ABUSO DEI PERMESSI ex art. 33, L. n. 104/1992 e onere della prova

Sabrina Pagani, Consulente del Lavoro in Milano

Il caso oggetto della sentenza di Cassazione 2 novembre 2023, n. 30462 riguarda il licenziamento per giusta causa di un lavoratore dipendente per abuso dei permessi ex art. 33, comma 3, L. n.104/1992. Come noto, l’art. 33, comma 3 prevede il diritto del lavoratore dipendente di fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito, coperto da contribuzione figurativa, per assistere una persona con disabilità in situazione di gravità purché questa non sia ricoverata a tempo pieno, che sia coniuge, parte di un’unione civile, convivente di fatto, parente o affine entro il secondo grado, del lavoratore richiedente. In caso di mancanza o decesso dei genitori o del coniuge o della parte di un’unione civile o del convivente di fatto, ovvero qualora gli stessi siano affetti da patologie invalidanti o abbiano compiuto i sessantacinque anni di età, il diritto è riconosciuto a parenti o affini entro il terzo grado della persona con disabilità in situazione di gravità. Nel caso in cui il dipendente utilizzi tali permessi per scopi differenti da quelli per cui sono stati previsti dalla normativa, ovvero l’assistenza del parente disabile, in base a consolidata giurisprudenza di legittimità, il comportamento viola il principio di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro – che viene indebitamente privato della prestazione del lavoratore – che nei confronti dell’Inps a cui carico è l’onere economico della prestazione assistenziale, integrando la fattispecie di abuso del diritto (cfr. Cass. Civ., Sez. lav., n. 9217 del 6 maggio 2016 e n. 4984 del 4 marzo 2014 nonché Cass. Civ., Sez. lav., n. 23434 del 26 ottobre 2020). Sul piano penale ulteriore giurisprudenza precisa che tale condotta integra gli estremi del delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato, in base all’art. 640 del codice penale. Lo sviamento dell’intervento assistenziale, oltre a gravare sulla collettività, costituirebbe inoltre una strumentalizzazione dello stato di salute di una persona affetta da handicap (cfr. Cass. Sez. pen. 54712 del 1° dicembre 2016 in cui la S.C. ha condannato un lavoratore trovato all’estero in viaggio di piacere nei giorni di permesso). In merito ai controlli sul corretto utilizzo dei permessi da parte del lavoratore, la Corte di Cassazione ha da tempo affermato che il datore di lavoro può legittimamente avvalersi di agenzie investigative private senza incorrere nei divieti previsti dall’art 4 S.L., in quanto tali controlli vengono effettuati al di fuori dell’orario di lavoro, in una situazione di sospensione dell’obbligazione relativa alla prestazione lavorativa (cfr. Cass. Civ., Sez. lav., n. 9749/2016; Cass. Civ., Sez. lav., n.18411/2019), sono destinati ad individuare comportamenti illeciti che esulano dalla normale attività e sono idonei a incidere sul patrimonio aziendale. Non trattandosi di vigilanza sull’attività lavorativa non si pone neppure il tema della violazione dell’art. 3 S.L. Fatta questa premessa di carattere generale, la sentenza in esame si muove tutta sul piano probatorio. Il caso riguarda un lavoratore dipendente che, in corrispondenza con alcune turnazioni di lavoro programmate, richiedeva la fruizione dei permessi ex art. 3, L. n. 104/92 per accudire, secondo quanto emerge dal testo della sentenza, la nonna, che risiedeva assieme al marito – pure disabile – in comune diverso da quello di residenza del lavoratore. A seguito di accertamenti investigativi richiesti dal datore di lavoro, emergeva che durante la fruizione dei citati permessi coincidenti con le fasce orarie dei turni notturni di lavoro, il lavoratore era a casa propria e non presso quella della parente disabile. La pretesa illegittimità del licenziamento veniva rigettata dal Tribunale di Catania che riteneva attendibili le prove documentali prodotte dal datore di lavoro e inattendibili le prove testimoniali addotte dal lavoratore. Nel successivo grado di giudizio, la Corte d’Appello di Catania rigettava l’impugnazione del lavoratore, ritenendo che la prova che durante la fruizione dei permessi il lavoratore era rimasto presso la propria abitazione e non si era recato presso la residenza della persona disabile da assistere fosse sufficiente a dimostrare la mancata prestazione di assistenza al disabile, oggetto della contestazione disciplinare, e sufficiente quindi a giustificare la fondatezza del successivo licenziamento per giusta causa. Avverso la sentenza della Corte d’Appello il lavoratore proponeva ricorso in Cassazione, eccependo la violazione del principio di ripartizione dell’onere probatorio da parte della Corte, per avere attribuito al lavoratore l’onere di provare l’insussistenza della giusta causa di licenziamento.1 Il provvedimento in esame si sofferma in modo particolare sull’esattezza del ragionamento logico-giuridico seguito dalla Corte di Appello di Catania in punto di applicazione del riparto dell’onere probatorio. La Suprema Corte ha ritenuto, infatti, che la Corte d’Appello abbia correttamente ripartito l’onere probatorio verificando in primis se il datore di lavoro avesse assolto correttamente al proprio e concludendo in tal senso sulla base di una molteplicità di elementi, di cui alcuni ritenuti pacifici (la permanenza del lavoratore presso la propria abitazione nei giorni in cui si sarebbe dovuto recare presso l’abitazione della parente disabile) e altri desunti – quali presunzioni semplici – dall’inverosimiglianza dell’impostazione difensiva del lavoratore (che aveva sostenuto che nei giorni di fruizione dei permessi in esame era stata la nonna a recarsi presso la sua abitazione con la madre del lavoratore/figlia della parente disabile), oltre che dall’inammissibilità del permesso qualora insieme al disabile sia presente altra persona idonea a prestare assistenza (la madre del lavoratore appunto, figlia della persona disabile). Secondo la Suprema Corte è stato correttamente verificato se anche il lavoratore avesse adempiuto al proprio onere probatorio, confermando che questi avrebbe dovuto dimostrare l’avvenuta presunzione di assistenza in luogo diverso dall’abitazione della parente disabile. Su tale punto, la Corte precisa che nel caso in esame per legittimare la fruizione dei permessi ex art. 3, co. 3, L. n. 104/92 sarebbe stato onere del lavoratore “dare la prova contraria atta a superare la presunzione della mancata assistenza, ossia dimostrare non solo che il soggetto disabile si trovasse ospite a casa sua, ma pure di aver fornito assistenza, materiale e morale”. In mancanza della prova della diretta assistenza da parte del lavoratore (che non può essere integrata dalla mera ospitalità), la presunzione che l’assistenza poteva essere fornita da altro membro della famiglia confermava l’assenza della condizione per la fruizione dei permessi e quindi per assentarsi dal lavoro: precisa la Corte che “costituirebbe infatti norma contraria alla ratio legis, quella di ritenere che il fruitore dei permessi possa assolvere all’obbligo di assistenza avvalendosi di altro soggetto”. La Cassazione conferma quindi la correttezza del processo logico seguito dalla Corte d’Appello, in quanto “la censura in ordine all’utilizzo o meno del ragionamento presuntivo … deve far emergere l’assoluta contraddittorietà del ragionamento decisorio, restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo (…). A fronte dell’avvenuto adempimento dell’onere probatorio da parte della società, dunque, esattamente la Corte territoriale ha verificato se (…) il lavoratore avesse soddisfatto il proprio, secondo quella logica, sottesa all’art 2697c.c., correttamente applicata e non illegittimamente invertita”. Alla luce di quanto sopra la Cassazione rigetta il ricorso promosso dal lavoratore condannandolo altresì al pagamento delle spese legali del giudizio di legittimità.

1. In particolare, il lavoratore ricorrente lamenta violazione e/o falsa applicazione degli articoli 2697 (Onere della prova: Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda), 2727 (Nozione: Le presunzioni sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato”, 2729 cc (Presunzioni semplici: Le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti. Le presunzioni non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni).


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