n. 23/2015 sia destinata a subire un nuovo e rilevante ridimensionamento.