Sentenze

Andrea di Nino, Clarissa Muratori, Stefano Guglielmi, Angela Lavazza, Consulenti del Lavoro in Milano

Patto di prova: requisito di specificità e rinvio alla contrattazione collettiva nel contratto di lavoro

Cass., sez. Lavoro, 14 gennaio 2022, n. 1099

Andrea di Nino, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1099 del 14 gennaio 2022, si è espressa in merito al requisito di specificità del patto di prova e alla sua declinazione nel contratto individuale di lavoro.
In particolare, i fatti di causa hanno visto una lavoratrice agire al fine di ottenere l’accertamento della nullità del patto di prova apposto al contratto di lavoro a tempo determinato intercorso con un datore di lavoro, il quale aveva operato il recesso per mancato superamento della prova stessa. Al contempo, di conseguenza, il lavoratore chiedeva anche la nullità del recesso datoriale e la condanna dell’azienda al risarcimento del danno, commisurato alle retribuzioni che avrebbe percepito fino alla naturale scadenza del rapporto di lavoro. Tale risarcimento del danno avveniva anche in virtù del difficile reperimento di altra occupazione a seguito del recesso, considerato il proprio status di invalidità a 46%.
La sentenza di primo grado accoglieva quanto avanzato dalla lavoratrice e tale pronuncia veniva ribadita in appello.
In particolare, nei due gradi di giudizio veniva accertato il “difetto di specificità del patto di prova nella individuazione delle mansioni di concreta adibizione della lavoratrice”.
Secondo il giudice d’Appello, infatti, il contratto di lavoro stipulato tra le parti non riportava, in concreto,  l’indicazione dei compiti a cui sarebbe stata adibita la lavoratrice. Difatti, il riferimento nel contratto indivivduale alla figura dell’«addetto ai lavori non rientranti nel ciclo produttivo» rendeva “priva di concretezza la indicazione dei compiti ai quali sarebbe stata adibita la lavoratrice”; analogamente, il rinvio operato dal contratto al «livello I 3» del Ccnl applicato “non conferiva specificità alle mansioni da svolgere in ragione del fatto che la previsione collettiva menzionava fra i compiti riconducibili al detto livello «lavori analoghi a lavori di pulizia», senza ulteriore specificazione o esemplificazione”. Infine, aggiuntivo elemento di incertezza in relazione ai compiti oggetto della prova era costituito dalla clausola del contratto individuale secondo cui le mansioni e gli obiettivi assegnati sarebbero stati specificati soltanto in seguito rispetto al momento dell’assunzione.
Avverso la sentenza di appello il datore di lavoro ricorreva in Cassazione, con diversi motivi di ricorso. In particolare, l’azienda riteneva che “la necessità di specificazione delle mansioni di adibizione al fine del patto di prova non esige che queste debbano essere indicate in dettaglio e la relativa identificazione può avvenire anche per mezzo di rinvio per relationem alla declaratoria del contratto collettivo”. A dire del datore di lavoro, infatti, oltre alla
declaratoria generale il Ccnl forniva evidenza dettagliata dei compiti di riferimento del livello a cui la lavoratrice era inquadrata: in dettaglio, la posizione veniva identificata dal Ccnl come correlata a “lavori di trasporto, carico e carico manuali, pulizia e analoghi, anche con mezzi meccanici”. Tanto premesso, il datore di lavoro riteneva idoneo il rinvio operato “per relationem” nel contratto individuale e riferito al Ccnl, così da integrare il requisito della specificità.
Nel proprio ricorso, l’azienda illustrava come la clausola del contratto individuale, secondo cui mansioni ed obiettivi sarebbe stati specificati soltanto in seguito, non si sarebbe prestata ad essere interpretata – come ritenuto dalla Corte
di merito – nel senso del “difetto di specificità delle mansioni sulle quali avrebbe dovuto espletarsi la prova”, bensì come “rinvio a necessarie «microindicazioni» di servizio con le quali la parte datoriale avrebbe provveduto quotidianamente a precisare il contenuto delle mansioni in funzione del concreto espletamento delle stesse”.
Il ricorso della parte datoriale non ha trovato, però, accoglimento presso la Corte di Cassazione: i giudici di legittimità, infatti, hanno evidenziato come la causa del patto di prova debba essere individuata “nella tutela dell’interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro, in quanto diretto ad attuare un esperimento mediante il quale sia il datore di lavoro che il lavoratore possono verificare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e quest’ultimo, a sua volta, valutando l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto”.
La Suprema Corte ha osservato, inoltre, che “l’esigenza di specificità, che nell’ipotesi di lavoratore parzialmente invalido deve essere valutata con particolare rigore […] è funzionale al corretto esperimento del periodo di prova ed alla valutazione del relativo esito che deve essere effettuata in relazione alla prestazione e mansioni di assegnazione quali individuate nel contratto individuale; la specificazione può avvenire […] anche tramite il rinvio per relationem alle declaratorie del contratto collettivo con riferimento all’inquadramento del lavoratore, sempre che il richiamo sia sufficientemente specifico e riferibile alla nozione classificatoria più dettagliata, sicché, se la categoria di un determinato livello accorpi un pluralità di profili, è necessaria l’indicazione del singolo profilo, mentre risulterebbe generica quella della sola categoria”.
Secondo i giudici la sentenza impugnata non escludeva, in astratto, la possibilità di integrare la clausola del contratto individuale per mezzo del rinvio ai contenuti della qualifica e del livello di inquadramento del contratto collettivo corrispondenti a quelli attribuiti alla lavoratrice. In ogni, caso, tale riferimento non vale “in relazione alla fattispecie in esame a conferire specificità al contenuto delle mansioni sulle quali avrebbe dovuto svolgersi la prova”. Ciò in ragione del fatto che “la declaratoria collettiva relativa alla posizione professionale di inquadramento della lavoratrice evocava fra i compiti di possibile adibizione, accanto a quelli di pulizia, lavori agli
stessi «analoghi»”, ampliando dunque in maniera indefinita l’ambito delle mansioni in concreto riconducibili al livello considerato. Il ricorso del datore di lavoro è stato quindi rigettato, non essendo possibile instaurare alcun automatismo tra richiamo alla contrattazione collettiva e valutazione di specificità della clausola di prova.


Mancato rispetto delle norme antinfortunistiche: quando si configura la responsabilità del datore di lavoro

Cass., sez. Penale, 11 gennaio 2022, n. 387

Clarissa Muratori, Consulente del Lavoro in Milano

Con la presente sentenza la Cassazione ribadisce l’importanza del rispetto delle norme antinfortunistiche negli ambienti di lavoro. Il caso verteva sui danni subiti da un lavoratore che utilizzando un macchinario privo di  un sistema automatico di bloccaggio si era procurato delle lesioni personali durante lo svolgimento dell’attività lavorativa.
Il datore di lavoro si difendeva in giudizio affermando che era stata la condotta imprudente del lavoratore a determinare i danni subiti e che quindi la responsabilità del fatto non poteva ricadere sull’azienda.
La Cassazione, nella disamina del caso, ricorda che è compito del datore di lavoro assicurare l’incolumità del personale dipendente nello svolgimento della propria attività lavorativa ivi includendovi anche i casi in cui siano condotte negligenti, imprudenti o prive della necessaria attenzione, purché connesse alla lavorazione svolta, a mettere in pericolo il lavoratore. La normativa antinfortunistica  mira, infatti, tra le altre cose, a salvaguardare
i lavoratori anche da rischi derivanti da azioni improprie, sempre che siano connesse alla lavorazione affidata.
È in linea con tale assunto un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale si può escludere la responsabilità del datore di lavoro solo se la condotta del lavoratore sia stata talmente radicale e lontana da quelle ipotizzabili da configurare un atto ontologicamente lontano e imprevedibile rispetto alla lavorazione svolta. In altre parole, quando il comportamento del lavoratore si ponga al di fuori di ogni controllo ipotizzabile in relazione a quella specifica attività. E tale non può certamente definirsi quel comportamento che seppure imprudente, sia comunque circoscritto e collegato al tipo di mansioni assegnate.
Nel caso di specie non può quindi ammettersi un’interruzione del nesso causale tra condotta ed evento lesivo, configurandosi quindi responsabilità del datore di lavoro per non aver messo in atto tutti gli strumenti necessari a garantire l’incolumità del proprio personale, in particolare l’installazione di un sistema di bloccaggio automatico che permettesse all’operatore imprudente di non ledere la sua persona nello svolgimento del proprio lavoro.


Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Riduzione dei finanziamenti regionali del settore

Cass., sez. Lavoro, 28 dicembre 2021, n. 41732

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano 

La Corte di Appello di Palermo, in riforma della pronuncia emessa dal Tribunale della stessa sede in primo grado, ha dichiarato l’inefficacia del licenziamento orale intimato nei confronti del lavoratore e, per l’effetto, ha condannato il datore di lavoro a riammettere in servizio il dipendente e a risarcire il danno commisurato alle retribuzioni maturate fino all’effettiva reintegrazione.
Il Tribunale aveva ritenuto fondata l’eccezione di decadenza, relativamente all’impugnazione del licenziamento, sollevata dal datore di lavoro riconnettendo efficacia risolutiva alla lettera raccomandata, trasmessa al lavoratore, recante l’intimazione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dovuto alla riduzione dei finanziamenti regionali del  settore, la cui presunzione legale di conoscenza, in virtù dell’attestazione dell’ufficiale notificatore, era tale da superare il disconoscimento della firma operato dal lavoratore.
I giudici di seconde cure, invece, premesso che l’accertamento incidentale avente ad oggetto la querela di falso proposta dal lavoratore aveva escluso che la sottoscrizione fosse opera grafica della stessa, hanno rilevato che la verifica della falsità non era surrogabile dalla presunzione che la lettera fosse entrata comunque nella sfera di conoscenza del destinatario in quanto i familiari, escussi in sede testimoniale, avevano dichiarato di non trovarsi in casa nella giornata della notifica; né hanno ritenuto, quale prova che il lavoratore avesse avuto conoscenza della comunicazione del licenziamento a mezzo sindacato di categoria, non risultando la prova del conferimento di alcun mandato.
Esclusa la fondatezza della eccezione di decadenza, la Corte territoriale ha rilevato che l’allontanamento disposto era da considerarsi un licenziamento orale e, pertanto, dichiarata la sua inefficacia, ha riconosciuto la riammissione in servizio e la tutela risarcitoria, pari a tutte le retribuzioni maturate, dalla messa in mora fino alla effettiva reintegrazione.
Per la cassazione della sentenza di secondo grado ricorre il datore di lavoro. Con un unico articolato motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., 115 e 116 c.p.c., nonché l’omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti (art. 360 co. 1, n. 3 e n. 5 c.p.c.), per avere erroneamente ritenuto la Corte di merito surrogabile la presunzione legale di conoscenza della lettera raccomandata, ex art. 1335 c.c., dall’accertamento della falsità della sottoscrizione apposta sull’avviso di ricevimento: ciò attraverso una interpretazione illogica delle risultanze istruttorie.

Il ricorso non è fondato. Le censure di cui al motivo di impugnazione presentano, infatti, profili di infondatezza e di inammissibilità. È infondata l’asserita violazione dell’art. 1335 c.c. che prevede una presunzione di conoscenza (o meglio di conoscibilità) degli atti negoziali comunque superabile mediante prova contraria, come è stato accertato nella fattispecie in esame, non dando luogo la produzione dell’avviso di ricevimento della racomandata ad una presunzione iurìs et de iure di avvenuta ricezione dell’atto, in quanto è sempre possibile la specifica confutazione
della circostanza e la prova contraria (Cass. n. 13488/2011; Cass. n. 12954/2007). In tema di ricorso per cassazione, una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea  valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come
facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (per tutte Cass. Sez. Un. n. 20867/2020): ipotesi, queste, non ravvisabili nel caso in esame.
Inammissibile è anche la asserita violazione dell’art 2697 c. c. che si ha, tecnicamente, nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era gravata in applicazione di detta  norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, abbia ritenuto erroneamente che la parte onerata avesse assolto tale onere, poiché in questo caso vi è un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. (Cass. n. 17313/2020).
Alla stregua di quanto esposto il ricorso va, pertanto, rigettato.


Stress psico-fisico da superlavoro – È necessario dimostrare la correlazione tra la prestazione di lavoro svolta e la condizione di stress

Cass., sez. Lavoro, 14 gennaio 2022 n.1096

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

Un dipendente comunale, con mansioni di autista di scuolabus, contestualmente ad un incidente stradale occorso mentre era alla guida del pulmino, muore a causa di infarto del miocardio.
Gli eredi propongono ricorso in Cassazione dopo che la Corte di Appello di Lecce aveva rigettato il ricorso per il riconoscimento, in loro favore, della rendita ai superstiti, per il decesso del familiare a seguito di infarto causato dallo stress psico-fisico accumulato negli anni di lavoro in svariate mansioni presso lo stesso Comune.
L’Inail si è opposto con controricorso.
La Corte di Appello aveva escluso, dopo l’istruttoria e la Consulenza medico legale, che l’infarto fosse derivato dallo svolgimento della prestazione lavorativa, anche a seguito della mancata dimostrazione, degli eredi appellati, di prove sui fattori che hanno causato, direttamente o concorso a causare, l’evento mortale.
Nello specifico, mancava ogni allegazione circa l’articolazione dei turni di lavoro, la loro durata e il protrarsi di ore di lavoro straordinario. L’attività svolta dal lavoratore non risultava, per sua natura, correlata a condizioni di stress particolari o che richiedesse lo svolgimento di lavoro straordinario, né ritmi particolarmente usuranti. Peraltro, il medico curante aveva attestato che il lavoratore era esente da patologie.
Pertanto, la Corte di Appello aveva escluso la probabilità che vi fosse un nesso causale tra la morte e la condizione lavorativa, posto che anche la CTU medico legale aveva escluso che, in assenza di prova di uno stato morboso preesistente o di una specifica condizione, si potesse riscontrare un nesso di concause tale da poter confermare la natura professionale dell’evento.
La Suprema Corte afferma che la Corte di Appello ha adeguatamente motivato il rifiuto della richiesta e dichiara inammissibile il ricorso.



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