Senza filtro – UN GIUDICE (racconto di fantasia)

di Andrea Asnaghi, Consulente del lavoro in Paderno Dugnano (Mi)

L’ufficio del giudice Andrea Rossi era situato al primo piano della palazzina del tribunale. Anche se nuova e costruita da poco, gli uffici erano piccoli ed essenziali. Il giudice Rossi aveva una particolare predilezione per una sobrietà quasi maniacale, l’ufficio era pertanto spoglio, quasi triste, salvo gli inevitabili faldoni e le carte delle udienze, qualche codice e nulla più. L’unico segno personale era una cornice con la foto dell’amata moglie Graziella, prematuramente mancata, in un mese se l’era portata via uno di quei brutti mali, così brutti che si è sempre refrattari a chiamarli con il nome che hanno. Quella mattina, una mattina umida ed uggiosa, come solo sanno essere certe giornate grigie novembrine a Milano, nell’ufficio del Dott. Rossi, si stava iniziando una causa singolare. Il giovane Bruno Brunelli assistito dall’Avvocato Porfirio Rubicondo e accompagnato dalla madre, avevano fatto causa al noto Liceo Tibiletti rivendicando somme a titolo di rapporto di lavoro più danni da mobbing. A difendere il Liceo era presente un avvocato che aveva già passato la mezza età da un po’, il quale faceva del silenzio e di espressioni fra l’allibito e il patetico le proprie armi migliori contro le pretenziose rivendicazioni di controparte.

L’avvocato Rubicondo, giovane rampante del famoso Studio Associato DDP (Difensori Dei Poveri), noto per il perseguimento, fra le tante, di cause pilota ed impossibili, era agghindato non proprio da tribuno popolare, con un vestitino grigio attillato, di evidente e costoso taglio sartoriale, che rivestiva un corpo magro e stizzoso come l’avvocato, dotato di una voce fastidiosamente stridula e querula e di piccoli scatti nervosi a sottolineare i concetti che riteneva essere più importanti. Anche l’orologio al polso era il controvalore di parecchi stipendi medi, e d’altronde nello Studio non era così ampia la frequentazione verso quella povertà che, forse solo ideologicamente o per vezzo, si pretendeva di difendere. La madre del Brunelli, lo sguardo fra l’avido e l’assatanato, aveva il tono e l’atteggiamento di un tifoso del Barcellona in una finale di Coppa, incitava, interrompeva e sottolineava (mancava solo che fischiasse o che si mettesse a soffiare dentro una vuvuzela). “Vediamo – interloquì il giudice – qui abbiamo una causa un po’ particolare …”. “Nulla di particolare, signor giudice – interruppe subito il baldanzoso avvocato Rubicondo – come vedrà con piena evidenza, qui siamo davanti ad un classico caso di sfruttamento, sfrut-ta-men-to (e va già bene che il ragazzo è maggiorenne) unito ad un atteggiamento persecutorio oltre ogni limite immaginabile”. “Procediamo con ordine, avvocato. Come mai rivendicate un rapporto di lavoro con uno …studente di liceo?”.

“Perché il qui presente Brunelli è stato sottoposto a diversi compiti da collaboratore scolastico, invece che fare il semplice studente!” “Sì ho letto il ricorso, qui si dice che è stato costretto più volte a pulire l’aula, e qualche volta anche i servizi, nonché a riordinare più volte il laboratorio di fisica e a spostare i banchi”. “Esatto! E anche al di fuori dell’orario scolastico, per cui rivendichiamo giustamente anche gli straordinari!”.

“La posizione della scuola – osservò il giudice, l’altro avvocato annuiva – è che queste operazioni, peraltro non quotidiane, corrispondevano a delle mancanze della classe, e del Brunelli in particolare, e che le operazioni in questione entravano in un concetto educativo e di formazione al rispetto…”.

“Tutte scuse signor giudice – interruppe nuovamente l’avvocato – leggiamo cosa dice il contratto collettivo a proposito delle mansioni del collaboratore scolastico (si, insomma, il bidello). Vede ? Riassetto dei luoghi di studio, pulizia straordinaria, spostamento dei banchi e delle masserizie scolastiche, tutte cose a cui il Brunelli è stato illegittimamente adibito!”.

“Hmmm, vedremo … E sul mobbing? Vedo accuse circostanziate”.

“Non v’è chi non veda – il Rubicondo si era improvvisamente avviluppato in una foga oratoria fuori luogo – il disegno persecutorio perpetrato ai danni di questo povero giovane! Bocciato per ben quattro volte…” “Quattro volte, però!… Ma non è per caso che non studiasse?” il giudice tentò di interrompere la filippica, ma l’altro riprese. “… Ed esposto allo scherno ed al ludibrio dei compagni, con nomignoli umilianti! C’è anche la Clinica Faciloni che ha attestato stress psico-fisico e danni alla salute e vita di relazione, con tanto di certificati. E guardi, signor giudice, che il Brunelli, abbandonato disperato il liceo, in una scuola specializzata in soli otto mesi ha recuperato quattro anni raggiungendo la maturità con successo, con spese ingenti della famiglia!” (la madre annuiva con veemenza mugugnando qua e là qualche “già, uno scandalo, un’indecenza!”; solo il ragazzo sembrava avulso da tutto ciò…).

Il giudice aveva letto il ricorso e sapeva che il miracoloso recupero era avvenuto ad opera del noto centro (faceva pubblicità anche in qualche tivù) Successi Subito s.p.a., che a fronte di rette costosissime avrebbe promosso anche il gatto dei vicini con la media dell’otto. Peraltro, il Brunelli era uscito con tutti sei, praticamente con una spinta clamorosa o, come dicono al Bar Sport, con un calcio nel sedere. “Vorrei parlare col ragazzo” – disse il giudice. Bloccò la madre che aveva preso fiato per prendere la parola. “Ho detto col ragazzo, senza interruzioni, se possibile. Dunque vediamo, Bruno, com’è andata la storia dei banchi e delle pulizie ?”

Il ragazzo cominciò timido ed impacciato “Eh.. insomma. Si mi han fatto pulire e spostare i banchi”…

“E come mai?”

“No, niente .. uhmm .. è che … insomma avevamo fatto un po’ di casino per una festa”. “Qui il liceo dice che avevate trasformato più volte l’aula in un porcile, e che avete giocato a pallone nell’aula di fisica rompendo e spostando tutto”.

“Sì ma lui che c’entra? “ sbottò la mamma. “Qui leggo che in ogni… in ogni casino, come dici tu, tu eri sempre nel mezzo, insomma una specie di artefice”.

“Eh uhmm ahhh sì, cioè no, è che .. a me mi piace poco studiare… avrebbi dovuto fare un’altra scuola, ma la mamma insisteva” (la madre fece una smorfia di disapprovazione). “Eh va beh – disse il giudice – ma spiegami: com’è che avevi quattro anche in educazione fisica? Lì non c’è molto da studiare, mi pare “. “Ce l’avevano con lui ! – interloquì la madre, ma il giudice la zittì con lo sguardo.

“Hmmm en… ehm , no, insomma … a me piaceva andare al bar o giocare con lo smartphone, ma il prof ci faceva correre e fare gli esercizi, una noia…”.

“Capisco” – disse il giudice. Ma mentre il giovane balbettava qualcosa, come in un rapido flashback al Rossi tornarono in mente gli anni del suo liceo e mille ricordi lo trasportarono al suo passato.

Tornando di colpo al caso, il giudice volle esplorare anche il resto. “Senti, leggo nel ricorso che qui i compagni ti hanno dato un soprannome”

“Uh .. eh .. ah …uhm sì, mi chiamavano con un brutto nome.” “Vuoi raccontarcelo?”,

“Mi chiamavano …il … il Capra – il ragazzo arrossì –“ per via che non capivo mai quello che spiegavano i prof”.

“Poverino- disse la madre – signor giudice, ma lei ha figli, sa che vuol dire provare pena per loro”?     No il giudice non aveva figli, lui e Graziella li avevano cercati tanto, poi si erano rassegnati, e subito dopo quella malattia che l’aveva portata via in un lampo …

“Ho capito, ma dimmi, c’erano altri soprannomi fra voi ?”

“Eh sì c’era Phantom, lo chiamavamo così perchè non veniva quasi mai a scuola, soffriva di una malattia rara, una malattia automunita”. “Si dice autoimmune” corresse pazientemente, sospirando, il giudice Rossi.

“E poi c’era Chiodino”.

“Chiodino?”

“Eh si, perché è proprio grasso…” – disse il ragazzo con un sogghigno.

Il giudice tirò un profondo sospiro. Chissà se a volte i ragazzi si rendono conto di quel che fanno. O forse in un gruppo di giovani i nomignoli sono un affettuoso segno di riconoscimento e di accoglienza, senza la malizia degli adulti. Che se invece di malizia si doveva proprio parlare, allora il ragazzo, che si lamentava del suo soprannome, ne usava di peggiori per un malato grave e appellava un altro compagno con quello che sarebbe oggi rubricato come body shaming.

“Lasciatemi un attimo, per favore. Uscite tutti, ho bisogno di riflettere”.

“Ma signor giudice – sbottò l’avvocato – non abbiamo ancora parlato del tirocinio!”.

“Va bene, va bene, avvocato, ho letto il ricorso”. Nel ricorso, la solita tiritera dello sfruttamento del tirocinio, che si aggiungeva alle richieste di riconoscimento del rapporto di lavoro. Ed in un’iperbole giuslavoristica, si sproloquiava pure di somministrazione illecita. Il tutto per una settimana di training (sapete, è l’alternanza scuola-lavoro, quella cosa che talvolta ha il sapore dell’improvvisazione ma che di per sé non è inutile, ti insegna alcuni meccanismi di comportamento e come stare al mondo, e iddio sa quanto a volte ce ne sia bisogno) presso una nota catena di paninoteche. Il giudice se lo immaginava, il Capra (ormai lo chiamava così anche lui nei suoi pensieri) a prendere ordinazioni confondendosi, o a pulire i tavoli; o forse, come faceva durante l’educazione fisica, a cercare di imboscarsi non appena poteva; e infatti, il giudizio al termine della settimana era stato “svogliato e disattento”. È che i quattro che prendi nella vita non sono come quelli scolastici, e non c’è nessun diplomificio Successi Subito a regalarti scorciatoie.

O forse no – un latente malessere esistenziale del giudice Andrea Rossi riaffiorò di colpo – forse a quelli come il Capra oggi si aprono strade impensabili un tempo, protagonisti di qualche idiota reality su un’isola strampalata o in mezzo ad una fattoria, e così diventati improvvisamente famosi, e pronti a discettare su tutto e tutti, opinion leader caserecci ed insulsi. O magari, perché no, una bella carriera politica, addirittura conquistando anche un ruolo importante, in quelle liste elettorali sempre più improvvisate e composte da personaggi di basso profilo, magari qualcuno anche volenteroso ma sostanzialmente tutti degli “scappati di casa” senza arte né parte. E non riusciva nemmeno a prendersela più di tanto col Capra, pensava agli altri, agli adulti di contorno, all’ambizioso avvocato Rubicondo, ai leader politici e alle loro liste fumose, alle Cliniche Faciloni ed ai loro giudizi tirati a casaccio (ma col dito maliziosamente puntato, spesso a sproposito), a quelli della Successi Subito s.p.a. maestri delle scorciatoie, all’isterica madre del Capra, al papà del Capra (ecco, dov’era il padre, così da impartire qualche meritato – sempre amorevole, eh – ceffone al figlio e fare da contrappeso all’invadenza petulante e distopica della madre?). Nel riflettere, il peso di un mondo a cui sostanzialmente sentiva di non appartenere più opprimeva le spalle ed il cuore del giudice Rossi. E lo appesantiva il non senso del suo lavoro, il discettare di cause strampalate come quella che si trovava di fronte, e intanto ingiustizie scorrevano nel mondo senza che nessuno le intercettasse.

Anche qualora avesse rigettato le domande attoree, come aveva intenzione di fare, che sarebbe successo se del ricorso si fosse occupato in appello il Carluzzi, quel collega che avrebbe dato un rene, forse anche due, per dar ragione alla cosiddetta parte debole sempre e comunque, a proposto e a sproposito. Perchè poi una sentenza anomala (ah no, ora si dice innovativa) fa sempre rumore, fa sempre curriculum, fa notizia, dà popolarità, ti fa entrare in giri che contano.

E già si immaginava il peggio: dopo il ricorso vinto col concorso del Carluzzi, la subitanea tronfia pubblicazione su qualche social media da parte della DDP: “Una sentenza esemplare, seguita brillantemente per lo Studio dal nostro partner Avv. Rubicondo”… e tutte quelle cose così, false e vacue, di immagine senza sostanza …

Fa niente se non si parla più di giustizia e di obiettività, fa niente se il settore si popola sempre più di persone che parlano di diritti senza avere il minimo concetto del Diritto, quello che una volta insegnavano nelle scuole vere, quello che coniugava equità e buon senso. Al di là della porta la voce stridula e fastidiosa dell’avvocato Rubicondo, che continuava a perorare la causa da solo, sembrava il perfetto contorno a questi pensieri,

Una solitudine opprimente, un senso di vuoto pervadeva da tempo il Rossi, e si ripresentò con veemenza, qualcosa che ti attanaglia lo stomaco e ti allappa la bocca. Il giudice, per cercare un’ispirazione o forse solo una caramella o un biscotto, tirò un cassetto della scrivania.

Maliziosamente, al posto del dolcetto sperato, apparve una rivoltella, un’arma dimenticata lì che il Rossi si era procurato tempo fa per difesa personale quando aveva ricevuto serie minacce per via di alcuni appalti di cui si era occupato (anche quelli, finiti in un nulla di fatto, lungaggini processuali fino in Cassazione mentre i felloni portavano ricchezze e nuove false identità all’estero). Ci sono momenti in cui la lucida follia non lascia più il posto alla poesia, in cui l’oppressione prende il sopravvento sulla speranza, lo sconforto sulla resilienza.

Momenti così… in cui Graziella, la giovinezza gli anni del liceo, gli ideali sembrano così lontani, e il Capra, il Rubicondo, una società senza padri e con madri così strampalate son lì a prendere il posto delle cose buone e giuste. E uno si sente infinitamente distante da tutto ciò, tanto che vorrebbe essere altrove, così altrove che piuttosto… nel nulla.

Lo sparo risuonò secco, amplificato dagli ampli corridoi del tribunale e sorprese i presenti. Tutto sembrò fermarsi per un attimo, lo squittio del Rubicondo, lo scalpiccio veloce degli avvocati e dei segretari, il brusìo di testimoni e imputati in attesa di esser chiamati, e, fuori, lo stridore dei tram sui loro binari, il clangore del traffico, il parlottare frenetico in mille cellulari e tutto il testo.

Ma fu solo per un momento. Quello che servì al giudice Rossi per andarsene dall’ufficio, attraversare di colpo gli astanti allibiti, immergersi nel grigio milanese che, uscito, non gli sembro poi così male. E con un senso di libertà, e la foto di Graziella sotto braccio, si allontanò dirigendosi altrove (forse al mare, dicono).

La pistola ancora fumante per il colpo sparato a salve – un segno di cambiamento, come il botto quando finiscono i fuochi d’artificio – riposava placida su due righe di dimissioni


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