Sergio Vergari analizza il tema delle causali nel contratto a tempo determinato[*]
L’Autore esamina la reintroduzione delle causali del contratto a termine, una tecnica normativa molto denigrata poiché edificata sulla restrizione dell’autonomia imprenditoriale attraverso la previsione di requisiti non misurabili e riscontrabili[1].
Il Legislatore, con il D.l. n. 34/2014[2], aveva scelto la soppressione delle causali al fine di arginare il contenzioso in materia e restituire alle imprese più certezza delle regole e più opportunità occupazionali.
Al criterio sfuggente e generico del giustificato motivo espresso dalle causali erano stati anteposti due criteri certi[3] costituiti dalla percentuale massima sul numero dei lavoratori a tempo indeterminato[4] e dalla durata massima complessiva dei rapporti a termine.
Ma oggi il dichiarato obiettivo politico – ancor prima che legislativo – è mutato.
Al centro non c’è più il problema dell’accertamento giudiziale sulla legittimità delle causali ma il contrasto alla precarietà del lavoro e all’abuso di contratti a termine.
La vera sfida ora è sfuggire alla tentazione di dare spinta unicamente a rapporti di lavoro di durata pari o inferiore a dodici mesi con tutti i conseguenti problemi di fidelizzazione e specializzazione della manodopera.
La legge di conversione lascia sul campo i seguenti due giustificati motivi:
A parte le esigenze di sostituzione del personale con diritto alla conservazione del posto, le altre due ruotano attorno all’attività ordinaria del datore di lavoro: per le prime, si chiede che ne siano estranee; per le seconde se ne ammette il collegamento, purché sussistano incrementi temporanei, significativi e non programmabili di quell’attività[5].
Il concetto di ordinario, etimologicamente determinabile, si riferisce alle attività svolte con regolarità e stabilmente perpetrate per il conseguimento dello scopo sociale.
Per dire che un’attività è ordinaria si deve prescindere dal suo contenuto e non è richiesto alcun giudizio di valore sulla sua pertinenza al core business del soggetto interessato.
Si deve fare riferimento alle attività esercitate in forma complessiva, periodica e duratura, anche se non permanente.
Il carattere ordinario dell’attività appartiene, in definitiva, più al suo aspetto quantitativo, che a quello qualitativo.
L’attività richiamata è quella aziendale, ma riferita all’ambito specifico in cui si intende attivare un posto di lavoro cercando di capire se la prestazione richiesta si unisca ad un’attività aziendale già esercitata in forma ricorrente e duratura.
La legge chiede in un primo caso che siano “temporanee e oggettive”.
Con il primo aggettivo si vuole ribadire la prescrizione normativa a non utilizzare contratti a termine per soddisfare esigenze di lungo periodo o il cui termine non sia prevedibile.
La nozione delle esigenze temporanee dev’essere ritenuta comprensiva sia di situazioni intrinsecamente e necessariamente temporanee[6], quanto di esigenze ingenerate da decisioni, scelte o programmi del datore di lavoro.
Un’esigenza deve essere poi oggettiva: o esiste o non esiste.
Se esiste, vi deve essere la possibilità di sottoporla a controllo e i riscontri devono essere necessariamente obiettivi; in relazione a ciò, il datore di lavoro deve essere in grado di offrire elementi accessibili e misurabili per l’accertamento di esistenza della stessa.
In questo secondo caso, è richiesto che il giustificato motivo del contratto a termine coincida con incrementi dell’attività congiuntamente temporanei, significativi e non programmabili.
Per quanto riguarda la nozione di incremento significativo, non esiste una misura predefinita normativamente, lo può conoscere solo il datore di lavoro.
In senso giuridico, l’aggettivo significativo, associato all’incremento di attività, richiama solo l’esistenza di un bisogno di consistenza tale da produrre la conseguenza di un’assunzione, da riferire alla gestione dell’incremento.
Il carattere significativo dell’incremento serve, in definitiva, a richiedere l’esistenza di un’attività integrativa sufficiente a giustificare economicamente l’assunzione di un nuovo lavoratore.
Va istituita, in questo senso, una correlazione tra il valore economico dell’incremento ed il costo del lavoro generato dalla nuova assunzione.
Gli incrementi di attività devono essere altresì non programmabili.
Anche in questo caso, l’interpretazione della condizione deve riflettere lo scopo perseguito dal Legislatore.
L’incremento deve considerarsi programmabile se è dipendente dall’iniziativa propria del datore di lavoro ovvero se è ascrivibile ad un percorso di consolidamento dell’attività aziendale.
Viceversa, se l’incremento dipende da fattori o eventi esterni non controllabili, legati a oscillazioni del mercato o ad eventi non ricorrenti della domanda (es. i saldi di fine stagione) o a nuove commesse non previste (es. le variazioni in aumento di commesse già esistenti), l’incremento va catalogato come non programmabile.
Le reazioni alla reintroduzione delle causali sono state sfavorevoli[7].
Il rischio paventato è l’incremento della precarietà in ragione della moltiplicazione di contratti di durata complessiva non superiore a dodici mesi.
La questione andrà affrontata in due modi: rifuggendo le causali ovvero affrontandole con ponderatezza.
La miglior tutela per il datore di lavoro sarà applicare il criterio di trasparenza e, a tal fine, la documentazione interna all’azienda (un progetto, una delibera degli organi sociali, un contratto, degli ordinativi o qualunque ulteriore elemento certo) potrà rivelarsi determinante.
I dati dei prossimi mesi ci riveleranno se l’intento del Legislatore è stato onorato o disatteso, e se l’effetto prodotto sarà distante dalle aspettative.
Il rischio del contenzioso è ineluttabile[8] ma le condizioni richieste vanno lette unicamente nell’ottica della lotta agli abusi promossa dal Legislatore.
Condizioni che potranno non solo rivelarsi meno oppressive di quanto il dibattito politico abbia fatto sin qui credere ma anche in grado di lasciare agli operatori spazi di azione stabili, pur se ridotti.
[1] Tra gli effetti più rilevanti va segnalato l’ingresso di ben quattro distinti regimi del contratto a termine (cfr. G. Falasca – A. Maresca, Quattro regimi in quattro mesi per i contratti a termine, ne Il Sole24 ore, 17 agosto 2018) corrispondenti alle norme in vigore.
[2] Sull’approccio al tema della (a)causalità di altri Paesi europei, cfr. M. Biasi, La (a)causalità del contratto a termine in Europa. Riflessioni comparative sulle novità in Italia, in Dir. lav. merc., 2014, 3, 763 ss.
[3] Per un’analoga valutazione, cfr. A. Pandolfo e P. Passalacqua, Il contratto di lavoro a tempo determinato, cit., 109 ss., che parlano di passaggio da una “limitazione qualitativa” ad una “regolazione fondata su criteri quantitativi.
[4] Quel limite, poi ripreso nel D.lgs. n. 81/2015 ed oggi ancora in vigore, prevede che per le imprese con organico superiore a cinque dipendenti il numero complessivo di contratti a tempo determinato stipulati da ciascun datore di lavoro non possa eccedere il limite del 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell’anno di assunzione.
[5] È evidente la differente impostazione rispetto a quanto previsto dal D.lgs. n. 368/2001 nella sua versione originaria. In quel testo la causale era unica, risultando articolata nella formula omnicomprensiva delle “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” (di qui la denominazione di “causalone”). Soprattutto, essa faceva richiamo ad esigenze proprie dell’attività ordinaria del datore di lavoro, la cui descrizione era decisamente meno selettiva di quella prevista dal c.d. “decreto dignità”, che riferisce tali esigenze ai soli incrementi di attività.
[6] Per l’approfondimento degli orientamenti interpretativi in tema di temporaneità delle esigenze aziendali, cfr. A. Miscione, L’apposizione del termine al contratto di lavoro: questioni interpretative sulla temporaneità delle esigenze datoriali, in Arg. dir. lav., 2005, 2, 615 ss.; A. D’Andrea, Eccezionalità e temporaneità quali requisiti intrinseci delle causali del contratto a termine, in Dir. lav.,2006,157ss.; L. Menghini, L’apposizione del termine, in M. Martone (a cura di), Contratto di lavoro e organizzazione, in M. Persiani – F. Carinci (diretto da), Trattato di diritto del lavoro, Padova, 2012, IV,275 ss.
[7] Tra i più critici, cfr P. Ichino, La “causale” che protegge il lavoro…degli avvocati, in La voce.info, 24 luglio 2018, per il quale “Che il vaglio (…) dell’assunzione a termine sia soggetto a una elevatissima alea giudiziale, dal punto di vista della protezione del lavoro non ha senso. O meglio, un senso ce l’ha: quello di dar lavoro agli avvocati. I quali, infatti sono per lo più favorevolissimi alla tecnica normativa del “giustificato motivo oggettivo”.
[8] Va ricordato chel’art.1, co. 1, lett. c), D.l. n. 87/2018, convertito con modificazioni dalla L. n. 96/2018, emenda l’art.28 del D.lgs. n. 81/2015, nel senso di elevare da centoventi giorni a centottanta giorni il termine per l’impugnazione del contratto a tempo determinato a decorrere dalla cessazione del singolo contratto. Si dà così più tempo ai lavoratori, ma nel contempo si incrementa il periodo di incertezza per le imprese, con corrispondente ulteriore disincentivo ad apporre termini lunghi al contratto a termine.
[*] .Sintesi dell’articolo pubblicato ne Il Lavoro nella giurisprudenza,11/2018, pag. 989 ss. dal titolo Le causali nel contratto a termine riformato.