La circolare n. 10/2018 dell’INL sui controlli ispettivi in materia di appalti, racconta dell’ultima “tentazione” di chi opera come funzionario accertatore. Quella di sanzionare il “doppio datore di lavoro”.
Quanti possono essere i datori di lavoro?
Con i nuovi istituti di codatorialità, oggigiorno, anche più di uno. Ma non si tratta certo della regola. Esclusi i contratti di rete, e salvo ingegnose invenzioni, ci è stato insegnato che il datore di lavoro è uno solo.
Eppure sembra che adesso gli ispettori possano punire simultaneamente due soggetti, entrambi in qualità di datore di lavoro.
Fanta-diritto?
Battute a parte, che un lavoratore possa sostanzialmente vantare più datori di lavoro è quanto viene descritto nella circolare n. 10 del 11 luglio 2018 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL).
La nota tratta la materia di appalti di servizi – illeciti, per cui, a fronte delle molte prassi invalse presso i vari uffici ispettivi, l’INL ha giustamente deciso di “assicurare uniformità di comportamento di tutti gli organi di vigilanza”. Quindi attenzione: d’ora innanzi nessun ispettore che indaghi gli appalti potrà impunemente sottrarsi dall’ottemperanza di quanto stabilito.
Con giusta preoccupazione – soprattutto dei committenti, si direbbe – vediamo di cosa si tratta.
Va innanzitutto osservato che la circolare non ritiene affatto di dovere trattare la “confinante” ipotesi della somministrazione illecita di manodopera. Come noto se chi non ha titolo – cioè, non è un’agenzia per il lavoro – fornisce abusivamente e di fatto lavoratori a un certo utilizzatore, oltre alle sanzioni amministrative ora previste dall’art. 18, co. 1 e 2, D.lgs. n. 276/2003 (prima della depenalizzazione del 2016 si trattava, appunto, di un reato), si ha, quale effetto ulteriore, che l’utilizzatore si ritrovi di diritto datore di lavoro dei lavoratori impiegati.
L’effetto della costituzione ipso iure di rapporti di lavoro subordinato – simile, in fondo, alla conseguenza della previgente Legge n. 1369/1960 – attiene, però, alla sola fattispecie prevista testualmente dall’art. 38, co. 1, del D.lgs. n. 81/2015 (“In mancanza di forma scritta il contratto di somministrazione di lavoro è nullo e i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore”). In tutti gli altri casi, dovrà essere il medesimo lavoratore a richiedere “anche soltanto nei confronti dell’utilizzatore, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo, con effetto dall’inizio della somministrazione”.
La somministrazione illecita e l’appalto illecito sono, chiaramente, infrazioni differenti e punite in forza di diverse previsioni di legge. La somministrazione – e coloro che la praticano abusivamente – ai sensi dell’art. 18, co. 1 e 2, D.lgs. n. 276/2003; l’appalto illecito, ai sensi del co. 5-bis della predetta disposizione.
Come bene viene sottolineato, la circolare in parola tratta, in ogni caso, solo dell’appalto illecito. L’appalto è illecito se risulta “privo dei requisiti di cui all’articolo 29, comma 1” del D.lgs. n. 276/2003 (“il contratto di appalto, stipulato e regolamentato ai sensi dell’articolo 1655 del codice civile, si distingue dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d’impresa”). Benché nei fatti molto spesso paia ben difficile distinguere la mera somministrazione illecita, dissimulata mediante un appalto di servizi, è chiaro che le due figure di illecito non possono dirsi coincidenti. Per esempio, se l’appaltatore non mostra di possedere una propria effettiva indipendenza economica, sebbene, di fatto, gestisca direttamente i propri dipendenti, non vi è motivo di ritenere che si versi in un’ipotesi di somministrazione illecita, essendo illecito solo l’appalto. Diversamente ragionando, si perverrebbe a un’interpretazione abrogatrice di quest’ultima figura. In definitiva, il committente dell’appalto potrebbe essere un utilizzatore materiale e diretto del lavoratore (nel quale caso si avrebbe somministrazione illecita); oppure “solo” un utilizzatore economico del medesimo (per cui si versa nell’appalto illecito).
Ed ecco il punto.
In caso di appalto illecito, oltre alle sanzioni amministrative (50 euro per ogni lavoratore occupato, per giornata, sia nei confronti dell’appaltatore, sia del committente), non risulta per legge essere prevista alcuna altra reazione.
Tanto che la medesima circolare n. 10/2018 espone che “sul piano dei recuperi contributivi e retributivi connessi all’accertamento di un appalto illecito, appare opportuno evidenziare, innanzitutto, che il legislatore … ha lasciato alla libera iniziativa del lavoratore la costituzione del rapporto di lavoro nei confronti dell’effettivo utilizzatore”.
Il fatto dell’illecito appalto, a differenza che in passato, in costanza della Legge n. 1369/1960, non viene oggi inteso dal legislatore di così stringente gravità da comportare un’automatica costituzione del rapporto di lavoro con il dipendente dell’appaltatore.
Correttamente, quindi, in difetto di attivazione del lavoratore, l’INL ci dice che “il provvedimento di diffida accertativa potrà essere adottato esclusivamente nei confronti dello pseudo appaltatore” (suo datore di lavoro effettivo) che avrà versato minore retribuzione. La soluzione è giusta, poiché nel caso, per l’ordinamento, uno solo – fino a sentenza del giudice – è il rapporto di lavoro instaurato: quello con lo pseudo-appaltatore.
Il problema sorge, allora, con quanto afferma in seguito la nota.
Infatti, rispetto a quanto premesso dalla stessa circolare, non sembrerebbe giustificata l’indicazione per cui l’Ente previdenziale potrà recuperare direttamente l’intera contribuzione dal committente, dato che “il rapporto previdenziale intercorrente tra datore di lavoro e Ente previdenziale … non consegue alla stipula di un atto negoziale ed è indifferente alle sue vicende processuali essendo sottratto del tutto alla disponibilità delle parti”.
Appare difficile immaginare che – per il medesimo lavoratore – gli ispettori possano contemporaneamente e legittimamente pretendere, dallo pseudo-appaltatore, di versare l’eventuale retribuzione mancante dovuta dal “datore di lavoro” (con quello speciale ordine di diffida accertativa ex art. 12, D.lgs. n. 124/2004: “il personale ispettivo delle Direzioni del lavoro diffida il datore di lavoro a corrispondere gli importi risultanti dagli accertamenti”), mentre dal committente-utilizzatore, quale “datore di lavoro effettivo”, la contribuzione dovuta.
Chi è, insomma, il vero datore di lavoro in caso di appalto illecito, prima della (solo eventuale) sentenza qualificatoria del giudice del lavoro (e pure, eventualmente, in contrasto con quanto deciso dal Tribunale, a quanto è dato capire: es. l’Inps potrebbe richiedere la contribuzione al committente, anche se il giudice negasse al lavoratore la costituzione del rapporto con esso)?
L’appaltore? Il committente? Entrambi?
La soluzione prospettata – che fa prevedere maggiori imposizioni ispettive, un acuirsi dei contenziosi con l’Inps e pure un viatico per nuove cause di lavoro con le maestranze impiegate nell’appalto – fa tremare.
Del resto, ragionando a favore della soluzione del solo datore di lavoro/appaltatore, né gli Enti previdenziali, né i lavoratori inerti, rimarrebbero privi di tutela in caso di eventuali crediti retributivi e contributivi.
Non solo l’art. 29, co. 2, D.lgs. n. 276/2003 garantisce ampiamente ciascun interessato in via solidale (“il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore, nonchè con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonchè i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto”) e a prescindere dalla finzione di rapporti di lavoro formali e sostanziali. Ma è la stessa Corte Costituzionale che propende per una visione ampia della garanzia solidale dei committenti, comunque qualificati (sentenza n. 254/2017), al fine di evitare il rischio di “meccanismi di decentramento”.
Anche per preservare gli interessi contributivi degli Enti previdenziali, in definitiva, non appare necessario chiamare in causa il committente quale datore di lavoro, se l’appalto è “solamente” illecito.