Torino vs. Londra il lavoro nella gig economy tra autonomia e subordinazione

di Gionata Cavallini, Dottorando di ricerca in diritto del lavoro, Università degli Studi di Milano

1. Premessa

Con un certo ritardo rispetto ad altri paesi, è finalmente arrivata la prima pronuncia italiana relativa alla qualificazione del rapporto dei lavoratori della c.d. gig economy, o economia “dei lavoretti”, con la sentenza relativa allo status dei rider di Foodora, fattorini addetta alla consegna immediata di cibo a domicilio che sempre più spesso può capitare di vedere sfrecciare in bicicletta o motorino per le strade dei centri urbani italiani.

Con sentenza n. 778 del 7 maggio 2018, il Tribunale di Torino, in persona del suo Presidente, ha respinto il ricorso promosso da alcuni rider contro la piattaforma tedesca, con il quale i ricorrenti avevano chiesto l’accertamento del carattere subordinato del loro rapporto di lavoro (a dispetto del formale inquadramento quali collaboratori coordinati e continuativi ex art. 409, n. 3, c.p.c.) e la conseguente illegittimità della loro estromissione dal servizio, avvenuta a seguito del mancato rinnovo dei contratti di collaborazione e dovuta, secondo i ricorrenti, al proprio impegno sindacale nell’ambito delle mobilitazioni balzate all’onore delle cronache nell’autunno del 2016.

2. Subordinazione vs. autonomia: attualità e rilevanza della “grande dicotomia”

Prima di esaminare il percorso argomentativo della decisione torinese, è opportuno premettere che nel nostro ordinamento, come d’altronde in molti altri (europei e non), la qualificazione del rapporto di lavoro rappresenta un passaggio cruciale e ineludibile ai fini dell’individuazione della disciplina protettiva ad esso applicabile. La subordinazione rappresenta la “porta d’accesso” ad una serie di tutele sconosciute al mondo del lavoro autonomo e parasubordinato (dalla regola della retribuzione proporzionata e sufficiente di cui all’art. 36 Cost. alle tutele contro il licenziamento illegittimo) e ciò tanto più oggi che il legislatore, con l’abrogazione della disciplina del lavoro a progetto e la contestuale riconduzione all’area della subordinazione delle «collaborazioni organizzate dal committente» (art. 2, D.lgs. n. 81/2015), ha rafforzato la dicotomia secca lavoro subordinato/lavoro autonomo, abbandonando definitivamente la prospettiva del c.d. tertium genus.

Secondo l’indirizzo interpretativo prevalente in giurisprudenza, l’elemento che contraddistingue il rapporto di lavoro subordinato rispetto a quello di lavoro autonomo è l’etero-direzione, intesa come l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia ed inserimento nell’organizzazione aziendale, mentre altri elementi, quali l’assenza di rischio, la continuità della prestazione, l’osservanza di un orario e la forma della retribuzione assumono natura meramente sussidiaria1.

Anche la qualificazione operata dalle parti (il c.d. nomen iuris) può giocare un ruolo rilevante nel giudizio di accertamento della natura del rapporto, ma solo in concorso con altri validi elementi differenziali o in caso di non concludenza degli altri indici, fermo restando che secondo l’insegnamento della giurisprudenza costituzionale non è consentito alle parti di negare la qualificazione di rapporti di lavoro subordinato a relazioni lavorative che abbiano contenuto e modalità di esecuzione propri del rapporto di lavoro subordinato2.

3. Il caso all’esame del Tribunale di Torino

Tanto premesso in generale quanto ai caratteri della subordinazione nel nostro ordinamento, bisogna ammettere che il caso sottoposto all’attenzione del giudice piemontese non era di agevole risoluzione. Circa lo status dei lavoratori della gig economy la giurisprudenza straniera aveva già messo in guardia come essi «a prima vista, non sembrano granché lavoratori subordinatima neppure lavoratori autonomi»3, avvertendo che tentare di ricondurli univocamente all’una o all’altra delle tradizionali categorie del diritto del lavoro è un po’ come “cercare di incastrare una forma quadrata in due fori rotondi”4.

In effetti, il rapporto di lavoro dei fattorini di Foodora – ma un discorso in gran parte analogo vale per le altre piattaforme del settore (Deliveroo, JustEat, Glovo e UberEats) – presenta alcuni elementi che depongono nel senso della subordinazione e altri che militano nel senso dell’autonomia del rapporto. Da un lato, infatti, i rider di Foodora indossano una divisa, ricevevano (prima del passaggio al cottimo nell’autunno del 2016) un compenso determinato unilateralmente dalla piattaforma (5,60 euro lordi per ora di disponibilità), esercitano la propria attività, spesso su base continuativa, in favore di un’impresa che ne monitora la prestazione controllandone l’adempimento tramite la app, giungendo anche a penalizzare i rider meno attivi. Dall’altro lato, però, i rider sono liberi di proporsi per i vari turni e di candidarsi o meno per una singola corsa, non avendo l’obbligo giuridico di rispondere alla chiamata, possiedono il mezzo che utilizzano per effettuare le consegne, non sono soggetti ad obblighi di esclusiva e possono prestare la propria attività anche in modo estremamente saltuario.

Non a caso, nel pieno del caso Foodora, vi era stato sia chi aveva osservato che «l’azienda… impartisce ordini, impone una divisa, monitora la prestazione, valuta la performance, premia i migliori, rimprovera gli inefficienti, chiude gli account»5, sia chi aveva replicato che, in fondo, «se un fattorino vuole, spegne tutto e arrivederci»6, facoltà preclusa a qualsiasi lavoratore dipendente.

La decisione del Tribunale di Torino

Con una netta presa di posizione, il Tribunale di Torino ha sposato questa seconda prospettiva, negando la ricorrenza dell’elemento della subordinazione sulla base del rilievo essenziale che «il rapporto di lavoro intercorso tra le parti era caratterizzato dal fatto che i ricorrenti non avevano l’obbligo di effettuare la prestazione lavorativa e il datore di lavoro non aveva l’obbligo di riceverla»7.

Per addivenire a tale conclusione, il Tribunale ha in primo luogo esaminato il testo contrattuale, rilevando la presenza di clausole contrattuali, modellate sulla falsariga di quelle che nell’esperienza anglosassone vengono definite independent contractor clauses, che sanciscono il carattere autonomo della relazione negoziale. In particolare, il contratto di collaborazione Foodora prevedeva che «il collaboratore agirà in piena autonomia, senza essere soggetto ad alcun vincolo di subordinazione, potere gerarchico o disciplinare, ovvero a vincoli di presenza o di orario di qualsiasi genere nei confronti della committente» e che il lavoratore «sarà libero di candidarsi per una specifica corsa a seconda delle proprie disponibilità ed esigenze di vita».

Tale ultima precisazione riecheggia immediatamente – e non a caso – l’accesa querelle giurisprudenziale e dottrinale che si era sviluppata a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 in riferimento alla questione della qualificazione del rapporto di lavoro dei pony express, fattorini in motorino muniti di walkie talkie addetti alla consegna di plichi, anch’essi inquadrati come collaboratori autonomi. Dopo qualche tentennamento da parte della giurisprudenza pretorile, propensa a riconoscere la sussistenza della subordinazione anche valorizzando la condizione di dipendenza economica dei lavoratori8, la giurisprudenza successiva si era assestata nel senso che essi dovevano considerarsi lavoratori autonomi, in quanto liberi di decidere se rispondere o meno alla singola chiamata proveniente dalla centrale9.

4.1 Esclusione della subordinazione

A conclusioni analoghe giunge oggi, a distanza di quasi trent’anni, il Giudice torinese, rilevando che ciascun rider poteva dare la propria disponibilità per i vari slot (turni) pubblicati settimanalmente dall’azienda, ma non era obbligato a farlo, così come Foodora poteva accettare o meno la disponibilità dei lavoratori.

Il Tribunale esclude anche che possa configurarsi un potere direttivo di Foodora a partire dal momento in cui i lavoratori cominciano un certo turno di lavoro. Il controllo esercitato dalla piattaforma dal momento dell’attivazione del profilo da parte del lavoratore (comprensivo della possibilità di verificare la posizione del rider mediante geolocalizzazione e della previsione di un tempo massimo entro cui effettuare la consegna) viene ricondotto al concetto di “coordinamento” che caratterizza i rapporti di cui all’art. 409, n. 3, c.p.c., e non già all’esercizio di quella «assidua attività di vigilanza e controllo dell’esecuzione delle prestazioni lavorative», richiesta dalla giurisprudenza di legittimità (per la verità, dal suo orientamento più rigoroso) ai fini della sussistenza dell’elemento dell’etero-direzione.

Allo stesso modo, il Tribunale esclude che i lavoratori fossero sottoposti al potere disciplinare di Foodora, che si sarebbe concretizzato secondo i ricorrenti nel richiamo verbale o nell’esclusione temporanea o definitiva dalla chat aziendale o dai turni di lavoro. Il Tribunale ritiene che tale allegazione sia stata in parte smentita dalle risultanze istruttorie, dalle quali sarebbe emerso che i rider potevano revocare la propria disponibilità utilizzando la funzione c.d. swap e che potevano anche non presentarsi senza comunicazioni di sorta (c.d. no show), e che in ogni caso l’esclusione dalla chat o dai turni non può considerarsi una sanzione disciplinare «perché non priva i lavoratori di un loro diritto: i ricorrenti non avevano infatti diritto né ad essere inseriti nella chat aziendale, né ad essere inseriti nei turni di lavoro»10. Infine, anche la circostanza che Foodora predisponesse una “classifica” per premiare i rider più meritevoli viene considerata «cosa del tutto diversa» dall’esercizio del potere disciplinare.

4.2 Esclusione della «etero-organizzazione» ex art. 2, D.lgs. n. 81/2015

I rider ricorrenti avevano richiesto in via subordinata l’applicazione della disposizione di cui all’art. 2, D.lgs. n.81/2015, a norma della quale «si applica la disciplina del rapporto di lavoro anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro».

La previsione, nell’interpretazione datane dalla dottrina – pure divisa quanto alla natura della norma, se di fattispecie o di disciplina – avrebbe dovuto fungere da “contrappeso” alla contestuale abrogazione della disciplina del lavoro a progetto operata dal D.lgs. n.81/2015, per ricondurre all’area della subordinazione le collaborazioni “non genuine”, appositamente sottratte alla minimale disciplina del lavoro autonomo.

Secondo il Tribunale, tuttavia, se anche nelle intenzioni del legislatore la norma avrebbe dovuto ampliare l’ambito della subordinazione, così non è stato, in quanto essa «non ha un contenuto capace di produrre nuovi effetti giuridici sul piano della disciplina applicabile alle diverse tipologie di rapporti di lavoro»11. Il Giudice ha così sposato quell’interpretazione dottrinale secondo cui l’art. 2, D.lgs. n. 81/2015 sarebbe una «norma apparente»12, con cui il Legislatore si sarebbe limitato a normativizzare indici della subordinazione già consolidati nella giurisprudenza lavoristica. Anzi, ad avviso del Tribunale, la disposizione citata finirebbe per avere addirittura un ambito di applicazione più ristretto di quello dell’art. 2094 c.c., perché richiede che il potere direttivo e organizzativo del datore si estrinsechi anche in riferimento ai tempi e al luogo di lavoro, e non anche soltanto con riferimento a essi.

4.3 Il rigetto delle altre domande

Conseguente al rigetto delle domande tese a conseguire l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato è il rigetto delle altre domande che presupponevano la riqualificazione del rapporto: quella al pagamento delle differenze retributive derivanti dall’inquadramento nel Ccnl Logistica o nel Ccnl Terziario; quella relativa alla nullità, inefficacia e illegittimità del licenziamento e quella del risarcimento del danno per violazione dell’art. 2087 c.c.

Il Tribunale si sofferma invece maggiormente sulla domanda risarcitoria per violazione della normativa in materia di privacy (art. 4,St. lav. e artt. 7, 11 e 171, D.lgs. n. 196/2003). Pur premettendo che trattasi in parte di normativa applicabile al lavoro subordinato, il Giudice tiene comunque a precisare, in primo luogo, che le applicazioni dello smartphone sono da considerarsi «strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione», come tali esclusi dalla disciplina limitativa dei controlli a distanza di cui al novellato art. 4, St. lav., e che comunque l’informativa sul trattamento dei dati personali consegnata ai rider era sufficientemente specifica, con conseguente esclusione della risarcibilità di alcun danno, peraltro non dedotto né provato.

5. La giurisprudenza britannica sullo status degli autisti di Uber

A conclusioni molto diverse da quelle del Tribunale di Torino era pervenuto l’Employment Tribunal di Londra, nella prima decisione europea relativa ai lavoratori della gig economy13 (in particolare, gli autisti di Uber), recentemente confermata dalla Corte d’Appello14. Il Giudice londinese aveva infatti stabilito, con ampia motivazione ricca di richiami a precedenti di common law, ma anche ad opere letterarie, che il livello di controllo esercitato da Uber sui driver era sufficiente a negare la loro condizione formale di independent contractors, dovendosi qualificare gli stessi come workers, ai sensi della sezione 230 (3) (b) dell’Employment Rights Act del 1996, con conseguente diritto al pagamento del minimum wage e di altre tutele lavoristiche quali il riposo settimanale e le ferie retribuite.

Deve essere precisato che quella di worker è una nozione intermedia tra quella di employee (che potremmo tradurre, grosso modo, “lavoratore subordinato”) e quella di independent contractor (che potremmo tradurre “lavoratore autonomo”). Si tratta di una nozione di fonte legislativa, introdotta per mitigare il rigore degli empolyment test sviluppati dalla common law, che comprende i lavoratori che prestano la propria attività in modo esclusivamente personale in favore di una parte terza che non corrisponde al cliente o beneficiario della prestazione. In particolare, per accertare lo status di worker la giurisprudenza britannica verifica il livello di integrazione dell’attività lavorativa con quella del committente, per valutare se si tratta di attività integrate nel ciclo produttivo di quest’ultimo ovvero di operazioni commerciali indipendenti.

Analizzando il funzionamento della piattaforma, il Tribunale ha ravvisato la discrepanza tra i Partner Terms e le concrete modalità di esecuzione del rapporto di lavoro dei driver londinesi, rilevando, in particolare, che una volta che i driver hanno effettuato l’accesso alla app e si sono resi disponibili a effettuare le corse, essi si trovano di fatto vincolati ad accettare almeno l’80% delle corse offerte per non incorrere nella disattivazione temporanea dell’account, la quale viene peraltro espressamente indicata come penalty15.

Nella parte centrale delle motivazioni, poi, vengono rilevate una lunga serie di circostanze che depongono contro il nomen iuris di lavoratori autonomi, quali «il fatto che Uber organizza colloqui e ingaggia i fattorini; il fatto che Uber controlla le informazioni chiave (in particolare, i dettagli del passeggero e dell’itinerario) e non le condivide con il driver; il fatto che Uber richiede ai driver di accettare le corse e/o di non cancellarle e fa rispettare tali richieste disattivando i driver che non le rispettano; il fatto che Uber determina l’itinerario e che il driver se ne può discostare a proprio rischio; il fatto che Uber determina la tariffa e il driver non può pattuire una tariffa maggiore con il passeggero; il fatto che Uber impone numerose condizioni di servizio ai driver, li istruisce sulle modalità lavorative e controlla l’esecuzione della prestazione; il fatto che Uber assoggetta i driver attraverso il sistema di rating che assume caratteri propriamente disciplinari»16.

6 Conclusioni: L’obbligo di disponibilità quale elemento cruciale per la qualificazione dei lavoratori della gig economy

Nonostante le evidenti differenze tra le due piattaforme oggetto delle pronunce cui si è dedicato questo breve commento (Foodora e Uber), le similitudini nel modello di organizzazione del lavoro sono molteplici, e avrebbero forse potuto condurre a esiti giudiziali meno divergenti, al netto delle differenze tra l’ordinamento lavoristico italiano e quello britannico.

Il principale punto di contrasto, ad avviso di chi scrive, inerisce al concetto di “obbligo di disponibilità”: posto che in entrambe le fattispecie esaminate il lavoratore aveva facoltà di decidere se e quando rendersi disponibile a ricevere incarichi – il rider di Foodora inserendosi nei turni di lavoro e quindi attivando la app in una delle zone di partenza previste; il driver di Uber recandosi nel territorio coperto dall’applicazione e effettuando il log-in – la questione sulla quale le due decisioni giungono a conclusioni opposte è quella relativa alla sussistenza o meno di un obbligo di rispondere alla chiamata una volta che il lavoratore si sia “loggato”. Entrambe le piattaforme prevedevano di fatto penalizzazioni di vario tipo per i lavoratori “loggati” che avessero declinato la chiamata, ma solo per il Giudice inglese la circostanza è tale da determinare un obbligo di disponibilità in capo al driver, mentre per il Tribunale di Torino ciò costituirebbe semplicemente espressione del coordinamento del rider con Foodoraè logico che i ricorrenti fossero tenuti a fare le consegne che venivano loro comunicate nelle ore per le quali ricevevano il compenso»17).

Solo il tempo (e l’esito del preannunciato giudizio di appello avverso la decisione torinese) consentiranno di valutare quale delle due soluzioni interpretative finirà per prevalere, in un contesto complesso e frastagliato nel quale da più parti si invoca un salvifico intervento del legislatore.

1 In termini, ex plurimis, la prima sentenza resa quest’anno dalla Sezione Lavoro della S.C., Cass., 2 gennaio 2018, n. 1.

2 Corte cost., 29 marzo 1993, n. 121; Corte cost., 31 marzo 1994, n. 115.

3 U.S. District Court, Northern District of California, 3 marzo 2015, caso n. 13-cv-04065-VC, Cotter et al. vs. Lyft, p. 1.

4 Sentenza in commento, pag. 19.

5 De Stefano V., Aloisi A., Testa bassa e pedalare? No, i lavoratori di Foodora meritano rispetto, linkiesta.it, 11 ottobre 2016, testo reperibile al sito: https://www.linkiesta.it/2016/10/testa-bassa-e-pedalare-no-i-lavoratori-di-foodora-meritano-rispetto/

6 Rociola A., Cosimi S., Se lo chiamate “lavoro” non avete capito cosa è Foodora (né la sharing economy), startupitalia.eu, 12 ottobre 2016, testo reperibile al sito: http://startupitalia.eu/64106-20161012-sciopero-foodora-lavoro-sharing-economy.

7 Trib. Torino, 7 maggio 2018, n. 778, pag. 7.

8 Pret. Milano 20 giugno 1986, RIDL, 1987, II, p. 70, con nota di Ichino P..

9 Cass., 10 luglio 1991, n. 7608, in RIDL, 1992, II, p. 370, con nota di Viganò B. e Cass., 25 gennaio 1993, n. 811, RIDL, 1993, II, p. 425, con nota redazionale, entrambe espressamente richiamate dalla pronuncia torinese in commento.

10 Trib. Torino 7 maggio 2018, n. 778, p. 13.

11 Sentenza in commento, p. 14.

12 Tosi P., L’art. 2, comma 1, d. lgs. n. 81/2015: una norma apparente?, ADL, 2015, n. 6, I, pag. 1117 ss.

13 Employment Tribunal, Central London, 26 ottobre 2016, Caso n. 2202551/2015, Aslam, Farrar et al. vs. Uber et al., in DRI, 2017, n. 2, p. 575 ss., con nota di Cabrelli D..

14 Employment Appeal Tribunal, England and Wales, 10 novembre 2017, Case n. UKEAT/0056/17/DA, Uber et al vs. Aslam, Farrar et al., in RIDL, 2018, n. 1, I, p. 46 ss., con nota di A. Donini.

15 Employment Tribunal, cit., punto 52; Employment Appeal Tribunal, cit., punto 121.

16 Employment Tribunal, cit., punto 92; Employment Appeal Tribunal, cit., punto 70, traduzione di chi scrive.

17 Trib. Torino, cit., pag. 10.