Con la sentenza n. 22362 del 7 agosto 2024, la Corte di Cassazione ha ritenuto illegittimo (quindi accoglie le sentenze di primo e secondo grado) l’addebito ai lavoratori dei costi di gestione amministrativa funzionali alla cessione del quinto del loro stipendio, in quanto esercizio di un loro diritto potestativo ai sensi di legge. Nello specifico, l’addebito dei costi legati alla maggiore gravosità delle prestazioni comportate dal servizio di contabilizzazione e gestione amministrativa, funzionale alla cessione del quinto, è giustificato solo in presenza di prove (fatti positivi) in cui si evince la maggior gravosità derivante dai costi ingiusti, intollerabili e sproporzionati, meritevoli, quindi, di ristorazione. Prima di procedere con l’analisi della sentenza in oggetto, di seguito si riporta un breve accenno alla disciplina dell’istituto della cessione del quinto.
L’ISTITUTO DELLA CESSIONE DEL QUINTO
La cessione del credito si identifica in un contratto mediante il quale un soggetto, denominato “creditore cedente”, disponendo di un suo diritto di credito, cede lo stesso ad altro soggetto terzo, chiamato “cessionario”: attraverso la cessione del credito, l’originario debitore è tenuto ad adempiere la propria obbligazione contrattuale non più al creditore cedente ma direttamente al cessionario. La cessione del credito, ai sensi di quanto dispone l’art. 1260 c.c., si perfeziona “anche senza il consenso del debitore originario, salvo che il credito non abbia carattere strettamente personale o il trasferimento non sia vietato dalla legge”. Vige pertanto il principio generale della libertà di cessione del credito, salvo per le obbligazioni aventi per oggetto aspetti legati alla personalità della stessa (obbligazioni di fare non fungibili) e quando la legge preveda espressamente il divieto di cessione del credito. Il debitore ceduto è tenuto all’adempimento dell’obbligazione contrattuale nei confronti del cessionario solo dal momento in cui ha accettato la cessione, ma non è necessaria manifesta accettazione, poiché è sufficiente che al debitore venga notificata la cessione del credito attraverso una modalità idonea a dimostrare che la volontà di cessione del credito sia giunta nella sfera giuridica del debitore ceduto. Perfezionatasi la notifica della cessione del credito, il debitore ceduto dovrà necessariamente provvedere ad adempiere alla propria obbligazione nei confronti del cessionario e nel caso in cui adempiesse nei confronti del cedente, non sarà liberato dal dover adempiere nei confronti del cessionario.
All’interno del rapporto contrattuale di lavoro, il lavoratore può cedere il suo credito derivante dalla sua prestazione lavorativa. Il Legislatore ha previsto dei limiti al potere contrattuale del lavoratore, ossia l’impossibilità di cedere il proprio credito nella misura superiore al quinto dello stipendio: infatti, l’art. 5 del D.P.R. n. 180 del 5 gennaio 1950, intitolato “Facoltà e limiti di cessione di quote di stipendio e salario”, prevede la cedibilità del credito nei limiti di un quinto dell’ammontare dello stipendio o del salario, valutato al netto di ritenute e per periodi non superiori a 10 anni. La possibilità di cedere un quinto dello stipendio originariamente era limitata ai soli dipendenti pubblici. Successivamente, nel 2005, tale facoltà è stata poi estesa, a seguito di modifiche normative, anche ai pensionati e ai dipendenti privati, oltre che, entro certi limiti, ai lavoratori parasubordinati, mediante un programma di rimborso del finanziamento attuato usualmente attraverso lo strumento della cessione del credito di natura lavoristica. Da qui l’istituto della “cessione del quinto dello stipendio”.
I FATTI IN CAUSA
Oggetto del contendere è l’accertamento della legittimità di trattenute dello stipendio dei dipendenti operate dal datore di lavoro a titolo di costi di gestione amministrativa funzionali alla cessione del quinto del loro stipendio. Sia in primo che secondo grado, i giudici di merito hanno accertato l’illegittimità di tale operazione, condannando il datore di lavoro alla restituzione delle somme indebitamente trattenute: nel caso di specie, i giudici hanno ritenuto tale attività alla stregua di un’ordinaria operazione di gestione del rapporto di lavoro, relativa all’esercizio di un diritto potestativo del lavoratore, dovendo il datore di lavoro dotarsi di un ufficio amministrativo idoneo alla gestione del personale e di farsi carico di ogni operazione allo scopo necessaria. La società ha proposto ricorso per Cassazione adducendo un unico motivo: secondo la ricorrente la Corte territoriale non aveva considerato lo sdoppiamento degli atti di adempimento di un’obbligazione debitoria sorta unitaria, quale corresponsione al lavoratore della retribuzione mensile, cui siano stati aggiunti quelli derivanti dalla cessione parziale dell’obbligazione, comportante una maggiore gravosità dei costi non rientranti nelle normali operazioni, connesse al rapporto di lavoro e, pertanto, non di competenza esclusiva del datore di lavoro, in quanto derivanti da una libera scelta del lavoratore per esigenze personali.
LA SENTENZA DELLA CASSAZIONE
Secondo la Corte, il ricorso è infondato. A sostegno di tale posizione, gli Ermellini hanno ripreso un precedente arresto della stessa Corte relativo all’istituto della trattenuta sindacale. Nello specifico, secondo l’orientamento giurisprudenziale, i lavoratori, nell’esercizio della propria autonomia privata, attraverso la cessione del credito in favore del sindacato, possono richiedere al datore di lavoro di trattenere sulla retribuzione i contributi sindacali da accreditare al sindacato prescelto. La stessa Corte, nel caso specifico, aveva negato la possibilità del datore di lavoro di pretendere il rimborso dei costi del servizio aggiuntivo derivanti dalla trattenuta sindacale, a meno che non ne provi l’insostenibilità in rapporto alla propria organizzazione aziendale, “potendo l’eccessiva gravosità della prestazione giustificare l’inadempimento del debitore ceduto (datore di lavoro), solo ove il creditore (lavoratore) non collabori a modificare le modalità di prestazione in modo da realizzare un equo contemperamento degli interessi”. Partendo da tale premessa, la Corte ribadisce che la cessione del quinto si colloca nell’alveo della cessione del credito, per la cui validità non occorre il consenso del dipendente ceduto. La cessione del quinto potrebbe aggravare oltre misura la posizione del datore di lavoro e dell’entità degli oneri a suo carico. Per questo motivo, secondo la Corte, la modificazione soggettiva del creditore non deve risultare, in concreto, eccessivamente gravosa per il debitore ceduto, ossia “deve rispettare il limiti di correttezza e buona fede”. Nello specifico, i giudici di legittimità hanno chiarito che l’addebito dei costi legati alla maggiore gravosità delle prestazioni comportate dal servizio di contabilizzazione e gestione amministrativa, funzionale alla cessione del quinto, è giustificato solo in presenza del mancato rispetto dei limiti di correttezza e buona fede. Il datore di lavoro deve, pertanto, essere in grado di provare con fatti positivi che la cessione del quinto determini una maggior gravosità a suo carico derivante dai costi ingiusti, intollerabili e sproporzionati, meritevoli, quindi, di ristorazione. Nel caso di specie, la società ricorrente si era limitata a reiterare la dettagliata elencazione delle attività, dei tempi di evasione da parte del personale in esse impiegato e dei relativi costi, comportati dal servizio aggiuntivo di contabilizzazione e gestione della cessione del quinto. Tale materiale era stato considerato dalla Corte di Appello insufficiente a giustificare l’addebito, in quanto non in grado di provare la maggiore gravosità a carico del datore di lavoro.