Molto spesso i datori di lavoro sono chiamati ad operare delle trattenute di quote retributive, a seguito di un atto dell’Agenzia delle Entrate, di un ordine del tribunale o di un contratto di cessione stipulato dal lavoratore. Tutte situazioni che sottopongono il datore di lavoro a degli obblighi aggiuntivi, previsti a suo carico dall’istituto della cessione o del pignoramento. Cessione e pignoramento sono istituti diversi. Basti pensare semplicemente al fatto che mentre la cessione nasce da un atto volontario del dipendente, il pignoramento non dipende dalla volontà del lavoratore, che non è promotore diretto dell’atto ma lo subisce. Ma dei tratti comuni esistono: entrambi sono regolamentati dallo stesso testo, il D.P.R. n. 180/1950, prevedono che il datore di lavoro acquisisca a suo malgrado degli obblighi e si riferiscono a quote di stipendio che vengono trattenute al dipendente e versati ad istituti di credito o agenti di riscossione.
Analizziamo questi istituti un po’ più da vicino, così da definirne le caratteristiche. È noto a tutti che la cessione dello stipendio è un contratto con il quale un soggetto, creditore cedente, disponendo di un suo diritto di credito, cede lo stesso ad un altro soggetto, il cessionario. In conseguenza di ciò l’originario debitore è tenuto ad adempiere la propria obbligazione non più al creditore cedente ma direttamente al cessionario. Quello che è bene ricordare è che si tratta di un contratto consensuale tra dipendente e finanziaria, che non necessita del consenso del datore di lavoro per produrre effetto: dal momento della notifica il datore di lavoro diventa debitore ceduto ed è obbligato a dare attuazione alla cessione. Si ricorda che la possibilità di contrarre una cessione di stipendio è concessa sia ai lavoratori a tempo indeterminato che a quelli a tempo determinato. In quest’ultimo caso la durata del contratto di cessione non potrà superare l’arco temporale tra l’attivazione del finanziamento e il termine del contratto in essere. Diversa invece la durata prevista per i lavoratori il cui contratto non è a termine. La norma prevede infatti una durata massima di 10 anni, sempre che al lavoratore non manchino meno di 10 anni per conseguire il diritto alla pensione.
Il lavoratore che intende stipulare un contratto di cessione dello stipendio dovrà presentare all’istituto di credito documentazione che accerti la sua capacità di garantire l’estinzione del debito e tra i documenti richiesti solitamente troviamo il certificato di stipendio. Rilasciato dal datore di lavoro e con validità di 90 giorni, tale certificato attesta le caratteristiche del contratto di lavoro in essere col lavoratore, la retribuzione lorda e netta, l’esistenza o meno di eventuali cessioni e pignoramenti e l’ammontare del trattamento di fine rapporto (Tfr) maturato. È importante ricordare che cedere parte dello stipendio è un diritto del dipendente che non richiede assenso del datore di lavoro e come tale il datore di lavoro è tenuto a rilasciare questo documento. Una valida alternativa al certificato di stipendio è l’attestato di servizio, che attesta l’esistenza del rapporto di lavoro, la qualifica, il tipo di contratto e l’anzianità di servizio. Si tratta in definitiva di una dichiarazione più semplice, che non necessita di calcoli precisi come il certificato di stipendio. Una volta che la finanziaria ha esaminato la pratica e accolto la richiesta di prestito, il datore di lavoro riceve l’atto di benestare, con il quale si comunica la rata mensile da trattenere e la decorrenza. Vista così la situazione potrebbe anche sembrare semplice: in seguito a richiesta del lavoratore si produce della documentazione con la quale la finanziaria accorda il prestito richiesto, comunicando al datore di lavoro la rata mensile da trattenere e versare. Ma nel corso del rapporto di lavoro possono intervenire numerosi cambiamenti a livello retributivo, cambiamenti che facendo mutare le condizioni potrebbero avere un impatto significativo sulla retribuzione del dipendente, così significativo da costringere il datore di lavoro a verificare la possibilità della trattenuta mensile. Nel caso la retribuzione si riduca, la norma prevede che se la riduzione sia inferiore a un terzo il datore può continuare a effettuare la trattenuta ma se la riduzione fosse maggiore a tale limite il datore di lavoro dovrà verificare che la trattenuta mensile non ecceda il quinto dello stipendio netto e, nel caso di eccedenza, dovrà comunicare alla finanziaria la necessità di rideterminare la rata mensile prevista. Particolare attenzione va prestata anche alle situazioni in cui si fa ricorso all’ammortizzatore sociale, che nella maggioranza dei casi riducono significativamente il netto del dipendente, o nel caso di cessazione del rapporto di lavoro. In quest’ultimo caso il datore di lavoro dovrà versare alla finanziaria anche il Tfr maturato, fino a concorrenza dell’importo residuo da rimborsare. E proprio il Tfr è la prima fonte di tutela per la finanziaria. Sembra utile ricordare che il Tfr è vincolato a garanzia del prestito fino alla scadenza del contratto di cessione e nel caso sia destinato ad un fondo di previdenza complementare sarà quest’ultimo a fare da garante. Si precisa a tal proposito che durante il periodo in cui opera la cessione il dipendente può comunque aderire alla previdenza complementare.
Tuttavia, ci sono dei limiti all’integrale cedibilità del trattamento di fine rapporto. Pensiamo, per esempio, ad un lavoratore divorziato, tenuto al mantenimento dell’ex coniuge. In questa situazione l’articolo 12 bis, L. n. 898/1970 prevede che il coniuge, titolare dell’assegno di mantenimento e che non sia passato a nuove nozze, abbia diritto al 40% del Tfr maturato dall’ex coniuge per il periodo in cui il rapporto di lavoro è coinciso col matrimonio. L’azienda che sia a conoscenza di tale situazione al momento della cessazione del rapporto di lavoro non potrà corrispondere l’intero Tfr alla finanziaria.
Altro caso è quello del decesso del lavoratore che ha contratto finanziamento. L’articolo 2122 c.c. prescrive che al coniuge, ai figli e, se conviventi, ai parenti entro il 3° grado e affini entro il 2° debba essere corrisposta l’intera somma costituita dall’indennità sostitutiva di preavviso e del Tfr maturato. Tale somma compete a questi soggetti per diritto proprio e non per diritto ereditario e per tanto il contratto di cessione è inopponibile. Ma come si calcola la quota cedibile? La quota oggetto della cessione deve essere calcolata prendendo a riferimento lo stipendio al netto delle ritenute, previdenziali e fiscali.
Si deve far riferimento alla retribuzione così come definita dall’art. 2094 c.c., intesa come controprestazione di natura economica che il datore di lavoro riconosce al dipendente per aver messo a disposizione le proprie energie. Quindi non devono rientrare nella base di calcolo della quota quegli emolumenti che siano corrisposti dal datore di lavoro ma che non abbiano natura retributiva. Mi riferisco al trattamento integrativo o all’una tantum di 200€ prevista per la retribuzione di luglio. Attenzione: quando si dice al netto delle ritenute si intende non solo ritenute previdenziali e fiscali ma anche a quelle effettuate in ottemperanza del Ccnl (ex trattenuta fondo assistenziale).
I prestiti che possono essere estinti tramite cessione di stipendio possono essere contratti solo nei limiti del quinto dello stipendio netto e tale limite è insuperabile. Se la finanziaria nel contratto determinasse una quota mensile eccedente tale limite, il datore di lavoro non deve trattenere l’importo eccedente il limite del quinto e segnalare la situazione alla finanziaria.
Spesso si sente dire che sulla stessa retribuzione non possono esserci più cessioni contemporaneamente ma in realtà è solo parzialmente vero. Se il limite massimo di retribuzione cedibile è stato raggiunto con la prima cessione una seconda cessione non è possibile e il datore di lavoro deve comunicare alla seconda finanziaria che non è possibile stipulare un’altra cessione e dovrà astenersi dalla seconda trattenuta.
Se il limite massimo di retribuzione non è stato raggiunto è legittima la stipula di un secondo contratto: la somma delle due trattenute non deve però superare il quinto dello stipendio. In questa situazione è opportuno che il datore di lavoro faccia presente, nel caso di seconda cessione, quanto disposto in merito al Tfr nella prima cessione. Il Tfr può essere ceduto integralmente solo alla prima finanziaria, a cui va data la priorità. Può succedere che il soggetto rinegozi la cessione con un nuovo finanziamento, attraverso il quale la cessione del quinto preesistente venga chiusa. Una parte del nuovo prestito dovrà estinguere il prestito in corso mentre la liquidità rimanente resterà al contraente, che la rimborserà in un numero massimo di 12 rate. Si parla in questo caso di RINNOVO regolato dagli art. 39 e 40 del D.P.R. n. 180/1950, che vietano di contrarre una nuova cessione prima che siano trascorsi almeno i 2/5 della durata originaria (prima bisogna pagare almeno il 40% del primo prestito). Fanno eccezione le cessioni stipulate per un periodo pari o inferiore a 5 anni, per le quali il rinnovo può avvenire in qualsiasi momento. Per superare i limiti temporali in tema di rinnovo di una cessione del quinto, le finanziarie propongono ai lavoratori che intendono accendere un nuovo finanziamento l’istituto della DELEGAZIONE DI PAGAMENTO, che trova il suo fondamento nell’art. 1269 c.c..
Tale istituto, però, produce effetti solo se il datore di lavoro lo accetta. L’art. 1269 c.c. non prevede nulla in merito al limite quantitativo, ma poichè il ricorso alla delegazione avviene in tutti i casi in cui il lavoratore ha già in essere un contratto di cessione, il D.P.R. n. 180 prevede dei limiti nel caso di concorso fra cessione e delegazione: non si può superare la metà dello stipendio (art. 70, D.P.R. n. 180/1950).