Sentenze

Clara Rampollo, Luciana Mari, Clarissa Muratori, Margherita Bottino, Angela Lavazza, Stefano Gugliemi, Consulenti del Lavoro in Pavia

Onere della prova in caso di repêchage

Cass., sez. Lavoro, 12 gennaio 2023 n. 749

Clara Rampollo, Consulente del Lavoro in Pavia

La vicenda riguarda un lavoratore licenziato a causa della soppressione del magazzino, al quale era adibito, il quale impugna il licenziamento intimato dall’Istituto sanitario. Si riassume, brevemente, che la Corte d’Appello di Salerno, in sede di reclamo ed in riforma della sentenza del Tribunale della medesima sede, ha dichiarato legittimo il licenziamento intimato il 14.11.2014 in considerazione della sussistenza della ragione organizzativa e della mancanza di residue mansioni ove adibire il lavoratore.

La Corte territoriale – pacifica la soppressione del magazzino – ha ritenuto che il concorso di diversi elementi deponeva per l’insussistenza di posti ove adibire il lavoratore posto che il datore di lavoro aveva dimostrato l’assenza di assunzioni successivamente al licenziamento; il lavoratore non aveva indicato alcun posto di lavoro ove poter essere ricollocato, etc. etc. Il lavoratore propone, avverso tale sentenza, ricorso per cassazione affidato a un motivo; l’Istituto ha depositato controricorso. In particolare, con l’unico motivo il ricorrente denuncia (per violazione degli artt. 3 e 5 della Legge n. 604 del 1966 e 2697 cod.civ. (ex art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c.), che la Corte distrettuale ha erroneamente applicato il criterio della distribuzione dell’onere della prova, addossando al lavoratore la prova inerente all’impossibilità di reimpiego in azienda.      

Il ricorso non è fondato.

Infatti, così quanto riportano gli Ermellini – secondo orientamento oramai consolidato della Corte di Cassazione, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (a seguire GMO), incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell’esistenza del GMO, che include anche l’impossibilità del c.d. repêchage, ossia dell’inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore; incombe sul datore di lavoro l’onere di allegare e dimostrare il fatto che rende legittimo l’esercizio del potere di recesso, ossia l’effettiva sussistenza di una ragione inerente all’attività produttiva, all’organizzazione o al funzionamento dell’azienda nonché l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte;

  • la impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse costituisce elemento che, inespresso a livello normativo, trova giustificazione nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale, che non può essere condizionata da finalità espulsive legate alla persona del lavoratore (Cass., n. 24882 del 2017);
  • circa l’onere di allegazione di posti disponibili per una utile ricollocazione, è stato osservato che esigere che sia il lavoratore licenziato a spiegare dove e come potrebbe essere ricollocato all’interno dell’azienda significa, se non invertire sostanzialmente l’onere della prova (che – invece – la legge n. 604 del 1966, art. 5, pone inequivocabilmente a carico del datore di lavoro), quanto meno divaricare fra loro onere di allegazione e onere probatorio; invece, alla luce dei principi di diritto processuale, onere di allegazione e onere probatorio non possono che incombere sulla medesima parte. Infatti, chi ha l’onere di provare un fatto primario (costitutivo del diritto azionato o impeditivo, modificativo od estintivo dello stesso) ha altresì l’onere della relativa compiuta allegazione; – si aggiunge che, sebbene non sussista un onere del lavoratore di indicare quali siano al momento del recesso i posti esistenti in azienda ai fini del repêchage, ove il lavoratore medesimo non indichi posizioni lavorative alternative oppure indichi le posizioni lavorative a suo avviso disponibili ma queste risultino insussistenti, tale verifica ben può essere utilizzata dal giudice al fine di escludere la possibilità del predetto repêchage; si noti che tali principi operano sul diverso piano della ricostruzione del quadro probatorio.

Tanto premesso, gli Ermellini precisano che il passaggio argomentativo contenuto nella sentenza impugnata in cui si è affermato che spetta al datore di lavoro l’onere di dimostrare l’esistenza di posti di lavoro effettivamente disponibili in cui poter utilmente inserire il lavoratore si colloca nell’alveo del suddetto orientamento interpretativo. Inoltre, così ancora si legge nella sentenza, la Corte territoriale ha ritenuto provata la carenza di posti residuali nei quali adibire il lavoratore, in forza di molteplici elementi probatori (l’Istituto aveva dimostrato, depositando il L.U.L., l’assenza di assunzioni successivamente al licenziamento; il lavoratore non aveva indicato alcun posto di lavoro ove poter essere ricollocato; etc…): l’allegazione del lavoratore è valsa, quindi, a integrare il quadro della prova presuntiva nel quadro complessivo degli elementi acquisiti al processo che la sentenza impugnata, secondo l’accertamento di merito che le era demandato, ha ritenuto utilizzabili per giungere ad escludere, nel giudizio finale e complessivo, la possibilità di ricollocazione del ricorrente in azienda, accertamento in fatto insindacabile in sede di legittimità. In conclusione, il giudizio espresso dal giudice di merito deve essere ritenuto conforme a diritto in quanto condotto nell’ambito della prova presuntiva del fatto negativo acquisibile anche attraverso fatti positivi, tra i quali ben possono essere inclusi i fatti indicati dal lavoratore ed acquisiti al processo. Attenzione: il principio non vale invece ad invertire l’onere della prova di cui ai principi sopra indicati, peraltro espressamente richiamati anche dalla sentenza impugnata.


Licenziamento ritorsivo: onere della prova

Cass., sez. Lavoro, 24 gennaio 2023, n. 2117

Luciana Mari, Consulente del Lavoro in Milano

Con questa sentenza la Suprema Corte è tornata a pronunciarsi sul tema del licenziamento ritorsivo ribadendo il principio, già affermato da numerose pronunce della stessa Corte e della giurisprudenza di merito, per il quale nel caso in cui il lavoratore licenziato, per motivi disciplinari od oggettivi, alleghi la nullità del licenziamento perché ritorsivo, grava sul lavoratore l’onere della prova che l’intento ritorsivo del datore di lavoro sia determinante, cioè tale da costituire l’unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale. La peculiarità della sentenza in commento deriva dal fatto che nel caso sottoposto all’esame della Corte il licenziamento impugnato dal lavoratore era stato intimato dalla società per giustificato motivo oggettivo all’esito della procedura prevista dall’art. 7 della Legge 15 luglio 1966, n. 604, novellato dall’art. 1, co. 40, della L. 28 giugno 2012, n. 92 (c.d. legge Fornero) e il lavoratore aveva addotto, tra l’altro, la ritorsività del recesso proprio per il suo rifiuto di trovare un accordo nell’ambito di tale procedura (oltre che come reazione ad una causa avviata dal lavoratore per il pagamento di differenze retributive). Il Tribunale, in sede sommaria e all’esito dell’opposizione, aveva escluso il carattere ritorsivo del licenziamento e ritenuto sussistente il giustificato motivo oggettivo posto a base dello stesso rappresentato da difficoltà economiche della società. La Corte d’appello, invece, aveva accolto il reclamo del lavoratore, ritenendo il licenziamento ritorsivo in quanto surrettiziamente giustificato da difficoltà economiche che la società non era stata in grado di dimostrare ma, secondo la Corte d’Appello, intimato come reazione al contenzioso avviato dal lavoratore. La società ha impugnato la sentenza evidenziando che il Giudice del reclamo avrebbe erroneamente valorizzato i tempi di avvio della procedura ex art. 7, L. n. 604/66 e quelli di promozione dell’azione giudiziaria da parte del lavoratore, senza considerare che il ricorso del lavoratore era stato notificato alla società solo a procedura di licenziamento già avviata. La Suprema Corte ha cassato la sentenza d’appello evidenziando che “il procedimento per l’intimazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo inizia … con quella manifestazione di volontà, già delineata nei suoi contorni, che è oggetto della comunicazione che deve essere inoltrata alla commissione territoriale per attivare la preventiva procedura di conciliazione ed è a quel momento che deve in primo luogo aversi riferimento per valutare se la scelta datoriale sia improntata o meno ad un intento ritrosivo”. Nel caso in esame, invece la Corte d’Appello non aveva esaminato il contenuto e i tempi della comunicazione di avvio della procedura di conciliazione ex art. 7, L. n. 604/66, ancorché depositata dalla società, comunicazione che, secondo la Corte, può essere decisiva per stabilire “se sussista o meno un nesso di consequenzialità tra la scelta datoriale di procedere al licenziamento – manifestata proprio con tale comunicazione e perfezionatasi con il licenziamento intimato per effetto della mancata conciliazione stragiudiziale – e la successiva e in parte parallela azione giudiziaria intrapresa dal lavoratore”.

In sede di giudizio di rinvio la Corte d’Appello dovrà, dunque, riesaminare la controversia tenendo conto del dato di fatto rappresentato dalla comunicazione di avvio della procedura di licenziamento e della sua incidenza ritrosiva o meno sulla scelta del datore di lavoro verificando, in ogni caso, l’effettività delle ragioni economiche poste a base del recesso che, se dimostrate, escluderebbero il carattere ritorsivo del recesso atteso che, come già evidenziato, l’intento ritorsivo del datore di lavoro – che può essere provato anche mediante presunzioni semplici – deve essere il motivo unico e determinante del recesso.


 L’assoluzione nel procedimento penale non pregiudica il procedimento disciplinare

Cass., sez. Lavoro, 10 gennaio 2023, n. 398

Clarissa Muratori, Consulente del lavoro in Milano

La sentenza in commento si allinea a diverse altre pronunce giudiziali in cui la Corte di Cassazione ribadisce che, in caso di assoluzione del lavoratore in sede penale, il procedimento disciplinare non necessariamente ne subirà pregiudizio.

Se un fatto può non costituire reato in un giudizio penale, questo stesso può ben rappresentare una fattispecie idonea ad integrare un inadempimento sotto il profilo disciplinare, pertanto l’assoluzione del lavoratore in sede penale non determina ipso facto l’annullamento della sanzione disciplinare.

Nel caso specifico un dirigente impugnava il  licenziamento per giusta causa, comminatogli per aver intrattenuto rapporti con persone condannate per reati ai danni della società, ed in particolare chiedeva la condanna del datore di lavoro al pagamento dell’indennità di mancato preavviso e al risarcimento del danno patito, in virtù della sua assoluzione in sede penale.
Risultato soccombente sia in primo che in secondo grado, il lavoratore aveva proposto ricorso per Cassazione sulla base del fatto che penalmente era stato assolto.
La Cassazione nell’avallare la corretta condotta tenuta dai giudici di merito durante i due procedimenti civili che vedevano confermata la sanzione del licenziamento per giusta causa con rigetto delle richieste del dirigente, torna su un aspetto molto rilevante:
in primo luogo i procedimenti penale e civile godono di reciproca autonomia, ma soprattutto è ben possibile che una fattispecie non sia idonea ad integrare un fatto di reato, ma ciononostante rappresenti un fatto perseguibile disciplinarmente.
Secondo la Cassazione il caso era stato correttamente ricostruito ed analizzato dai giudici, anche alla luce di un ulteriore e imprescindibile aspetto in tema di procedimento disciplinare: il vincolo fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore.
Laddove, a fronte di fatti concretamente accertabili e idonei a costituire un illecito disciplinare, si spezzi l’indispensabile vincolo fiduciario tra i soggetti in causa, la circostanza non può certamente essere sottovalutata, potendo portare ad irrogare quella più grave tra le sanzioni previste dal codice disciplinare.
Nel caso oggetto di analisi quindi la sanzione espulsiva deve essere ritenuta legittima.


Licenziamento per GMO con soppressione della posizione lavorativa: tutela reintegratoria 

Cass., sez. Lavoro, 28 dicembre 2022, n. 37949

Margherita Bottino, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte d’Appello di Bologna, in conformità a quanto sancito dal Tribunale della medesima città, ha ritenuto illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo irrogato al lavoratore a seguito di un calo di fatturato nel settore delle vendite.

Contrariamente ai Giudici di prime cure ha però, in parziale accoglimento del reclamo proposto dalla società datrice di lavoro, accordato il rimedio indennitario in luogo della reintegrazione disposta in prima istanza. Secondo la Corte d’Appello, infatti, considerati i margini di equivocità delle risultanze probatorie e la parziale dimostrazione del calo di fatturato, non ricorrendo una ipotesi di manifesta insussistenza del giustificato motivo oggettivo addotto, ha ritenuto non fosse corretto il riconoscimento della tutela reintegratoria di cui all’art. 18, co. 7 e 4 dello Statuto dei lavoratori, in luogo di quella indennitaria prevista dai commi 7 e 5.

Il lavoratore, ritenendo erronea l’interpretazione dell’art.18 ad opera della Corte di merito, in quanto non in linea con i precedenti interventi dalla Corte Costituzionale, decideva di adire il giudizio della Corte Suprema. La Corte di Cassazione riprendendo l’apparato sanzionatorio delineato dall’art. 18 da applicare in caso di accertamento dell’illegittimità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, così come inciso dalle precedenti sentenze della Corte Costituzionale (cfr., C. Cost. n. 59/2021 e n. 125/2022), ha ribadito quanto segue: il giudice, una volta accertata l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ordina – in simmetria col regime dei licenziamenti soggettivi – la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, senza alcuna facoltà di scelta tra tutela ripristinatoria e tutela economica.

Pertanto, in parziale accoglimento del ricorso promosso dalla lavoratrice cassa la sentenza e rimettendo la causa alla Corte d’Appello di Bologna.


La declaratoria di nullità del licenziamento è un fatto autonomo

Cass., sez. Lavoro, 10 gennaio 2023, n. 404

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

La Cassazione si è espressa riguardo al ricorso presentato dal lavoratore licenziato prima del trasferimento dell’azienda. La sentenza impugnata aveva ritenuto che il lavoratore -licenziato dalla società cedente- che aveva contestato il licenziamento nei confronti della stessa società entro il primo termine di 60 giorni, avrebbe dovuto entro il successivo termine di 180 giorni, alternativamente depositare il ricorso oppure promuovere il tentativo di conciliazione nei confronti della stessa società cedente e non nei confronti della società già subentrata nell’azienda e in tutti i rapporti giuridici ex art. 2112 c.c..

I giudici specificano che il licenziamento, quale atto unilaterale recettizio, produce i suoi effetti estintivi nel momento in cui perviene al destinatario. La risoluzione del rapporto di lavoro, se realizzata prima della cessione dell’azienda o di un suo ramo, impedisce di ritenere immediatamente operante il principio di continuazione del rapporto di lavoro con il cessionario, di cui al primo comma dell’art.2112 c.c., che presuppone la vigenza del rapporto di lavoro al momento della cessione d’azienda. La società cedente conserva pertanto il potere di recesso e il trasferimento della società non impedisce il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. In caso di licenziamento ante cessione di azienda, la garanzia offerta dall’art. 2122 c.c. opera nei riguardi di una sentenza di illegittimità del recesso con tutela ripristinatoria. In sintesi, nel caso di un licenziamento intimato anteriormente al trasferimento dell’azienda, la garanzia dell’art. 2112 c.c. opera solo a condizione che vi sia la dichiarazione di nullità o illegittimità del licenziamento, con la conseguenza di ripristino del rapporto di lavoro alle dipendenze della società cedente pertanto, “la declaratoria di nullità del licenziamento o il suo annullamento costituiscono dunque un dato pregiudizievole ed autonomo – sul piano logico e sul piano giuridico – rispetto all’accertamento del trasferimento d’azienda e dei suoi effetti”, con la conseguenza che la contestazione del licenziamento resta sottoposta alle sue proprie regole.

Il ricorso è respinto.


Lavoro ed occupazione: il fenomeno del mobbing

Cass., sez. Lavoro, 3 febbraio 2023, n. 3361

Stefano Gugliemi, Consulente del lavoro in Milano

La lavoratrice ricorreva ai sensi del Decreto Legislativo n. 198 del 2006, articolo 38,
comma 3, chiedendo l’accertamento e la repressione del comportamento asseritamente
discriminatorio tenuto dalla parte datoriale connesso alla disdetta dal contratto di apprendistato professionalizzante intimata dal datore a fronte di circa duecento apprendisti assunti a tempo indeterminato ed alle modalità di svolgimento del periodo di apprendistato-formazione; il fattore di discriminazione era individuato con riferimento alle due gravidanze portate a termine dalla lavoratrice nel corso del rapporto di apprendistato.
Il giudice di primo grado ordinava al datore di cessare il comportamento discriminatorio e di rimuoverne gli effetti reintegrando la lavoratrice nel posto di lavoro precedentemente occupato.
La Corte di Appello ha respinto la originaria domanda per essere gli elementi addotti dalla lavoratrice a sostegno del carattere discriminatorio della condotta del datore privi dei necessari caratteri di precisione e concordanza tali da fondare una presunzione di comportamento discriminatorio superabile solo in presenza di prova negativa offerta dalla parte datoriale.
Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso la lavoratrice.
Occorre muovere dai principi che regolano la materia come ricostruiti dalla giurisprudenza della Corte ed in particolare da Cass. n. 5476/2021, secondo la quale “in tema di comportamenti datoriali discriminatori fondati sul sesso, il Decreto legislativo n. 198 del 2006, articolo 40 stabilisce un’attenuazione del regime probatorio ordinario in favore della parte ricorrente, la quale è tenuta
solo a dimostrare una ingiustificata differenza di trattamento o anche solo una posizione di particolare svantaggio dovute al fattore di rischio tipizzato dalla legge in termini tali da integrare una presunzione di discriminazione, restando, per il resto, a carico del datore di lavoro l’onere di dimostrare le circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta”.
Alla luce di tali indicazioni la lavoratrice era onerata della sola dimostrazione di essere portatrice di un fattore di discriminazione e di avere subito un trattamento svantaggioso in connessione con detto fattore.
In corrispondenza con le richiamate coordinate ermeneutiche la Corte territoriale era quindi tenuta in primo luogo a verificare sulla base di un ragionamento presuntivo la esistenza di un possibile fattore di discriminazione in relazione alla disdetta dal solo contratto di apprendistato (atteso che la Corte di merito ha logicamente congruamente motivato circa la non ravvisabilità di un fattore di discriminazione con riferimento alle ripetute proroghe del periodo di formazione)
ed, in caso di esito positivo, se la parte datoriale avesse assolto al proprio onere di allegare e dimostrare circostanze destinate a superare la presunzione di discriminazione.
Tanto non è in concreto avvenuto.
In base alle considerazioni che precedono, assorbita ogni altra censura, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio per il riesame della concreta fattispecie alla luce delle indicazioni sopra formulate.



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