Un’intervista ai “protagonisti” per capire come funzionano le assunzioni nel settore agricolo[1]
L’intervista del prof. Miscione a Raffaele Vicidomini, Segretario del sindacato ravennate della Flai-Cgil, fa emergere un quadro preoccupante e contraddittorio.
La lotta allo sfruttamento del lavoro agricolo fatica a raccogliere i risultati auspicati ed emergono ritardi – in alcuni casi anche una certa immobilità – nell’applicazione delle norme.
Ma, come sempre, le soluzioni “dal basso” possono venire in aiuto alle carenze dell’applicazione del diritto.
È ormai accertato come non siano rari i lavoratori, soprattutto stranieri, che vengono intercettati nei loro paesi di origine e arrivano in Italia per essere sfruttati da un “caporale”, il trait d’union che li trasporta e li affida a chi li sfrutta in turni massacranti di lavoro senza il riconoscimento di tutto ciò che differenzia un lavoro subordinato dignitoso da una condizione di nuovo schiavismo.
Per di più la Legge Bossi/Fini, ancora vigente, prescrive come condizione per arrivare in modo regolare, di essere in possesso di un contratto di lavoro.
È su questo presupposto, e sullo stato di estrema indigenza e vulnerabilità in cui versano i lavoratori immigrati, che si fomenta un altro aspetto degenerativo come quello del business dei permessi di soggiorno.
Il lavoratore straniero arriva al paradosso di pagare migliaia di euro pur di restare a lavorare in Italia in condizioni spesso degradanti e pericolose.
Uno strumento efficace a cui dare rilievo è rappresentato dalla Legge n. 199/2016 – concepita e adottata in un clima di attenzione mediatica – sia per i suoi interventi repressivi, sia per le indicazioni per arginare una piaga non solo del mercato del lavoro ma soprattutto sociale.
Vengono stabiliti nuovi strumenti penali per la lotta al caporalato come la confisca dei beni (alla stregua delle organizzazioni mafiose[2]), misure cautelari alternative come il controllo giudiziario dell’azienda, l’arresto obbligatorio in flagranza, l’applicazione di un’attenuante in caso di collaborazione con le autorità e l’estensione alle persone giuridiche della responsabilità per il reato.
Viene ridefinito il reato di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro” con l’introduzione di un illecito autonomo di sfruttamento del lavoro, che può prescindere anche dal ricorso ai caporali[3] o alla “violenza, minaccia o intimidazione”, come elementi necessari.
La nuova norma riformula inoltre i cosiddetti “indici di sfruttamento”, ossia quelle circostanze indiziarie che orientano il corso delle indagini e del giudizio in casi di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro: reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato; reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie; sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro; sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.
La nuova legge lascia infine intravedere la possibilità di una tutela più ampia attraverso l’estensione alle vittime di caporalato e sfruttamento – nel caso di una loro situazione di pericolo attuale – di programmi di assistenza ed integrazione sociale (già previsti dal Testo Unico per le vittime di grave sfruttamento, tratta e sfruttamento della prostituzione) e il rilascio di un permesso di soggiorno per protezione sociale.
Questa interpretazione sembra sostenuta da due ulteriori disposizioni: l’assegnazione al Fondo anti-tratta dei proventi delle confische ordinate a seguito di sentenza di condanna o di patteggiamento per il reato in questione, e la destinazione delle risorse del Fondo anche all’indennizzo delle vittime di caporalato e sfruttamento del lavoro.
Nella provincia di Ravenna, con la campagna “Ancora in campo”, il sindacato denuncia cosa avviene nelle campagne e informa direttamente i lavoratori impegnati nella raccolta circa i propri diritti, il rispetto dei contratti e dei salari e le nuove opportunità offerte dalla L. n. 199/2016.
La scorsa estate, in Puglia, le “Brigate di lavoro”, composte da militanti Flai di tutta Italia, si sono recate dall’alba ad incontrare lavoratori e lavoratrici; la Flai è presente anche per incontrare le Istituzioni affinché sia attuata la Rete del Lavoro agricolo di qualità – il primo sistema pubblico di certificazione etica del lavoro che dovrebbe raccogliere, certificare e “bollinare” le aziende virtuose e fornire un piano per la sistemazione logistica e il supporto dei lavoratori stagionali – e perché si comincino a sperimentare nel territorio collocamento e trasporti legali, togliendo così spazio vitale ai caporali.
Attraverso la formula del Sindacato di Strada, la Flai-Cgil opera sul territorio con il “Camper dei Diritti”, contattando direttamente i lavoratori nei luoghi di lavoro o nei posti di ritrovo: attraverso camper o furgoncini, di cui si è dotati in alcuni territori, i sindacalisti si muovono incontrando i lavoratori, diffondendo materiale informativo e contratti anche tradotti in diverse lingue, supporto circa i servizi
Dopo l’approvazione della L. n. 199/2016, abbiamo assistito a numerosi tentativi di svuotarla ed eluderla per vie contrattuali, come l’annunciata clamorosa reintroduzione dei voucher: non c’è bisogno di brevettare ulteriori strumenti, basta utilizzare quelli normativi esistenti.
Non a caso, a due anni dalla sua approvazione, è ancora molto basso il numero delle aziende iscritte nella Rete del Lavoro agricolo di qualità.
Certo è che la lotta al caporalato avrà pienamente successo se si interverrà non unicamente per via legale e repressiva ma neutralizzando le sacche di inefficienza e i vuoti istituzionali che favoriscono il deprecabile fenomeno: carenza di servizi credibili di intermediazione lecita nel settore; assenza di mezzi di trasporto pubblico nelle aree rurali; nuclei ispettivi disorganizzati e privi di strumenti adeguati, mirati e selettivi; debole attività di monitoraggio presso le Prefetture; mancanza di una visione globale delle condizioni di sfruttamento lavorativo e, infine, una mancata presa di posizione sulla questione delle inique filiere produttive della Gdo e delle industrie di trasformazione, a discapito dei piccoli produttori e dei lavoratori, oltre che dei consumatori.
Ma, più di ogni altra cosa, sarà indispensabile un serrato e continuo lavoro di sensibilizzazione prevalentemente culturale che parta “dal basso”, dalle Acli ai sindacati, per far maturare un nuovo approccio alle regole e al rispetto dei lavoratori.
Per ripartire dalla dignità delle persone.
[1] Sintesi dell’articolo pubblicato ne Il Lavoro nella giurisprudenza, n. 8-9/2018, pag 761, dal titolo Intervista al sindacato sulle assunzioni nell’agricoltura
[2], D.l. 8 giugno 1992, n. 306, art. 12 sexies, co. 1.
[3] L’unico strumento per attivare in qualche modo la responsabilità del datore di lavoro era il “concorso in reato” (artt. 110 e ss. c.p.).