L’art. 2116 del codice civile sancisce un importantissimo principio a tutela dei lavoratori, ovvero che “Le prestazioni indicate nell’articolo 2114 sono dovute al prestatore di lavoro, anche quando l’imprenditore non ha versato regolarmente i contributi dovuti alle istituzioni di previdenza e di assistenza, salvo diverse disposizioni delle leggi speciali. Nei casi in cui, secondo tali disposizioni, le istituzioni di previdenza e di assistenza, per mancata o irregolare contribuzione, non sono tenute a corrispondere in tutto o in parte le prestazioni dovute, l’imprenditore è responsabile del danno che ne deriva al prestatore di lavoro.”
Nel presente articolo tratteremo le prestazioni di cui al citato art. 2114 c.c. con esclusione dell’assegno pensionistico, riferendoci pertanto alle indennità di malattia, infortunio, maternità e congedi parentali, Naspi, cassa integrazione, etc. L’enunciato principio trova il fondamento della sua ratio nel fatto che, essendo l’obbligazione
di pagamento della contribuzione in capo al datore di lavoro, il mancato adempimento da parte di quest’ultimo non può essere che, di fatto, “subisce” il rapporto contributivo quale soggetto beneficiario delle prestazioni cui vengono effettuate le ritenute previdenziali imposte dalla legge, ma che nulla può e nulla deve relativamente al versamento
dei contributi all’ente che poi erogherà le prestazioni, sia per la parte a proprio carico che, lapalissianamente, per la parte a carico del datore di lavoro.
L’esigenza di tutelare il lavoratore indipendentemente dall’avvenuto pagamento dei contributi ha radici ben più lontane, infatti già il Regio decreto n. 636/1939 aveva previsto, all’art. 27, che “il requisito di contribuzione stabilito
per il diritto alle prestazioni dell’assicurazione per la tubercolosi, dell’assicurazione per la disoccupazione e dell’assicurazione per la nuzialità e la natalità si intende verificato anche quando i contributi non siano stati effettivamenteversati, ma risultino dovuti a norma del presente decreto”, successivamente integrato dall’art. 40 della L. n. 153/69, che aveva aggiunto: “Il requisito di contribuzione stabilito per il diritto alle prestazioni di vecchiaia, invalidità e superstiti, si intende verificato anche quando i contributi non siano effettivamente versati, ma risultino dovuti nei limiti della prescrizione decennale. Il rapporto di lavoro deve risultare da documenti o prove certe”.
Anche la stessa Costituzione, al c. 2 dell’art. 38, ha ribadito ulteriormente che “I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia,
disoccupazione involontaria”.
Il datore di lavoro può quindi essere definito come “sostituto di contribuzione”, in analogia con la consolidata definizione di sostituto d’imposta operante in ambito fiscale e, pertanto, qualora egli non adempia all’obbligo di
pagamento delle quote di contribuzione dovute, per proprio conto e per conto del lavoratore cui ha trattenuto i relativi importi, sarà successivamente obbligato a risarcire il danno subìto dal lavoratore qualora questi, a causa
del mancato adempimento di cui sopra, non possa percepire le prestazioni spettanti.
Condizione imprescindibile perché il principio di automatismo della prestazione possa trovare applicazione, è che non sia ancora intervenuta la prescrizione del diritto dell’ente a riscuotere i contributi.
Quanto detto fin d’ora, tuttavia, è stato storicamente circoscritto ai soli lavoratori subordinati, in base a quanto enunciato dal codice civile.
Solo di recente vi sono stati alcuni interventi che hanno ampliato l’ambito dell’automaticità delle prestazioni ai lavoratori parasubordinati ma, curiosamente, non per la totalità delle stesse.
In primis ha agito l’Inail, con circolare n. 32/2000, per quanto riguarda la tutela relativa ad infortuni sul lavoro e malattie professionali; in seguito, l’art.13 del D.lgs. n. 50/2015, modificando quanto precedentemente stabilito dal
D.lgs. n. 151/2001, ha ivi inserito l’art. 64-ter in cui afferma: “I lavoratori e le lavoratrici iscritti alla gestione separata di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, non iscritti ad altre forme obbligatorie, hanno diritto all’indennità di maternità anche in caso di mancato versamento alla gestione dei relativi contributi previdenziali da parte del committente”. Pertanto, ad esclusione delle indennità per infortunio, malattia professionale e maternità, tutte le altre prestazioni non saranno erogate qualora i pagamenti del dovuto non siano
perfettamente in regola o non sia stata versata la contribuzione minima dovuta per avervi accesso.
È opportuno rilevare che tale ridotta estensione dell’applicazione dell’automaticità non opera per gli autonomi iscritti alla gestione separata, in quanto vi è piena coincidenza tra soggetto obbligato al pagamento dei contributi
e beneficiario della prestazione, esattamente come accade per gli autonomi ai fini Inail, in cui l’identità dell’assicurante coincide con l’identità dell’assicurato (circ. Inail n. 30/1998); in entrambi i casi, pertanto, le prestazioni non saranno erogate finché non sarà versata la contribuzione minima richiesta dall’Inps, o i premi assicurativi dovuti all’Inail e, inoltre, la decorrenza delle prestazioni avrà data successiva alla regolarizzazione.
A ben vedere la disposizione introdotta dal D.lgs. n. 50/2015 non ha avuto altro pregio se non quello di ribadire quanto già stabilitodal c. 12, art. 80, L. n. 388/2000 che, fornendo interpretazione autentica dell’art. 59, comma
16 della Legge n. 449/97, aveva affermato che “l’estensione ivi prevista della tutela relativa alla maternità e agli assegni al nucleo familiare avviene nelle forme e con le modalità previste per il lavoro dipendente”.
Appariva pertanto limpida la volontà del legislatore di equiparare totalmente le due situazioni ma, ciononostante, si sono dovuti attendere ben 15 anni per avere un’ulteriore ed esplicita norma in tal senso, senza alcun riferimento al periodo pregresso che, come detto, aveva già una specifica disposizione, seppure non attuata.
A tal proposito, merita rilievo la sentenza n. 76/2019 della Corte d’appello di Trento, la quale, confermando quanto stabilito dal Giudice di 1° grado, allargava l’ambito di applicazione dell’art. 2116 del c.c. ai collaboratori a progetto, affermando che “Non vi è pertanto alcun ostacolo all’applicazione analogica dell’art. 2116 c.c. a fattispecie per le quali
non vi sia una specifica disciplina e per quali ricorra la medesima “ratio”, aggiungendo di seguito “La posizione del collaboratore coordinato e continuativo, il cui unico obbligo è l’iscrizione alla gestione separata ex art.2, comma 27, L. 335/1995, non differisce sotto alcun profilo da quella del lavoratore subordinato per gli
aspetti che vengono in rilievo nella definizione della “ratio” dell’art.2116 cod.civ.: l’obbligo di versamento dei contributi grava unicamente sul datore di lavoro/committente anche per il terzo a carico del lavoratore (artt.1 e 5, D.M. 2 maggio 1996, n.281), il collaboratore non può provvedere in sostituzione e spirato il termine di prescrizione
i contributi non sono più accreditabili”.
Viene istintivo domandarsi se la mera presenza del “sostituto contributivo” possa costituire il il discrimine per far scattare l’automaticità.
La Corte di Cassazione ha risposto negativamente, con la sentenza n.11430 del 30 aprile 2021, fornendo un’approfondita analisi della problematica basata sulla gerarchia delle fonti.
Afferma la Suprema Corte che, nonostante il citato D.M. n. 281/96 in attuazione della delega di cui alla L. n. 335/95 abbia previsto il versamento alla Gestione separata a carico del committente, trattandosi di disciplina regolamentare
che non può derogare alla previsione di legge (articolo 4 preleggi, comma 1), tale assunto è da considerare quale mera individuazione delle modalità di versamento, “che non può certo comportare, rispetto al rapporto contributivo, alcuna equiparazione della sua situazione a quella del lavoratore subordinato:
si tratta, infatti, di una semplificazione delle modalità di riscossione del contributo che nulla immuta rispetto ai soggetti che debbono ritenersi titolari del lato passivo dell’obbligazione contributiva”, mancando di fatto il presupposto di legge.
Aldilà della gerarchia delle fonti, tra l’altro sempre più spesso ignorata, bistrattata e calpestata, nasce spontanea una riflessione: la Costituzione, nel citato art.38, parla genericamente di “lavoratori”, senza riferimento alcuno alla natura degli stessi, se autonomi, subordinati o parasubordinati, posto che quest’ultima tipologia all’epoca, era, probabilmente, totalmente sconosciuta; potrebbe quindi apparire sottilmente discriminatorio non estendere l’automaticità anche ai lavoratori autonomi, in quanto anch’essi avrebbero, secondo il dettato costituzionale, il diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria; tuttavia, giova sottolineare che, essendo i lavoratori autonomi i diretti responsabili del pagamento della contribuzione, non corrono alcun rischio di danno cagionato da “terzi” come, invece, accade per i subordinati e parasubordinati.
Ben si sarebbe potuta trovare la sempre diplomatica via di mezzo, quale, ad esempio, garantire l’automaticità della prestazione agli autonomi, in luogo di una trattenuta diretta sull’importo della stessa, mitigando in tal modo gli effetti dell’irregolarità contributiva. Nell’universo dei privi della tutela dell’automaticità è impossibile non ricordare i coadiuvanti dell’artigiano, i coadiutori del commerciante, i collaboratori dell’impresa familiare, per i quali la contribuzione deve essere versata dal titolare dell’impresa,1 fatta salva la possibilità di esercitare il diritto di rivalsa. Riepilogando, in barba al dettato costituzionale, nonostante dinamiche uniformi nella gestione del rapporto contributivo tra lavoratori subordinati, parasubordinati e coadiuvanti/ coadiutori/componenti dell’impresa familiare, ovvero tutte situazioni in cui vi è un soggetto che ha il diritto alle prestazioni e un soggetto terzo su cui ricade l’obbligo di versamento della contribuzione all’ente, abbiamo tre diversi scenari: 1. lavoratori subordinati: automaticità a 360 gradi, fino ad intervenuta prescrizione dell’obbligo contributivo; 2. lavoratori parasubordinati: automaticità limitata ad infortunio e maternità, mentre resta esclusa per gli assegni per il nucleo familiare, nonostante sia chiaramente prevista nel citato c. 12, art. 80, L. n. 388/2000;
3. coadiuvanti/coadiutori/collaboratori dell’impresa familiare: nessuna automaticità. Si configura pertanto un trattamento estremamente disomogeneo dei soggetti indicati, nonostante la sostanziale coincidenza del rapporto “triangolare” tra Inps, obbligato principale al versamento e lavoratore destinatario delle prestazioni, fatta eccezione per l’assenza di trattenuta contributiva alla fonte per i soggetti di cui al punto 3. Ampliando ulteriormente il contesto analizzato, appare all’orizzonte un ulteriore discrimine di trattamento in materia di cassa integrazione, stavolta contenuto all’interno dell’ambito del lavoro subordinato: i lavoratori iscritti a determinati fondi di solidarietà bilaterale, come ad esempio il Fis, hanno la fortuna di poter fare appello al principio di automaticità, mentre, per contro, così non accade per chi ha la “sfortuna” di essere iscritto a fondi diversi, quali, a mero titolo di esempio, Fsba, poiché il c.1, art. 35 del D.lgs. n. 148/2015 afferma candidamente che: “I fondi istituiti ai sensi degli articoli26, 27 e 28 hanno obbligo di bilancio in pareggio e non possono erogare prestazioni in carenza di disponibilità”.
Pertanto, mentre per i lavoratori rientranti nel Fis l’indennità di cassa integrazione è garantita a prescindere dalla regolarità del pagamento della relativa contribuzione, per l’assegno ordinario erogato da Fsba accade esattamente il contrario, come confermato dallo stesso fondo anche nell’ultima versione delle proprie procedure operative del 10 marzo 2022, in cui afferma che “l’Ente Bilaterale Regionale non potrà predisporre ordini di pagamento in caso di azienda non regolare con i versamenti Fsba”. In poche parole, a prescindere dalla regolarità dei pagamenti, nessun lavoratore subordinato iscritto ad un fondo diversi dal Fis avrà mai piena garanzia di ottenere le prestazioni, in contrapposizione, ancora una volta, con il già citato art. 38 Cost.
Ma vi è di più, infatti, volgendo fugacemente lo sguardo al novellato testo del D.lgs. n. 148/2015, l’art. 40-bis introdotto dal c. 214, art. 1, L. n. 234/2021 recita: “a decorrere dal 1° gennaio 2022, la regolarità del versamento dell’aliquota di contribuzione ordinaria ai fondi di solidarietà bilaterali di cui agli articoli 26, 27 e 40 è condizione per il rilascio del documento unico di regolarità contributiva (Durc)”.
Detto ciò, non si evincono particolari differenze nella gestione della contribuzione versata ai vari fondi: parte a carico del lavoratore, parte a carico del datore di lavoro, rilevanza ai fini del Durc, aliquote specifiche a finanziamento degli interventi di integrazione salariale. L’iscrizione al fondo di solidarietà bilaterale non è attuabile a discrezione del datore di lavoro, ma deriva direttamente dal settore aziendale, e la regolarità dei relativi versamenti, come detto, è ora indispensabile per l’emissione del Durc regolare. Orbene, l’unica differenza sostanziale è costituita dall’inapplicabilità, per i fondi diversi dal Fis, dell’automaticità. Gratificherebbe oltremodo la nostra proverbiale curiosità apprendere come si sia evoluto, negli anni, il percorso logico-giuridico seguito dal Legislatore che ha determinato lo scenario attuale.