Blocco dei licenziamenti Covid 19: nessuna applicazione alle ipotesi di superamento del periodo di comporto. Questo è quanto si evince dalla Sentenza n. 26634 del 14 ottobre 2024 della Corte di Cassazione. Nello specifico, gli Ermellini hanno precisato che il “blocco” dei licenziamenti per emergenza pandemica, introdotto dall’art. 46 del D.l. n. 18/2020 e successive modifiche, non è estendibile all’ipotesi di recesso per superamento del periodo di comporto, in quanto tale fattispecie è soggetta a regole speciali dettate dall’art. 2110 del Codice civile, prevalenti sia sulla disciplina generale della risoluzione del rapporto di lavoro per sopravvenuta impossibilità parziale alla prestazione lavorativa, sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali. I FATTI IN CAUSA Il caso di specie vede protagonista una lavoratrice assunta con contratto a tempo parziale verticale al 50% che è stata licenziata per superamento del periodo di comporto intimatole in data 25 novembre 2020, durante la piena vigenza del blocco dei licenziamenti imposto per l’emergenza pandemica Covid 19 (la lavoratrice si era assentata per un totale di 113 giorni nell’arco temporale tra il 6 agosto e il 25 novembre 2020). L’art. 46 del D.l. n. 18/2020, convertito in L. n. 27/2020 stabiliva che “A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto (17/03/2020) l’avvio di procedure di cui agli articoli 4,5, e 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223 è precluso per 60 giorni e nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020. Sino alla scadenza del suddetto termine, il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604”. La Corte di Appello di Roma aveva rigettato il reclamo della lavoratrice avverso la sentenza in primo grado, sostenendo proprio l’obiettiva diversità di natura del licenziamento per il superamento del periodo di comporto dal giustificato motivo oggettivo ex art. 3, L. n. 604/1966 e, pertanto, ritenendo non estendibile il divieto di licenziamento imposto dal Legislatore durante la pandemia a tale fattispecie. La lavoratrice presentava ricorso avverso la sentenza in secondo grado.
LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE
La Corte di Cassazione conferma quanto pronunciato dai giudici di merito. In primo luogo, gli Ermellini ricordano quale fosse la ratio imposta dal Legislatore con l’introduzione dell’art. 46 del D.l. n. 18/2020, ossia la tutela dei lavoratori dalle conseguenze negative sull’occupazione derivanti dal blocco o dalla riduzione dell’attività produttiva conseguente all’emergenza Covid 19. Stante l’obiettivo della normativa sul blocco dei licenziamenti (tutelare i lavoratori dalle conseguenze derivanti dalla pandemia) e vista la natura del licenziamento per superamento del periodo di comporto, diversa rispetto a quella del licenziamento per giustificato motivo oggettivo ex art. 3, L. n. 604/1966 (ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa), anche i giudici Ermellini hanno ritenuto non estendibile il blocco dei licenziamenti operante durante l’emergenza pandemica a tale fattispecie. Nello specifico, per la Corte il “blocco” dei licenziamenti per emergenza pandemica, introdotto dall’art. 46 del D.l. n. 18/2020 e successive modifiche, non è estendibile all’ipotesi di recesso per superamento del periodo di comporto, in quanto tale fattispecie è soggetta a regole speciali dettate dall’art. 2110 del Codice civile, prevalenti sia sulla disciplina generale della risoluzione del rapporto di lavoro per sopravvenuta impossibilità parziale alla prestazione lavorativa, sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali. Tale tesi trova fondamento anche nel fatto che, nell’ipotesi di licenziamento per superamento del periodo di comporto, il datore di lavoro non può recedere dal rapporto prima del superamento del limite di tollerabilità dell’assenza (cosiddetto periodo di comporto) e che il superamento del limite di conservazione del posto di lavoro è condizione sufficiente di legittimità del recesso, non essendo necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo né della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, né della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse. La Corte di Cassazione conclude sottolineando inoltre che “la possibilità di licenziamento, anche nel periodo temporale interessato dal blocco, per superamento del periodo di comporto si ricava, d’altro canto, in positivo, dalla previsione di non computabilità, ai suoi fini, del periodo trascorso in quarantena domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva (art. 26, primo comma D.L. cit.)”.
TRATTAMENTO DEL LAVORATORE A TEMPO PARZIALE E PRINCIPIO DI NON DISCRIMINAZIONE
La sentenza in oggetto pone una riflessione anche su un altro tema ossia il trattamento del lavoratore a tempo parziale nel rispetto del principio di non discriminazione. Nello specifico, con il secondo motivo di ricorso, la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione delle disposizioni del Ccnl Terziario e dell’art. 7 del D.lgs. n. 81/2015, che disciplina il trattamento economico e normativo spettante al lavoratore a tempo parziale. In particolare, la lavoratrice eccepisce l’erronea individuazione del periodo di comporto dei lavoratori in regime di part time verticale (in sole 78,5 giornate), in violazione dei principi di proporzionalità e non discriminazione, in quanto non vi è stata alcuna riproporzione del numero delle giornate di malattia da computarsi per il suo superamento. Per la Corte, anche questo motivo di ricorso è infondato. Infatti, secondo i giudici di legittimità, l’art. 7, D.lgs. n. 81/2015, stabilisce sì che al lavoratore a tempo parziale vengano riconosciuti i medesimi diritti di un lavoratore a tempo pieno comparabile, ma in misura riproporzionata in ragione della ridotta entità della prestazione lavorativa, nel rispetto del principio di non discriminazione. Non solo, lo stesso disposto normativo, al secondo periodo del secondo comma, prevede la possibilità, in sede di contrattazione collettiva, di una modulazione della “durata del periodo di conservazione del posto di lavoro in caso di malattia e di infortunio in relazione all’articolazione dell’orario di lavoro”, così valorizzando la specificità del tempo parziale verticale. Pertanto, in tale prospettiva, devono essere letti, in combinazione sistematica, l’art. 86 (di applicazione del criterio di proporzionalità del trattamento economico e normativo del lavoratore assunto a tempo parziale sulla base del rapporto fra orario settimanale o mensile ridotto ed il corrispondente orario intero previsto dal Ccnl) e l’art. 87 Ccnl Terziario, di applicazione del criterio di proporzionalità anche al periodo di comporto. Infatti, l’art. 87 del Ccnl prevede due metodi diversi di calcolo a seconda della tipologia di part time applicato: da un lato stabilisce l’applicabilità, nel rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo orizzontale, delle stesse disposizioni degli articoli 186 e 187 del contratto per il lavoro a tempo pieno: sicché, il comporto è fissato, in entrambi i casi, in 180 giorni di calendario, indipendentemente dalla durata giornaliera dell’orario di lavoro; dall’altro il diritto del lavoratore, nel rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale o misto, alla conservazione del posto per un periodo massimo non superiore alla metà delle giornate lavorative concordate fra le parti in un anno solare, indipendentemente dalla durata giornaliera dell’orario di lavoro in esse prevista e fermo restando il principio sancito nella dichiarazione a verbale di cui all’art. 188. Pertanto, secondo i criteri interpretativi di letteralità (art. 1362 c.c.) e sistematico (art. 1363 c.c.), il periodo di comporto per la lavoratrice, in regime di tempo parziale verticale al 50%, deve essere determinato in un numero massimo di giorni di calendario non superiore alla metà delle giornate lavorative concordate fra le parti in un anno solare (nel caso di specie di tre giorni settimanali da giovedì a sabato): e quindi, come ha correttamente individuato la Corte d’Appello, nel numero di 78,5.