L’Ispettorato Nazionale del Lavoro dirama una circolare, che pare rivolta per lo più alle proprie sedi territoriali, per chiarire i rapporti fra le attività di vigilanza e la certificazione dei contratti. In presenza di contratti certificati è infatti preclusa la possibilità di verbalizzare direttamente con efficacia immediata eventuali violazioni, che dovranno essere accertate solo per via giudiziale e dopo l’esperimento di un tentativo obbligatorio di conciliazione avanti la sede di certificazione inizialmente adita dalle parti. Dal testo complessivo pare trasparire una certa insofferenza verso l’attività di certificazione, vista quasi come un intralcio all’attività ispettiva e non invece come utile strumento sussidiario di legalità.
La certificazione dei contratti di lavoro è un istituto previsto dagli artt. 75 e seguenti del D.lgs. n. 276/2003 e consiste in una procedura volontaria, ad opera delle parti sottoscriventi un contratto in cui sia dedotta una prestazione di lavoro, volta a sottoporre il contratto all’esame di una commissione qualificata ed istituita a norma di legge, che ne esamina il contenuto al fine di asseverarlo sia in termini di qualificazione del rapporto, sia rispetto ad eventuali clausole particolari, nonché sugli eventuali effetti fiscali, previdenziali ed assicurativi previsti dalle pattuizioni contrattuali. Come più volte sottolineato[1], uno dei vantaggi offerti dalla certificazione, almeno per quello che qui tratteremo, è l’efficacia della stessa non solo nei confronti delle parti sottoscriventi (in genere, lavoratore e datore di lavoro) ma anche nei confronti dei terzi.
Fra i terzi vanno sicuramente annoverati anche gli Enti della P.A. (si ricorda che può essere richiesta – ed in genere lo si fa – l’efficacia della certificazione n0n solo per gli aspetti giuridici e contrattuali, ma anche ai fini fiscali, assicurativi e previdenziali). La valenza della certificazione, pertanto, permane fino al momento in cui dovesse essere accolto con sentenza di merito un eventuale ricorso contro la certificazione, con il peso dell’onere probatorio trasferito con particolare rilievo sulla parte che adisce l’autorità giudiziaria.
Anche rispetto alle attività di vigilanza, la certificazione rende temporaneamente inefficace un accertamento ispettivo: prima di procedere alla verbalizzazione di irregolarità o all’irrogazione di sanzioni o provvedimenti inerenti il contratto certificato (per la sola parte che è stata oggetto di certificazione, qualora la stessa non sia globale) l’Ispettore è infatti onerato ad un doppio passaggio:
– inizialmente dovrà promuovere una conciliazione presso la Commissione di Certificazione che a suo tempo ha esaminato e asseverato il contratto in contestazione, presentando istanza nei modi e tempi previsti dalla Commissione;
– solo all’esito di tale conciliazione, ove esso fosse negativo, potrà promuovere l’azione giudiziale, nella quale, peraltro, il Giudice adito dovrà tener conto del comportamento delle parti mantenuto nella sede conciliativa.
Una decisa limitazione, che però trova la sua motivazione nel ruolo e nell’importanza assegnata dalla legge alla certificazione come strumento sussidiario di buona prassi volto a prevenire il contenzioso ed a promuovere legalità.
La circolare dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (d’ora in poi, INL) n. 9 del 1° giugno 2018 si occupa proprio del rapporto fra conciliazione ed attività ispettiva muovendosi sul doppio binario della certificazione in concomitanza con l’attività ispettiva e dei rimedi (rectius, dell’impugnazione) contro un atto certificatorio da parte degli Enti di vigilanza.
Si tratta di due aspetti legati da tempistiche differenti, in quanto nel primo caso la certificazione non è ancora giunta a compimento all’atto dell’ispezione, mentre nel secondo caso l’accertamento è postumo rispetto ad un contratto già certificato: ripercorreremo le indicazioni dell’INL – che sembrano indirizzate in prevalenza alle proprie diramazioni territoriali[2] – seguendo pedissequamente lo schema dallo stesso utilizzato.
L’Ispettorato prende in considerazione i casi in cui all’avvio di un’ispezione si sia in presenza di un contratto non ancora certificato, con due sottocasi piuttosto particolari:
– il contratto è stato sottoposto a certificazione precedentemente all’inizio dell’ispezione, ma all’atto della stessa il procedimento non si è ancora concluso;
– l’istanza per la certificazione del contratto è stata presentata solo dopo l’avvio dell’ispezione.
Partiamo dall’analisi del secondo caso, che risulta essere di immediata definizione: un accertamento è stato avviato e solo in seguito ad esso le parti decidono di far certificare un contratto. Sembrerebbe, in tutta obbiettività, un’azione tardiva di contrasto, o di difesa postuma, verso la potestà accertativa, e pertanto sembra corretto che in tal caso il tempestivo avviso da parte dell’organo ispettivo alla Commissione di certificazione non possa che portare alla sospensione del procedimento, che potrà riprendere solo al termine dell’ispezione e che non potrà, evidentemente, non tener conto degli esiti dell’accertamento[3].
Un po’ più complessa risulta invece la prima fattispecie, ovvero se l’istanza di certificazione sia stata presentata dalle parti in maniera autonoma prima dell’ispezione, che tuttavia interviene quando l’iter di certificazione non si sia ancora definito[4].
Qui le osservazioni della circolare appaiono meno condivisibili, in quanto il caso è sostanzialmente parificato dall’INL a quello appena esaminato: secondo l’Ispettorato Nazionale, infatti, analogamente al caso precedente, il personale ispettivo svolge la propria attività senza alcun effetto preclusivo sulla stessa ed anzi avendo cura di informare la commissione di certificazione, adempimento che secondo l’INL sarebbe “funzionale alla sospensione del procedimento certificatorio”, come previsto dai regolamenti di alcune commissioni. Per giustificare tale passaggio, viene fatto riferimento al potere (previsto dall’art. 78 del D.lgs. n. 276/03) delle autorità pubbliche a cui si rivolgono gli effetti della certificazione di presentare osservazioni sulla certificazione di cui la commissione deve tenere conto, in sede di motivazione del provvedimento finale.
Le osservazioni di INL a questo proposito non sembrano a chi scrive particolarmente puntuali. In particolare, il potere di rendere osservazioni alle commissioni di certificazione (sempre possibile anche ed a maggior ragione in presenza di un accertamento ispettivo) non può essere confuso con alcun obbligo da parte della Commissione di sospendere il procedimento certificatorio sino al termine delle attività ispettive. Invero, alcune Commissioni hanno previsto tale situazione nel loro regolamento[5] e ad esso devono pertanto attenersi. Tuttavia nella Direttiva sulle ispezioni del 18 settembre 2008 era esplicitamente previsto che l’accertamento dovesse concentrarsi in particolare sui contratti “che non siano già stati sottoposti al vaglio di una delle commissioni di certificazione (…) in quanto positivamente certificati o ancora in fase di valutazione”. Il passaggio prevedeva pertanto una zona di rispetto non solo per il contratto già certificato ma anche per quello che volontariamente e spontaneamente [6] avesse già iniziato il percorso asseverativo. Vi era, sostanzialmente, in quel passaggio una forma di rispetto e di “parità di dignità” fra azione certificativa ed azione ispettiva che invece, nella circolare in commento, l’INL sembra relativizzare. Ritorneremo sul punto in sede conclusiva, ma vorremmo solo qui notare che – a dispetto di quanto contenuto nella circolare – qualora non vi fosse una previsione esplicita in tal senso nel proprio regolamento – una commissione di certificazione non ha alcun obbligo di sospendere la certificazione ma al più di accogliere le osservazioni che volesse farle pervenire l’organo accertatore. Il che ha anche un senso, perché diversa è la fase di mera produzione di osservazioni e, se vogliamo, di warning degli Enti su determinate certificazioni magari su aspetti o situazioni controverse (che possono essere rilevate anche in fase di accertamento), diverso è pretendere una sospensione della certificazione. Uno dei significati del passaggio succitato della Direttiva Sacconi del 2008 era proprio quello di impedire l’eventualità, magari remota ma forse anche no, che in seguito alla presentazione di istanze di certificazione si producessero, in luogo delle predette osservazioni (facoltà che risulta pochissimo utilizzata dagli Enti), ispezioni di contrasto alla certificazione, il che avrebbe depresso irrimediabilmente l’istituto.
In presenza di un contratto certificato, gli effetti dello stesso permangono fintanto che non sia stato accolto un rimedio giudiziale, unica via esperibile per un ricorso contro la certificazione.
Nel ripercorrere anche la narrazione della circolare in commento, ricordiamo che il ricorso giudiziale è possibile per due ordini di motivi, che approdano a iter procedurali del tutto differenti:
– un ordine di motivi attiene al processo di formazione della certificazione, cioè per aspetti di natura formale o procedurale; in tali casi si prevede un ricorso al TAR e le fattispecie ipoteticamente interessate (ma sono casistiche che l’INL stesso riconosce del tutto residuali) riguardano la violazione di norme di legge o di regolamento che disciplinano il procedimento certificatorio o il fatto che la certificazione non trovi alcun fondamento negli elementi forniti dalle parti (c.d. “eccesso di potere”) o, ancora, qualora la sede non sia territorialmente competente a certificare il contratto;
– un ordine di motivi, che saranno posti alla valutazione del giudice ordinario (del lavoro), è invece di carattere sostanziale e attiene ad un’errata qualificazione giuridica del contratto o, più frequentemente, ad una difformità fra la situazione che è stata descritta in contratto (il c.d. “programma negoziale”) e ciò che si è concretamente realizzato fra le parti.
In tale secondo ambito, l’eventuale accoglimento del ricorso da parte del giudice avrà effetto temporale dalla conclusione del contratto, qualora si trattasse di un’errata qualificazione del contratto, mentre in caso di diverso concreto atteggiarsi delle modalità di esecuzione concrete del contratto, la decorrenza sarà dalla data, accertata in giudizio, in cui tale scostamento abbia avuto inizio.
L’INL rende anche puntuali indicazioni sulla sede giudiziale da adire in casi più complessi (criteri che sono validi a prescindere se il contratto o la fattispecie impugnata sia certificata o meno) ove non sempre essa è di facile individuazione: in caso di molteplicità di lavoratori impiegati in diverse sedi, il Foro adito sarà quello relativo al luogo ove ha sede legale l’azienda, in caso di un contratto di appalto sarà quello della dipendenza dell’azienda (che può essere anche un cantiere presso cui si è svolto il rapporto di lavoro).
Qualora il territorio di competenza per il ricorso non fosse lo stesso della Sede territoriale procedente, la stessa trasmetterà alla Sede competente tutta la documentazione onde quest’ultima possa agire in giudizio su delega della Sede originaria.
Analogo trasferimento di competenza fra Uffici avverrà in caso di proposizione di istanza di conciliazione presso la sede di certificazione del contratto che si intende impugnare.
Si ricorda infatti che, come anticipato all’inizio del presente contributo, prima di poter adire l’autorità giudiziaria anche l’organo di vigilanza che volesse impugnare un contratto certificato, deve obbligatoriamente promuovere un’istanza di conciliazione presso la Commissione di Certificazione che a suo tempo ha provveduto a certificare il contratto, istanza proponibile secondo le procedure proprie di ciascuna Commissione di Certificazione.
A tal proposito, la richiesta di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata della conciliazione e per i 20 giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza.
Se tali sono i percorsi procedurali che vengono correttamente rappresentati dalla circolare n. 9/2018, desta tuttavia più di una perplessità l’atteggiamento complessivo di fondo, su cui esprimeremo nel prossimo paragrafo alcune considerazioni.
Resta solo da aggiungere, qui, che l’INL ricorda come il verbale conclusivo al termine dell’ispezione che abbia prodotto rilievi sui contratti certificati deve contenere l’espressa avvertenza che la propria efficacia è condizionata ai passaggi obbligatori suddetti (conciliazione prima, ed eventuale giudizio poi).
Riducendo all’osso, come abbiamo fatto nelle righe precedenti, le istruzioni trasmesse dall’INL alle sue diramazioni territoriali (istruzioni che dovrebbero peraltro valere per qualsiasi organismo di vigilanza in materia di lavoro, data la competenza attribuita in via generale all’Ispettorato Nazionale sulla materia, in termini di interpretazione ed indirizzo) chi scrive non può esimersi dal rilevare alcune dolenti note che si ricavano dal tono complessivo della circolare e da quanto non detto, soprattutto se si confrontano le istruzioni dell’INL con il nuovo corso che solo 10 anni prima il Ministro del Lavoro aveva tentato di dare alle ispezioni con la già citata Direttiva del 2008 (la seconda in tutta la storia repubblicana).
Della pretesa (fra le righe, diciamo almeno dell’aspettativa) del tutto infondata dell’Ispettorato per cui all’avvio del procedimento ispettivo si sospenda la procedura di certificazione abbiamo già detto, così come della scarsa, se non nulla, attività di collaborazione e monitoraggio dell’operato delle commissioni di certificazione, anche attraverso la proposizione di osservazioni in fase di certificazione[7].
Ma ancor più deludenti sono i passaggi rispetto all’impugnazione della certificazione. Nella Direttiva ispezioni (ed in altri documenti di egual spessore emanati all’epoca) viene detto chiaramente che i contratti certificati (o anche in fase di certificazione già avviata non saranno oggetto di accertamento “salvo che non si evinca con evidenza immediata e non controvertibile la palese incongruenza tra il contratto certificato e le modalità concrete di esecuzione del rapporto di lavoro”. Insomma, l’ispettore è invitato a “girare al largo” dal contratto certificato (o certificando), a meno di macroscopica difformità (“evidenza immediata e non controvertibile”, “palese incongruenza”) fra il contratto e il suo svolgimento concreto[8].
Ma di tale atteggiamento prudenziale e rispettoso nei confronti della certificazione in tutta la circolare n. 9/2018 non si fa assolutamente menzione: sembra quasi darsi per scontato che ciascun ispettore sappia sempre ed incontrovertibilmente quel che fa; e di quanto questa affermazione possa talvolta rivelarsi ottimistica ogni operatore ne ha personale esperienza.
Tuttavia ciò si rivela a maggior ragione nell’assoluta sufficienza con cui viene trattato l’argomento della conciliazione obbligatoria avanti la commissione di certificazione, conciliazione esperita ai sensi dell’art. 410 del c.p.c. e la cui obbligatorietà è stata ribadita dal c.d. “Collegato lavoro” (art. 31 della L. n. 183/2010). Non vi è una parola, non una, non solo nella circolare ma negli atti emanati nel tempo dalle Direzioni ispettive, per indirizzare il comportamento degli ispettori o dei Funzionari delegati in questa fase di confronto che il Legislatore ha voluto, con tutta evidenza, statuire con una duplice finalità:
– permettere un confronto in sede di certificazione che ricostruisse le motivazioni delle parti ed eventualmente scoprisse cosa non fosse andato a buon fine già nella fase di certificazione, offrendo momenti di confronto sulle modalità di certificazione ed anche un osservatorio sul funzionamento di alcune di esse[9];
– addivenire ad una deflazione del contenzioso giudiziale anche su questi temi, proprio con l’ausilio della Commissione[10].
E ben si può immaginare, nel caso in cui la sede di certificazione non sia coincidente – sotto l’aspetto territoriale- con quella dell’ufficio procedente, con quale spirito un funzionario di altro ufficio possa andare a conciliare ed a confrontarsi basandosi sull’operato di un altro collega verso cui sarebbe palesemente imbarazzato qualora ritenesse di non confermarne pedissequamente le tesi (a questo proposito, chi scrive ritiene un errore strategico che alla conciliazione non siano, di regola, deputati i medesimi ispettori che hanno formulato i rilievi). Resta abbastanza evidente a chi scrive che il tutto venga vissuto – ed invitato a vivere – da parte di INL come un mero passaggio formale-burocratico da sbrigare in fretta e furia per poter arrivare (finalmente!) al giudizio, in totale dispregio di ogni tentativo efficacemente deflattivo, che tuttavia starebbe nella finalità della norma in argomento e, in fondo, dello stesso articolo di riferimento del codice di procedura civile. Senza contare che tali norme, ad esempio, prevedono espressamente che il giudice debba tener conto del comportamento complessivo tenuto dalle parti nel passaggio conciliativo (che quindi non può essere inteso come meramente formale).
Insomma, ci chiediamo se rispetto alla certificazione o ad altre buone prassi qualificate l’azione di vigilanza venga concepita (come secondo noi dovrebbe essere) come un primum inter pares, oppure se si voglia attribuire una supremazia assoluta all’ispezione, trattando attività sussidiarie deflattive e di legalità quasi come un fastidioso inciampo da sopportare e da cui liberarsi con impazienza. Non è solo una questione procedurale, ma è anche una profonda riflessione culturale sul ruolo dell’ispezione e della vigilanza: solo pochi anni fa qualcuno ci annunciava – con parole quali “clima psicologico positivo e collaborativo” , “logica di servizio e di trasparenza anche nei confronti dei datori di lavoro ispezionati”, ”abbandono di impostazioni di carattere formale e burocratico per sanzionare fenomeni di regolarità sostanziale” [11] – un diverso clima e metodo degli accertamenti, ma soprattutto negli ultimi anni quello spirito sembra sia stato abbandonato e sostituito da una certa rigidità che, peraltro, non sembra comunque aver prodotto significativi risultati in tema di contrasto all’illegalità più diffusa e scientifica.
Non c’è, ovviamente, alcun dispregio dell’attività ispettiva, sempre utile e doverosa, ma solo il rammarico di veder in parte smarrito un senso di collaborazione costruttiva che può contribuire alla crescita del Paese e del sistema lavoro.
All’annuncio che ”la guerra è finita” qualcuno sembra sempre purtroppo restio a deporre il fucile.
[1] Sia concesso per brevità espositiva il rimando a: A. Asnaghi, La certificazione dei contratti di lavoro: fattispecie, benefici, legittimità, ne La Circolare di lavoro e previdenza, n. 12-13/2018.
[2] La circolare in argomento, nel proprio incipit, parla esplicitamente di “indicazioni operative” e per tutta l’estensione del documento esplicita non tanto interpretazioni di diritto quanto piuttosto istruzioni pratiche sulle modalità di comportamento delle sedi, in seguito ad “alcune richieste di parere provenienti dal territorio”.
[3] Solitamente, infatti, viene richiesto alle parti di dichiarare se il contratto è già stato sottoposto a precedenti certificazioni o a ispezioni: un’eventuale risposta inveritiera in tal senso inficerebbe radicalmente l’intero procedimento di certificazione.
[4] La certificazione non è di certo un procedimento “istantaneo” e, a seconda del tipo di contratto posto all’esame della commissione, richiede un esame del contratto e della documentazione prodotta, un’audizione delle parti, eventuali integrazioni ed infine l’emissione motivata del provvedimento, risultando (giustamente, in un’ottica di garanzia e serietà) un procedimento laborioso ed articolato.
[5] Ad esempio, le Commissioni di certificazione istituite presso i Consigli Provinciali degli ordini dei Consulenti del lavoro hanno previsto la sospensione nel loro regolamento; tuttavia va anche notato che il regolamento è stato stipulato, a norma di legge, a livello nazionale su intesa del Ministero del lavoro e del Consiglio Nazionale, per cui sembra in un certo senso che tale passaggio sia stato “desiderato” (se non imposto) in sede di stipula.
[6] Spontaneità che sembrerebbe invece venir meno nell’altro caso esaminato in precedenza, ovvero ad azione ispettiva già avviata prima dell’istanza.
[7] La domanda di fondo è se qualcuno sia deputato in maniera stabile a leggere e a confrontarsi sulla documentazione inviata (obbligatoriamente) dalle Commissioni di certificazione agli Enti oppure, come spesso succede, ci si limiti ad un burocratico fenomeno di “passacarta”.
[8] Peraltro, tale indirizzo viene disposto nell’ambito di un’economia di gestione dell’ispezione, dove le limitate risorse degli organi di vigilanza (di cui i vertici non mancano mai di dolersi in ogni occasione pubblica) vengono strategicamente riservate ai casi che non siano già stati in qualche modo vagliati.
[9] Permane forte il dibattito sulle attività di controllo a cui potrebbero o dovrebbero essere sottoposte le Commissioni di certificazione, al fine di prevenire eventuali abusi. Sia permesso il rimando a A. Asnaghi, La certificazione dei contratti di lavoro: quis custodiet custodes ?, in Sintesi, giugno 2017. Su questo aspetto, non è secondaria, anche, la mancata promozione a tutt’oggi da parte ministeriale dell’elaborazione continua di buone prassi condivise in materia di certificazione dei contratti di lavoro.
[10] Ad esempio, si potrebbe radicare un confronto – ed eventualmente una conciliazione – se non sull’argomento diretto del dibattere, almeno su aspetti secondari ma non meno importanti, quali la decorrenza del provvedimento, oppure gli effetti fiscali e previdenziali, ancora, determinati profili sanzionatori. L’art. 412 del c.p.c. prevede peraltro che possano essere trovate soluzioni conciliative anche parziali.
[11] Sono espressioni che abbiamo estrapolato dalla citata Direttiva ispezioni del 2008.