Sentenze

Stefano Guglielmi, Andrea di Nino, Angela Lavazza, Elena Pellegatta, Clara Rampollo, Consulenti del Lavoro in Milano

Licenziamento per GMO per ragione organizzativa: nesso di causalità intercorrente tra il calo di volume di affari e il licenziamento e nuove assunzioni incoerenti con la contrazione del fatturato

Cass., sez. Lavoro, 12 gennaio 2023, n. 752

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano

Corte di Appello di Potenza, in riforma della sentenza del Tribunale di Matera, ha respinto la domanda di annullamento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato dalla società alla lavoratrice, addetta a mansioni di estetista con orario part time pari a 24 ore settimanali, per esigenza di ridurre i costi di gestione e necessità di procedere alla riorganizzazione dell’azienda.
La Corte, esaminato preliminarmente il profilo della sussistenza di un giustificato motivo oggettivo rispetto alla dedotta ritorsività del recesso, ha ritenuto sussistente la ragione organizzativa addotta dalla società.
Ha aggiunto che la scelta di licenziare la lavoratrice rispetto ad altre lavoratrici, a parità di carichi di famiglia e di qualifica professionale, appariva corretta e rispettosa dei principi di buona fede e  correttezza, a fronte del minor monte ore di lavoro svolto dalla stessa rispetto alle colleghe.
Per la cassazione di tale sentenza la lavoratrice ha proposto ricorso. La società resiste con controricorso.
Il Procuratore generale ha concluso per il rigetto del ricorso.
La Corte distrettuale ha erroneamente valutato la prova documentale consistente nello stato  patrimoniale depositato dalla società  per gli anni 2016 e 2017: il dato da valutare per verificare l’effettiva sopravvenuta congiuntura sfavorevole era, invero, corrispondente alla comparazione degli utili ottenuti
nei due anni (sui quali influiscono i costi affrontati) e non già alla comparazione dei ricavi.
L’assunzione di tre lavoratrici, inoltre, spezza il nesso di causalità tra crisi economica e licenziamento della lavoratrice. Il ricorso è fondato per quanto di ragione.
La ormai consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione ha affermato che, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, è sufficiente, per la legittimità del recesso, che le addotte ragioni  inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, causalmente determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa, non essendo la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro  sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità, in ossequio al disposto dell’art. 41 Cost.; dove, però, il giudice accerti in concreto l’inesistenza della ragione organizzativa o produttiva, il licenziamento risulterà ingiustificato per la mancanza di veridicità o la pretestuosità della causale addotta (Cass., n. 10699 del 2017, Cass., n. 9468 del 2019).
La valutazione del nesso di causalità tra esigenze di riorganizzazione del personale riferibili alla contrazione del fatturato e il licenziamento della lavoratrice non risulta coerente con l’assunzione (aprile 2017) di due lavoratrici (di cui la Corte territoriale non precisa né il tipo di contratto stipulato, né la  qualifica rivestita, né l’orario di lavoro osservato, limitandosi a rilevare che “probabilmente” sostituivano la lavoratrice) avvenuta proprio durante l’anno (2017) che ha presentato il  calo dei ricavi (ossia del volume di affari sviluppato dalla società), assunzioni effettuate a pochi mesi dal rientro della lavoratrice in azienda (settembre 2017) e che hanno inevitabilmente determinato l’incremento dei costi del personale; le gravi lacune di indagine in ordine alla coerenza logica ed al nesso di causalità intercorrente tra l’accertato calo di volume di affari (posto che il riferimento ai ricavi rappresenta, pur sempre, un  indice per valutare l’andamento dell’impresa) e il licenziamento della lavoratrice, a fronte dell’assunzione di due lavoratrici (che, in un contesto di contrazione di attività, ha fatto lievitare i costi del personale) ha compromesso la corretta verifica della sussistenza dei requisiti richiesti dall’art. 3 della Legge n. 604 del 1966 che consentono al datore di lavoro di precedere al recesso.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Salerno, che provvederà altresì alle spese del giudizio di legittimità.


Riconoscimento del danno se la rotazione della CIGS è illegittima

Cass., sez. Lavoro, 16 dicembre 2022, n. 37021

Andrea di Nino, Consulente del Lavoro in Milano

Con l’ordinanza n. 37021 del 16 dicembre  2022, la Corte Suprema di Cassazione ha affermato che spetta il risarcimento del danno al lavoratore quando, in caso di accesso al procedimento di cassa integrazione
guadagni straordinaria (“Cigs”), il datore di lavoro decida discrezionalmente e senza definire i criteri di scelta la sospensione lavorativa senza un’adeguata rotazione.
I fatti di causa hanno visto un datore di lavoro ricorrere in appello dopo che, in primo grado, era stata ritenuta illegittima la sospensione in Cigs a “zero ore” di una lavoratrice.
In tale grado di giudizio, la società datrice di lavoro era stata condannata al pagamento delle differenze retributive dovute alla lavoratrice stessa per i periodi di fruizione della Cigs. Dette differenze consistevano nell’integrazione del trattamento erogato da Inps da parte della società, fino ad arrivare allo stipendio intero che la lavoratrice avrebbe dovuto ricevere se avesse prestato lavoro per tutto il periodo di sospensione a “zero ore”.
Data la conferma, da parte della competente Corte di Appello, della sentenza formatasi in primo grado, il datore di lavoro ricorreva per la sua cassazione attraverso diversi motivi di ricorso. Questi venivano tutti respinti dalla Corte di Cassazione, alla luce delle considerazioni seguenti.
In merito alla prescrizione breve delle somme richieste dal lavoratore, asserita dal datore di lavoro sulla base di quanto previsto dall’articolo 2948 c.c., i giudici di legittimità hanno ritenuto che “per giurisprudenza costante, la richiesta del lavoratore di risarcimento danni per l’illegittima sospensione a seguito di collocamento in C.i.g.s. ha ad oggetto un credito da inadempimento contrattuale (costituito dall’atto di gestione del rapporto non conforme alle regole), soggetto all’ordinaria prescrizione decennale”.
Per quanto riguarda l’avvio stesso dei diversi periodi di Cigs e le motivazioni che lo hanno sorretto, la Cassazione ha osservato come gli accordi che, nel tempo, si sono succeduti propedeuticamente a ciascun avvio facessero riferimento a “esigenze tecnico-organizzative connesse al piano di riorganizzazione ma senza alcuna indicazione dei criteri in base ai quali individuare i singoli soggetti che, in ragione di quelle esigenze, andavano, di volta in volta, sospesi”.
Emergeva, dunque, come il criterio adottato dal datore di lavoro risultasse “totalmente discrezionale, non concordato, non desumibile dal generico richiamo alle esigenze tecnicoproduttive e, per certi aspetti, anche arbitrario”.
In sostanza, il datore di lavoro aveva “autonomamente individuato i lavoratori da sospendere senza aver dovuto rispettare predeterminati criteri che stabilissero le priorità tra i vari parametri considerati – anzianità, carichi, esigenze produttive -, le modalità applicative dei criteri medesimi, la platea dei soggetti interessati in riferimento alle qualifiche possedute e alle concrete mansioni esercitate in funzione degli obiettivi aziendali di risanamento e riorganizzazione”.
Nella sentenza della Suprema Corte viene chiaramente rappresentato come, durante un periodo di riorganizzazione e ristrutturazione aziendale con conseguente ricorso alla Cigs, vengano in capo alla parte datoriale degli specifici obblighi in tema di indicazione e comunicazione agli organismi sindacali dei criteri di scelta del personale soggetto all’integrazione salariale, nei confronti del quale deve essere garantita un’adeguata rotazione. Se ciò non viene fatto o attuato, il provvedimento di Cigs risulta  illegittimo, in quanto al datore di lavoro non è consentita la scelta arbitraria dei lavoratori da sospendere.
Come noto, infatti, i criteri di scelta da considerare sono relativi ad anzianità aziendale, carichi di famiglia ed esigenze organizzative, e gli stessi devono essere parte integrante delle comunicazioni e dell’esame congiunto previsto dalla norma, come disposto dal comma 7 dell’articolo 1 della Legge n. 223/1991, al tempo vigente. Se questi criteri non vengono rispettati o nemmeno definiti da un accordo, il provvedimento di Cigs risulta inevitabilmente illegittimo.
In particolare, secondo gli Ermellini, il lavoratore sospeso senza che il datore di lavoro abbia attuato i criteri previsti dall’accordo sindacale ha diritto a rivendicare la responsabilità risarcitoria del datore di lavoro per l’inadempimento della clausola di “rotazione”.
In questo caso, il datore di lavoro è responsabile secondo il principio della “mora del debitore”, ai sensi dell’art. 1218 c.c., a meno che questi dimostri che ciò non è avvenuto per cause di forza maggiore oppure per questioni organizzative a lui non imputabili.


Verbali di accertamento degli organi ispettivi: sono elemento di prova anche se presentano incolmabili lacune dimostrative

Cass., sez. Lavoro, 14 dicembre 2022, n. 36573

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

Una Srl propone ricorso in Cassazione dopo che la Corte d’Appello di Catanzaro ha riconosciuto fondate le pretese dell’Inps, in relazione ad un verbale ispettivo che accertava un debito contributivo della società pari ad euro 369.519,67.
In Appello la Corte non aveva censurato la decisione del Tribunale anche se tale decisione fosse stata determinata da un verbale che in giudizio non era stato nemmeno prodotto dall’Inps, bensì dalla società stessa e i cui contenuti erano stati ritenuti efficacemente probatori.
La società, nel ricorso in Cassazione, denuncia che il giudice di merito avrebbe attribuito valore di prova legale ad un verbale ispettivo che presentava incolmabili lacune dimostrative e neppure era stato  confermato dall’Inps, che peraltro non si era neppure costituito.
Per la Suprema Corte però, può esserci la violazione dell’articolo 116 c.p.c. solo se il giudice nel valutare la prova o una risultanza probatoria, pretende di attribuire un altro o diverso valore, oppure la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione e il giudice dichiara di valutare la stessa prova secondo il suo “prudente apprezzamento”.
La Suprema Corte conferma quindi che i verbali di accertamento degli organi ispettivi, fanno piena prova, fino a querela di falso, con riguardo ai fatti attestati dal pubblico ufficiale rogante, come avvenuti in sua presenza e conosciuti. Detti verbali costituiscono elemento di prova che il giudice deve valutare in concorso con gli altri elementi e che può disattendere solo in caso di motivata intrinseca inattendibilità o di contrasto con altri elementi acquisiti nel giudizio.
In definitiva, il ricorso è dichiarato inammissibile perché il materiale istruttorio acquisito al giudizio, legittima comunque la pretesa dell’Ente previdenziale, indipendentemente dalla sua provenienza e tenuto conto degli altri documenti prodotti dall’Istituto: copia del libro matricola e scheda anagrafica aziendale.


Omissione dolosa di cautele infortunistiche

Cass., sez. Lavoro, 25 ottobre 2022, n. 40187

Elena Pellegatta, Consulente del Lavoro in Milano

I giudici della Suprema corte di Milano si sono trovate a dirimere i motivi di un ricorso relativo alla sicurezza.
Il ricorrente, nella qualità di datore di lavoro di più società, veniva imputato per non aver adottato cautele antinfortunistiche atte a garantire la sicurezza delle condizioni di lavoro, con riferimento a 14 autisti di più società di cui era amministratore.
In particolare, si contesta all’imprenditore di avere usato una calamita per manomettere i dati del cronotachigrafo, in un periodo dal 2010 al 2013, minacciando il loro licenziamento se si fossero rifiutati. Il giudice di primo grado aveva irrogato, all’esito di rito abbreviato, la pena di un anno e otto mesi di reclusione rigettando le richieste delle parti civili.
In secondo grado, il giudice dell’appello condanna il datore G.P.V., ma gli concede le circostanze attenuanti generiche, rideterminandone la pena irrogata in un anno, un mese e venti giorni di reclusione e concedendo il beneficio della sospensione condizionale della pena subordinata al pagamento degli importi indicati entro tre mesi dall’irrevocabilità della sentenza.
Gli avvocati dell’imprenditore hanno presentato ricorso con alcuni argomenti sostanziali e formali, parzialmente rigettati dagli Ermellini, che ribadiscono infatti che la responsabilità dell’impresa non sia solo “commissiva”, ossia l’imposizione delle calamite, ma anche “omissiva”, evitando il controllo sul funzionamento del cronotachigrafo: il cronotachigrafo è un apparecchio per sua natura destinato alla prevenzione d’infortuni sul lavoro.
Quindi, il datore di lavoro che imponga l’alterazione di un apparecchio avente finalità di prevenzione degli infortuni, risponde del reato di cui all’articolo 437 codice penale, sulla base di numerose sentenze Europee su casi simili.
Tuttavia, a fronte di ampia riflessione condotta dalla Corte, deve essere rilevata l’intervenuta prescrizione del reato continuato ascritto.
Tenuto conto, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 157 e 160 c.p. della pena massima edittale per il reato indicato, e del fatto che esistono plurime cause interruttive del corso della prescrizione, il reato ascritto a G.P.V. è prescritto alla data del 30 novembre 2020, data alla quale deve essere aggiunto il periodo di sospensione del corso della prescrizione di 4 mesi e 30 giorni.
Deriva da quanto sin qui esposto l’annullamento senza rinvio, agli effetti penali, della sentenza  impugnata, posto che il reato continuato ascritto all’imputato è, come detto, estinto per intervenuta prescrizione.


Licenziamento per giustificato motivo e la questione dell’aliunde perceptum

Cass., sez. Lavoro, 28 dicembre 2022, n. 37946

Clara Rampollo, Consulente del Lavoro in Milano

La vicenda trae origine dal licenziamento di una lavoratrice, poi reintregrata nel posto di lavoro con conseguente condanna del datore di lavoro alla corresponsione della retribuzione globale di fatto nel frattempo maturata, oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.

In sede di Appello si registra una sostanziale coincidenza con la posizione espressa dal Tribunale: viene rilevato il difetto delle ragioni addotte dal datore di lavoro per giustificare il recesso e del conseguente nesso di causalità in quanto non è stata ritenuta configurabile la riorganizzazione.

In Cassazione, ove la società datrice di lavoro presenta ricorso (che viene respinto), in sintesi si riportano le seguenti posizioni che meritano di essere messe in rilievo:

– “in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, è sufficiente, per la legittimità del recesso, che le addotte ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette a una migliore efficienza gestionale ovvero a un incremento di redditività, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa: non essendo la scelta imprenditoriale, che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro, sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità, in ossequio al disposto dell’art. 41 Cost. (sul punto la sentenza riprende plurime Cassazioni); sempre che, s’intende, dette ragioni incidano, in termini di causa efficiente, sulla posizione lavorativa ricoperta dal lavoratore licenziato, soltanto così non risultando il recesso pretestuoso.”

Ciò premesso, la Corte di Appello aveva “dato conto della pretestuosità del giustificato motivo oggettivo addotto consistendo in una riduzione della figura del department manager (ovvero del responsabile di reparto) originariamente ricoperta dalla controricorrente, per effetto di una complessiva riorganizzazione aziendale intervenuta a far tempo dal febbraio 2015, ma nel punto vendita di via Borgognona, ove la lavoratrice era stata trasferita sin dall’1 luglio 2014, non era affatto presente la figura del responsabile di reparto – prevedendo l’organico di tale punto vendita esclusivamente la figura del direttore e del vice direttore, nonché di nove assistenti alla vendita. Il giudice di secondo grado ha, quindi, chiarito che la lavoratrice aveva ivi svolto l’attività di addetta alle vendite, con conseguente dequalificazione, aggiungendo che tale circostanza non era stata in alcun modo contestata dalla società, risultando, quindi, pacifica fra le parti ”;

– si riprende, infine, molto brevemente un altro passaggio della sentenza che riguarda il c.d. aliunde perceptum.

Sul punto la Cassazione ricorda che in tema di licenziamento illegittimo, il cd. “aliunde perceptum” non costituisce oggetto di eccezione in senso stretto, pertanto, “allorquando vi sia stata la rituale allegazione dei fatti rilevanti e gli stessi possano ritenersi incontroversi o dimostrati per effetto di mezzi di prova legittimamente disposti, il giudice può trarne d’ufficio (anche nel silenzio della parte interessata e se l’acquisizione possa ricondursi ad un comportamento della controparte) tutte le conseguenze cui essi sono idonei ai fini della quantificazione del danno lamentato dal lavoratore illegittimamente licenziato, nondimeno, gli elementi fattuali posti a fondamento dell’aliunde perceptum devono essere ritualmente allegati dalla parte che lo deduca”.

E nel caso in esame, il datore di lavoro non aveva dedotto o allegato, nella fase sommaria, ovvero in quella di opposizione, fatti o circostanze relativi a presunti redditi percepiti dalla lavoratrice dopo il licenziamento; inoltre, a tale mancata allegazione non possono supplire le istanze istruttorie avanzate dalla società (consistenti nell’interrogatorio formale e nella richiesta di documentazione all’Inps ed alla Agenzia delle Entrate), tenuto conto che le richieste istruttorie possono essere correttamente volte alla sola dimostrazione dei fatti ritualmente indicati ed allegati.


Tra subordinazione e autonomia …l’abito fa il monaco

Cass., sez. Lavoro, ordinanza 30 dicembre 2022, n. 38182

L’art. 2094 c.c. è come un abito su misura e nei dettagli risiede l’individualizzazione di uno status: con l’ordinanza n. 38182 del 30/12/2022 viene rigettato il ricorso presentato dalla ricorrente avente ad oggetto la riqualificazione in via giudiziale di un rapporto di lavoro autonomo in lavoro subordinato e la conseguente inefficacia del licenziamento orale intimato. In particolare, lo si anticipa, il ricorso viene rigettato in quanto lo stesso contiene censure che non riguardano la determinazione dei criteri generali e astratti da applicare al caso concreto, ma investono unicamente la valutazione delle risultanze processuali, attraverso ampi riferimenti alle prove testimoniali e non possono trovare ingresso in sede di legittimità. Gli elementi indiziari, così continua la Corte, evidenziati nel motivo di ricorso non sono astrattamente incompatibili con forme di lavoro diverse da quello descritto dall’art. 2094 c.c., come il lavoro accessorio, di cui agli artt. 48 e ss. D.lgs. n. 81 del 2015, nel testo ratione temporis applicabile.
Tanto premesso, l’ordinanza merita di essere annotata per aver sottolineato che l’art. 2094 c.c. individua gli elementi necessari per definire il concetto di subordinazione tra le parti, in cui un soggetto  lavoratore) presta la sua forza psico fisica ad un altro soggetto (datore di lavoro) a fronte di una controprestazione in denaro e/o in natura.
L’attività del lavoratore è parte integrante della struttura e del buon funzionamento dell’attività imprenditoriale del datore di lavoro, non un mero risultato di essa, come sottolineato dagli stessi Giudici. Tale assoggettamento, così sempre la Corte, non costituisce un dato di fatto elementare
quanto piuttosto una modalità di essere del rapporto potenzialmente desumibile da un complesso di circostanze. E ove tale modalità di essere non sia agevolmente apprezzabile, è possibile fare riferimento, ai fini qualificatori, ad altri elementi (come, ad esempio, la continuità della prestazione, il rispetto di un orario predeterminato, la percezione a cadenze fisse di un compenso prestabilito, l’assenza in capo al lavoratore di rischio e di una seppur minima struttura imprenditoriale),
che hanno carattere sussidiario e funzione meramente indiziaria (sul punto l’ordinanza rimanda a plurime Cassazioni). Questi elementi, lungi dall’assumere valore decisivo ai fini della qualificazione giuridica del rapporto, costituiscono indizi idonei ad integrare una prova presuntiva della subordinazione, a condizione che essi siano fatti oggetto di una valutazione complessiva e globale,
così conclude la Corte.



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