Una proposta al mese – IL PATTO DI PROVA DEL DECRETO TRASPARENZA: superare le disparità di trattamento e le discriminazioni

di Alberto Borella, Consulente del lavoro in Chiavenna (So)

E non è necessario perdersi
in astruse strategie,
tu lo sai, può ancora vincere
chi ha il coraggio delle idee.
(R. Zero, “Il coraggio delle idee”)

Lo dico a chiare lettere: non mi convince affatto la nuova disciplina legale del patto di prova introdotta dall’art. 7 del D.lgs. 104 del 27 giugno 2022 che, in modo troppo succinto, così lo disciplina:

Durata massima del periodo di prova 1. Nei casi in cui è previsto il periodo di prova, questo non può essere superiore a sei mesi, salva la durata inferiore prevista dalle disposizioni dei contratti collettivi.

  1. Nel rapporto di lavoro a tempo determinato, il periodo di prova è stabilito in misura proporzionale alla durata del contratto e alle mansioni da svolgere in relazione alla natura dell’impiego. In caso di rinnovo di un contratto di lavoro per lo svolgimento delle stesse mansioni, il rapporto di lavoro non può essere soggetto ad un nuovo periodo di prova.
  2. In caso di sopravvenienza di eventi, quali malattia, infortunio, congedo di maternità o paternità obbligatori, il periodo di prova è prolungato in misura corrispondente alla durata dell’assenza.

Questo articolo è, per buona parte, la pessima trasposizione di quanto previsto dall’art. 8 della direttiva (UE) N. 2019/1152 relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea.

Come si noterà la nuova disciplina della prova si basa su quattro principi:

  1. durata massima del periodo di prova;
  2. riproporzionamento della durata del patto di prova nei contratti a termine;
  3. divieto di reiterazione del patto di prova in caso di riassunzione per le stesse mansioni;
  4. prolungamento del periodo di prova in presenza di sospensione della prestazione. Ognuno di questi presenta delle evidenti criticità, specie in un’ottica di palese violazione del diritto alla parità di trattamento e di divieto di discriminazione.1

LA DURATA MASSIMA DEL PERIODO DI PROVA

La problematica che qui emerge è la mancanza di un periodo minimo di prova garantito ex lege, carenza che consentirà ai vari contratti collettivi di prevedere ancora durate ridicole, anche di pochi giorni. Una cosa che stride con la riconosciuta finalità del patto di prova che una consolidata giurisprudenza individua nella tutela dell’interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro, in quanto diretto ad attuare un esperimento mediante il quale sia il datore di lavoro che il lavoratore possono verificare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e quest’ultimo, a sua volta, valutando l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto (Cass. n. 1099 del 14 gennaio 2022). Anche perché non va dimenticato che durante la prova può essere valutato – se espressamente previsto – non solo la capacità professionale ma anche il comportamento complessivo del lavoratore, quale è desumibile dalla correttezza e dal modo in cui si manifesta la personalità: capacità nel comunicare, entusiasmo nel lavoro, riservatezza, attitudine alla collaborazione, senso di responsabilità, spirito di iniziativa e di adattamento.

Ma soprattutto teniamo presente che la sottoscrizione del patto di prova rappresenta il mezzo con cui il neoassunto può dimostrare al futuro datore di essere lui il candidato migliore per quel posto e di meritarsi un contratto a tempo indeterminato o anche solo di concludere il contratto a termine appena sottoscritto. Rammentiamo infine che è lo stesso Considerando n. 27 della Direttiva europea a ritenere che i periodi di prova dovrebbero pertanto essere di durata ragionevole. Una ragionevolezza che, considerate le richiamate finalità del patto di prova, dovrebbe appunto riguardare sia un termine di durata massima ma, a maggior ragione, anche un termine minimo. È possibile ritenere “ragionevole” una prova di soli 5 giorni lavorativi ove considerassimo che il lavoratore dovrà sfruttare questo periodo per dimostrare non solo la sua capacità professionale ma, come sopra detto, anche le altre sue apprezzabili ed encomiabili qualità personali?

IL RIPROPORZIONAMENTO DEL PERIODO DI PROVA DEI CONTRATTI A TEMPO DETERMINATO

Qui la criticità rilevata è la codificazione del principio che nei contratti a termine deve essere operata una riduzione del periodo di prova in modo proporzionale alla durata del contratto: mi son sempre chiesto per qual motivo un lavoratore assunto con un contratto iniziale di 3 mesi dovrebbe avere, rispetto ad uno assunto per 12 mesi, meno tempo per valutare e farsi valutare, considerata l’aspirazione di tutti e due a concludere quantomeno l’iniziale rapporto di lavoro a termine. Senza contare l’imbarazzante ignoranza matematica (peraltro già emersa nella giurisprudenza di merito italiana) nel non sapere che in una equazione matematica è operazione impossibile trovare l’incognita “x” (durata della prova nel TD) quando uno degli elementi conosciuti (la durata del contratto a TI) è un valore “infinito” (o quantomeno matematicamente non definibile, dato che il rapporto può durare un’intera vita lavorativa). Non scordiamo poi che nella disciplina del contratto a tempo determinato vige, in relazione al trattamento economico e normativo, un principio di non discriminazione del lavoratore assunto con tale tipologia contrattuale rispetto ai lavoratori in forza a tempo indeterminato. Il legislatore se lo deve essere scordato.

IL RIPROPORZIONAMENTO DEL PERIODO DI PROVA NEI CONTRATTI A TEMPO PARZIALE

Anche qui non manca una criticità anche se in termini di mancata previsione: il legislatore europeo, e di conseguenza quello italiano, si dimentica infatti di dare indicazioni circa un eventuale riproporzionamento nei casi di contratti a tempo parziale. Ci si riempie la bocca di concetti quali la parità di trattamento, il divieto di discriminazione e poi si ammette bellamente che due lavoratori assunti il medesimo giorno, presso la stessa azienda, con le medesime mansioni, si vedano proporre la medesima data di scadenza del patto di prova senza che si tenga conto che, lavorando il primo a tempo pieno ed il secondo al 50%, il primo disporrà di un tempo doppio per dimostrare al datore di lavoro di che pasta è fatto. Rasentando praticamente il ridicolo si continua a sostenere che sarebbe proprio in base al principio di non discriminazione che al lavoratore part-time spetterebbe, pur svolgendo un orario di lavoro ridotto, gli stessi diritti previsti per il lavoratore full-time. Chiaro invece che, proprio per il richiamato principio di non discriminazione, è esattamente il contrario. Andrebbe qui magari rammentata la Direttiva europea n. 97/81/CE del Consiglio Europeo del 15 dicembre 1997 relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES ed in particolare la Clausola 4: Principio di non-discriminazione che dispone che Per quanto attiene alle condizioni di impiego, i lavoratori a tempo parziale non devono essere trattati in modo meno favorevole rispetto ai lavoratori a tempo pieno comparabili per il solo motivo di lavorare a tempo parziale, a meno che un trattamento differente sia giustificato da ragioni obiettive.2 Nella fattispecie appare difficile a chi scrive ravvisare ragioni obiettive per cui per il lavoratore part-time abbia meno tempo rispetto ad un lavoratore full-time per valutare – lo abbiamo già evidenziato sopra – l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni, chiamiamole ambientali, di svolgimento del rapporto.

IL DIVIETO DI REITERAZIONE DEL PATTO DI PROVA

Anche nel negare un nuovo periodo di prova nel caso di rinnovo di un contratto di lavoro per lo svolgimento delle stesse mansioni il legislatore comunitario dimostra tutta la sua superficialità non prevedendo alcuna ipotesi derogatoria al principio di non reiterazione della prova. Il lavoratore potrebbe essere riassunto dopo 20 anni dal precedente rapporto che l’espletamento della prova non sarebbe ugualmente ammesso. Non importa se nel frattempo le mansioni hanno avuto uno sviluppo tecnologico enorme (pensiamo ad un addetto paghe o alla contabilità assunto vent’anni prima) o che l’azienda abbia modificato il proprio modo di operare, sia per l’introduzione di nuovi macchinari o di software ma anche per un cambio dirigenziale. Non importa che l’ambiente aziendale, magari in termini di organico o di clientela, sia mutato e quindi l’adattamento caratteriale alla nuova realtà potrebbe essere più difficoltoso. Se uno ha già lavorato anche un solo giorno non potrà esser sottoposto ad alcuna prova. Pensare che ciò aiuti in qualche modo il lavoratore a trovare un lavoro stabile significa non conoscere le dinamiche del mondo del lavoro.

IL PROLUNGAMENTO DEL PERIODO DI PROVA

Anche su questo aspetto il legislatore italiano lascia molto a desiderare. L’art. 7 del D.lgs. n. 104/2022 fa infatti una certa confusione tra ciò che il Considerando n. 28 auspicava ovvero che i periodi di prova dovrebbero poter essere prorogati in misura corrispondente qualora il lavoratore sia stato assente dal lavoro durante il periodo di prova, ad esempio a causa di malattia o congedo, per consentire al datore di lavoro di verificare l’idoneità del lavoratore al compito in questione e l’art. 8 della Direttiva che non indica analiticamente le varie tipologie di assenza ma si limita a suggerire che Qualora il lavoratore sia stato assente dal lavoro durante il periodo di prova, gli Stati membri possono prevedere che il periodo di prova possa essere prorogato in misura corrispondente, in relazione alla durata dell’assenza.

Il legislatore nostrano, evidentemente senza ragionare troppo, aggiunge alla malattia un gruppetto di assenze assimilabili in senso lato alla malattia, quali infortuni, maternità o paternità obbligatori.

Di contro i congedi parentali (quelli facoltativi per capirci), i permessi legge 104, i permessi sindacali, le ferie collettive, i permessi individuali, la donazione sangue, i permessi per lutto, gli scioperi non avrebbero alcuna rilevanza per un eventuale prolungamento del patto di prova. Dobbiamo infine evidenziare come il legislatore non abbia nemmeno preso in considerazione la possibile interruzione dell’espletamento della prova verificatasi nel precedente rapporto, ad esempio causa dimissioni. Nulla prevede di conseguenza in merito ad un eventuale completamento di una prova lasciata a metà ma parla solo di divieto di reiterazione.

LA NOSTRA PROPOSTA

La nuova disciplina non convince soprattutto per quanto riguarda gli obiettivi di parità di trattamento e di superamento di ogni discriminazione.

In quest’ottica si ritiene necessario rimetter mano all’art. 7 del D.lgs. n. 104/2022 quantomeno nei seguenti termini:

1. prevedere una reale durata del patto di prova uguale per tutti diversificata esclusi vamente in funzione del livello di assunzione e quindi a prescindere che si tratti di tempi indeterminati o determinati, part-time verticali, orizzontali o misti.
Per fare questo si dovrebbe trasformare la durata massima della prova da mesi in ore: se pertanto i 6 mesi sono circa 26 settimane e ogni settimana composta (di norma) da 40 ore lavorative, la durata limite della prova potrebbe essere fissata in 1040 ore. Considerando così solo le ore di effettiva prestazione si andrebbe peraltro a superare la evidenziate criticità dell’art. 7 del D.lgs n. 104/2022 che, maldestramente, ha previsto il prolungamento solo per determinate assenze.

2. prevedere un periodo minimo di espletamento della prova per tutti i livelli previsti dalle declaratorie contrattuali.
Questo in considerazione che la prova comprende non solo la valutazione della specifica professionalità richiesta al lavoratore ma anche di un comportamento complessivo che non è riproporzionabile in base alla durata del contratto, del livello o delle mansioni: educazione e rispetto valgono in egual misura per tutti.
La durata minima potrebbe quindi essere fissata in circa un quarto del periodo massimo, diciamo 240 ore (ragionando alla vecchia maniera pari a 6 settimane a tempo pieno) per tutti i lavoratori senza distinzioni tra tempo indeterminato e a termine, tra tempo pieno e tempo parziale. La restante quota di 800 ore andrebbe riproporzionata dai contratti collettivi in base ai livelli dagli stessi previsti secondo una scala parametrale liberamente individuata dalle parti sociali.

3. prevedere la possibilità di reiterazione e di completamento di un periodo di prova già parzialmente espletato.
La questione si pone in presenza di precedenti contratti subordinati, a termine o a tempo indeterminato, con o senza prova, ma anche in somministrazione.
In questi casi volgono le seguenti regole:
a) le parti sono libere di sottoscrivere un patto di prova in assenza di prestazioni lavorative nei 12 mesi precedenti la nuova assunzione (rilevano solo quelle svolte presso lo stesso datore di lavoro).
b) in presenza di attività lavorativa potrà essere previsto il completamento della prova a suo tempo concordata considerandola superata in riferimento alle ore svolte in prova nell’anno precedente.
c) considerare, anche se esclusivamente ai fini della durata complessiva della prova, tutte le “normali” ore di lavoro svolte nei 12 mesi precedenti l’ultima assunzione come una sorta di prova informale parzialmente già svolta, da sommare eventualmente alle formali ore di prova già effettuate. In pratica un correttivo alle regole generali motivato da ragioni di equità verso tutti i lavoratori che, prova o non prova, vantano presso la medesima azienda la stessa anzianità lavorativa. In un certo senso ciò fungerebbe come una sorta di periodo transitorio considerando che, in vigenza delle attuali regole, le parti potrebbero aver rinunciato a sottoscrivere un formale patto in relazione a contratti a termine molto brevi e quindi evidenziarsi delle prestazioni lavorative senza che le parti le abbiano formalmente identificate quale prova. Ed il pensiero va qui all’assurda regola (che con questa nostra proposta si intende superare) del riproporzionamento della durata del patto nei contratti a termine che rende spesso non significativo se non addirittura irrilevante l’espletamento della prova.

1. Si veda anche: A. Borella Il patto di prova del Decreto Trasparenza: irrisolte le vecchie criticità, La circolare di lavoro e previdenza, 35/2022.

 

2. Per un approfondimento si veda A. Borella, Le discriminazioni contrattuali nell’accesso al tempo parziale in questa Rivista, agosto 2022, pag. 47.


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