CON L’INPS SOLO ATTI FORMALI *

Mauro Parisi, Avvocato in Belluno e Milano

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La sentenza n. 17703/2025 della Cassazione, nel risolvere una vicenda relativa all’opzione del lavoratore per il regime pensionistico contributivo, afferma l’opportunità che si deroghi, a favore dell’Istituto, al principio generale di libertà delle forme degli atti. Un precedente a cui prestare attenzione anche in altri casi e situazioni.

Contrariamente a quanto accaduto in precedenza, dal 2021 l’Inps ha preteso, con effetto retroattivo (cfr. Messaggio Inps Hermes del 31.12.2020, n. 005062, “Controlli sulla corretta esposizione in UNIEMENS dell’imponibile eccedente il massimale”) che la scelta del lavoratore per il regime pensionistico contributivo, in luogo di quello retributivo, potesse essere dimostrata solo a mezzo di una comunicazione formale scritta del medesimo lavoratore. In difetto, l’Istituto ha ritenuto di dovere recuperare in danno del datore di lavoro la maggiore contribuzione omessa negli anni a causa dei massimali applicati. Sull’onere di una comunicazione scritta ai fini dell’opzione prevista dall’art. 1, co. 23, Legge n. 335/1995, tuttavia, la medesima norma non stabilisce espressamente alcunché:

“Per i lavoratori [già iscritti alle forme di previdenza alla data del 31 dicembre 1995] la pensione è conseguibile a condizione della sussistenza dei requisiti di anzianità contributiva e anagrafica previsti dalla normativa previgente, che a tal fine resta confermata in via transitoria come integrata dalla presente legge. Ai medesimi lavoratori è data facoltà di optare per la liquidazione del trattamento pensionistico esclusivamente con le regole del sistema contributivo, ivi comprese quelle relative ai requisiti di accesso alla prestazione di cui al comma 19, a condizione che abbiano maturato un’anzianità contributiva pari o superiore a quindici anni di cui almeno cinque nel sistema medesimo”.

La circostanza dell’inesistenza di uno specifico requisito formale è tanto evidente, nella sua sinteticità descrittiva (“Ai medesimi lavoratori è data facoltà di optare”), da non potere che venire altresì confermata anche dalla stessa Corte di Cassazione, nella sentenza del 30.06.2025, n. 17703:

“vero che le norme richiamate, nel disciplinare l’istituto, fanno riferimento unicamente ad un’opzione da parte del lavoratore, senza ulteriori indicazioni circa le modalità attraverso le quali la stessa debba essere formulata”

Per di più va rilevato che pure la stessa prassi dell’Istituto, per venticinque anni, non ha mai indicato l’esigenza di oneri particolari, al fine di ammettere gli iscritti pre-1996 ai versamenti della contribuzione nei limiti del massimale (art. 2, co. 18, Legge n. 335/1995). L’affidamento conseguente alla costante condotta tenuta dalla pubblica amministrazione non pareva in discussione. Alla luce di ciò, le predette richieste contributive dell’Istituto (constatata l’esistenza di ogni ulteriore ed espresso requisito di legge) sembravano non avere fondamento alcuno, potendosi ritenere che fossero pacificamente da definire in senso favorevole ai lavoratori e ai loro datori di lavoro. Una soluzione tanto più prospettabile alla luce della considerazione che la facoltà di opzione concessa al lavoratore costituisce l’espressione di un diritto assoluto e non condizionato in alcun modo (cioè, non necessitante di autorizzazione, né di nulla osta di sorta da parte dell’Istituto). Inoltre che nel nostro ordinamento sussiste e opera il pregnante principio di libertà delle forme, dovendo gli atti dei consociati conseguire i loro effetti a prescindere da forme “sacramentali”, ove non espressamente previste per legge. Però l’apparenza talvolta può ingannare. E così, a quanto sembra, è quanto accade nel caso in considerazione. Infatti, sebbene si debba ritenere vero che quello della libertà delle forme costituisce un principio generale del nostro ordinamento, tuttavia va notato come, a parere della Suprema Corte (cfr. sentenza n. 17703/2025), proprio il caso dell’opzione per il regime contributivo viene a costituire un’eccezione al principio generale. Vale a dire che, contrariamente a quanto si sarebbe supposto (e come hanno ritenuto negli anni anche professionisti e aziende), la fattispecie dell’opzione pensionistica in parola risultava necessitare dall’origine di una espressa comunicazione scritta e indirizzata all’Inps. Per la Cassazione, infatti, “Si tratta di oneri proporzionati alla rilevanza dell’atto, funzionali allo stesso e compatibili –quanto alla necessità di forma scritta – con una deroga al generale principio di libertà delle forme degli atti” Quale principale conseguenza dell’imprevista ricostruzione della fattispecie (non solo non immediatamente conoscibile per legge, ma neppure a mente della copiosa prassi formatasi negli anni: tra le molte, si confrontino le circolari n. 7/2010, n. 42/2009, n. 148/2000 e n. 6/2020 e i messaggi Inps n. 177/1996 e n. 219/2013) vi sono state ricadute onerose e punitive per gli ignari datori di lavoro, che si sono visti notificare ponderose richieste di recuperi contributivi, condite di maggiorazioni per gli anni trascorsi. Da una di tali pretese recuperatorie sorgeva la vicenda ora decisa dalla S.C.. Coloro che tra i datori di lavoro avevano agito con diligenza -ossia, nei modi indicati dall’Inps già all’indomani della Legge n. 335/1995 (cfr. messaggi Inps n. 177/1996)-, adeguandosi correttamente alle espresse richieste dell’Istituto, all’atto dell’assunzione avevano richiesto ai neo-dipendenti ogni utile dichiarazione e indicazione sulla loro situazione contributiva, per poi attenervisi, come necessario. Infatti, per i neo-dipendenti che avessero affermato, non solo di essere di anzianità contributiva precedente al 1996, ma pure di possedere gli stabiliti requisiti contributivi e di volere azionare l’opzione di legge, ai sensi dell’art. 2, co. 18, L. n. 335/1995 (per cui viene prevista l’esigenza di una domanda solo per l’eventuale accreditamento di contributi precedenti all’1.01.1996, ma non ai fini dell’opzione in sé: cfr. art. 1, L. n. 208/2015), i datori di lavoro non avrebbero potuto che prendere atto dell’obiettiva irrevocabilità di tale scelta (cfr. circolare Inps n. 108/2002: “La facoltà di opzione, una volta esercitata, è irrevocabile”. Ma pure il messaggio Inps n. 219/2013: “l’opzione è irrevocabile a partire dal momento in cui il lavoratore riceve, successivamente all’opzione, una retribuzione eccedente il massimale il cui imponibile previdenziale viene abbattuto al massimale stesso (v. circolari n. 177 del 1996 e n. 42 del 2009)”). Ciò, evidentemente, senza possibilità di “sindacare” e di “opporsi” in alcun modo, non avendo voce in capitolo al riguardo (né rappresentando essi una non prevista longa manu dell’Inps), con la conseguente e necessaria esigenza di dare applicazione immediata ai limiti dei massimali contributivi. Per l’effetto della predetta presa d’atto dell’esercizio dell’opzione da parte del dipendente, per il datore di lavoro, scattava il dovere indiscutibile di operare tutti i versamenti di contributi all’Inps sulla base delle specifiche e conseguenti denunce Uniemens. Tutto nella più assoluta trasparenza. In questi casi, allo scopo di comunicare all’Inps quanto per legge doveroso e necessario ai fini contributivi (art. 44, co. 9, D.l. n. 269/2003, conv. Legge n. 326/2003), le aziende hanno offerto le specifiche indicazioni nelle denunce mensili Uniemens -come previsto per i lavoratori soggetti a massimale contributivo- in due fondamentali campi delle stesse: quello relativo al c.d. “regime post 95” (ossia all’applicazione del regime contributivo, anche per quei dipendenti altrimenti soggetti al regime c.d. retributivo); nonché quello concernente l’imponibile e la contribuzione superiore al massimale (campi contraddistinti dalla denominazione “ECCMASS”). L’obbligo di indicare il campo “Regime Post 95”, in relazione al regime contributivo applicato, ha luogo, a decorrere dall’1.1.2015 (circolare Inps n. 154/2014), con necessità di dare detta indicazione per quanti si trovino ad applicare il regime contributivo successivo alla Legge n. 335/1995. Per cui, anche nei casi di operata opzione contributiva (grazie a denunce Uniemens, incompatibili con qualsiasi altro regime pensionistico e con i dati contributivi già in possesso dell’Istituto), l’Inps è sempre stato in grado di acquisire la conoscenza mensile dell’assoggettamento della posizione al regime contributivo in luogo di quello retributivo, dell’applicazione del massimale, nonché degli imponibili eccedenti rispetto al massimale contributivo nel mese in cui veniva superato lo stesso e in tutti i successivi, con determinazione dei relativi contributi minori dovuti (ciò secondo la modalità di compilazione introdotta con circolare Inps n. 7/2010). Del resto, che i dipendenti dei datori di lavoro che avevano agito senza elusioni fossero riconoscibili per il regime che solo poteva conseguire dall’opzione, emergeva anche dal Rendiconto annuo ricavabile dal medesimo portale dell’Inps, da cui risultava che il lavoratore era ascritto alla “Tipologia contrattuale 98” (ove i c.d. “TC98” sono quanti, pure avendo superato il massimale, versano comunque solo i contributi minori). Tuttavia, anche nei casi in cui l’Inps non aveva negato che le denunce Uniemens erano state eseguite e trasmesse correttamente -senza contestazione di alcun vizio relativo alle informazioni in esse contenute, in rispondenza puntuale dell’obbligo dell’art. 44, co. 9, D.l. n. 269/2003 (“A partire dalle retribuzioni corrisposte con riferimento al mese di gennaio 2005, i sostituti d’imposta … trasmettono mensilmente in via telematica … all’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS) i dati retributivi e le informazioni necessarie per il calcolo dei contributi, per l’implementazione delle posizioni assicurative individuali e per l’erogazione delle prestazioni”)-, a seguito delle campagne di verifica iniziate dal 2021, si è ritenuto che il difetto dell’esistenza di una comunicazione del lavoratore (“scritta”, si suppone autografa e di provenienza certa, ma non si dice di quale forma e mezzo), doveva travolgere l’opzione diversamente resa nota. Soprattutto se la notizia all’Istituto della scelta fosse solo da ascrivere alle comunicazioni avvenute con Uniemens da parte del datore di lavoro. Una tesi che -ferme le suddette e importanti distinzioni- ha trovato concorde la Corte di Cassazione, la quale, con la cennata sentenza n. 17703/2025, ha individuato il principio formale applicabile al caso di specie.

Cassazione, sentenza del 30.6.2025, n. 17703

La volontà di optare per la liquidazione del trattamento pensionistico esclusivamente con le regole del sistema contributivo, ex art 1, comma 23, della Legge n. 335 del 1995, va espressa con dichiarazione scritta, indirizzata dall’interessato all’Ente previdenziale. La comunicazione mensile Uniemens del datore di lavoro non è idonea a surrogare detta manifestazione di volontà.

A prescindere dalla vicenda e dalle fattispecie specifiche qui considerate, come ora giudicate dalla Suprema Corte, emerge chiaramente un motivo d’allarme (in realtà già segnalato in passato: cfr. “Prassi postume INPS. Il caso dell’opzione contributiva”: Sintesi, febbraio 2024, pag. 6) per tutti i professionisti e le aziende che, in futuro, potrebbero vedere regolate ex post (in senso favorevole all’Istituto e sfavorevole ai datori di lavoro), sulla base delle medesime valutazioni di opportunità e funzionalità indicate dalla sentenza n. 17703/2025, fattispecie pure in origine non disciplinate puntualmente da leggi e prassi. Rischi potenziali che, per la certezza dei rapporti giuridici, meritano attenti confronti istituzionali e azioni di sensibilizzazione all’esigenza di un’effettiva applicazione di garanzia dei principi di riserva di legge e legalità. Soprattutto laddove non risultino lesi interessi sostanziali, né siano emersi danni patrimoniali, né sia stata coartata la volontà di chicchessia (tantomeno del lavoratore) e siano in effetti riconosciuti sussistenti tutti i requisiti fondamentali indicati dal legislatore.

* L’articolo è anche sul sito www.vetl.it.

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