OBBLIGO DI REPÊCHAGE: passato, presente e futuro. Parte I

di Emilia Scalise, Consulente del lavoro in Milano

 

Sicuramente a tutti o (quasi) è capitato di doversi cimentare in un licenziamento per giustificato motivo oggettivo e a dover spiegare al proprio cliente che tale tipologia di licenziamento si identifica in “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di esso” e che, per essere legittimo, necessita la presenza di un nesso di causalità tra il motivo addotto al licenziamento e la soppressione del posto di lavoro, nonché l’assenza di altra posizione presente (o aperta) nella quale ricollocare il lavoratore interessato al licenziamento. Proprio perché è prassi (spero non comune) nel nostro lavoro, il presente contributo ha quale finalità di ripercorrere le varie tappe temporali che hanno dato origine all’obbligo di repêchage, onere di matrice giurisprudenziale, che trae fondamento nell’istituto del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Al fine di una migliore trattazione dell’argomento, il presente contributo sarà suddiviso in due parti. La prima parte, riportata nel presente numero, apre le danze con la storia che ha dato origine all’obbligo di repêchage, partendo dai primordiali accordi interconfederali del 1950 e del 1965, in tema di licenziamenti individuali nel settore industriale, per poi sviluppare la disciplina derivante dalla Legge 15 luglio 1966, n. 604, e, infine, approfondire i successivi orientamenti giurisprudenziali e dottrinali, che ne hanno fornito la definizione nonché delineato l’ambito di applicazione. La seconda parte, che sarà disponibile nel prossimo numero, vuole approfondire la relazione sempre più forte che si è creata negli anni tra l’obbligo di repêchage e lo ius variandi, che ha determinato un’estensione dell’obbligo di ricollocazione anche verso mansioni inferiori a quelle svolte dal lavoratore licenziato, nonché porre i riflettori sul nuovo orientamento giurisprudenziale della Corte Costituzionale in tema di violazione dell’obbligo di repêchage.

 Non resta che augurare buona lettura.

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OBBLIGO DI REPÊCHAGE: UN TUFFO NEL PASSATO

Inizierei questo percorso partendo proprio dal tema della risoluzione del rapporto di lavoro. Tutto ebbe inizio nel 1942 quando il Legislatore, attraverso il Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 262 (meglio noto come Codice civile), elaborò il concetto di “libera recedibilità” o, utilizzando un’espressione latina, il c.d. recesso “ad nutum”.

In particolare, l’art. 2118 c.c., al primo comma, stabilisce che “Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando il preavviso nel termine e nei modi stabiliti dalle norme corporative, dagli usi o secondo equità”. Segue poi l’art. 2119 c.c., il quale prevede che “Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”. Alla luce della disciplina contenuta nel Codice civile, appare chiara quale fosse la volontà iniziale del Legislatore del 1942: lasciare libera recedibilità in capo alle parti, senza alcun obbligo di mutuo consenso1.

Questa concezione di piena libertà trovò fondamento in quella che era la concezione predominante dell’epoca storica in cui risale il Codice civile: parliamo di una concezione di  matrice puramente liberista che nell’art. 2118 c.c. ha trovato fondamento normativo. Tuttavia, l’opinione di quel tempo iniziò pian piano a cambiare.

Le forze socialiste e le forze popolari ispirate alla morale cristiana iniziarono a delineare nuovi diritti, anche in virtù dei principi di matrice codicistica della c.d. correttezza e reciproca lealtà, che trovarono immediatamente fondamento normativo proprio nella Costituzione entrata in vigore nel 1948: parliamo, infatti, dell’art. 41 della Costituzione, relativo alla c.d. libertà di impresa, e agli artt. 1 e 4 della Costituzione, i quali rispettivamente stabiliscono che “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” e che “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.

Orbene, appare evidente che, al fine di garantire e tutelare questi nuovi principi costituzionali, non fosse più sufficiente la disciplina contenuta nel Codice civile in materia di risoluzione del rapporto di lavoro e che, quindi, fosse necessario un intervento legislativo più pregnante a livello normativo.

Anzitutto, le prime pressioni arrivarono proprio dai lavoratori attraverso le loro organizzazioni sindacali che mediante accordi sindacali a livello interconfederale delinearono le fondamenta sul concetto di licenziamento individuale e tutele dei lavoratori. In data 18 ottobre 1950 venne infatti sottoscritto il primo accordo interconfederale sui licenziamenti individuali. Tale accordo attribuiva quale diritto al lavoratore licenziato di richiedere un tentativo conciliativo al Collegio di Conciliazioni ed Arbitrato, qualora lo stesso ritenesse il licenziamento addotto ingiustificato. In particolare, l’art. 1 di tale accordo2 aveva sottratto al datore di lavoro il ruolo di interprete inappellabile delle esigenze aziendali: il licenziamento per ragioni oggettive era legittimo solo se fossero stati adeguatamente contemperati gli interessi dell’impresa e gli interessi dei lavoratori. L’accordo interconfederale del 18 ottobre 1950 rappresentò quindi il primo tentativo di limitare la libertà del datore di lavoro di recedere dal rapporto di lavoro: poiché non individuava i presupposti in presenza dei quali il datore di lavoro poteva recedere, l’accordo rimetteva la valutazione dei singoli casi concreti al giudizio equitativo di tali collegi, sulla base dei principi contenuti nell’art. 13 dell’Accordo stesso. Secondo la disciplina dettata da tale accordo interconfederale, non era quindi sufficiente che il datore di lavoro dimostrasse l’effettiva sussistenza della ragione addotta a fondamento del recesso, ma doveva provare “l’impossibilità di una utilizzazione del lavoratore in altri servizi nell’ambito dell’azienda” 4.

Un secondo accordo interconfederale fu poi sottoscritto in data 29 aprile 1965. Questo accordo, oltre a prevedere lo stesso diritto di tentativo conciliativo di cui all’accordo interconfederale precedente, introdusse tre nuovi concetti: la forma scritta del licenziamento, l’obbligo di motivazione e l’onere della prova sulla sussistenza del motivo oggetto di licenziamento in capo al datore di lavoro. Il repêchage fece, quindi, la sua prima indiretta apparizione attraverso questi due accordi interconfederali applicabili, però, solo al settore industriale.

È proprio sulla falsa riga di questi due accordi interconfederali che il Legislatore decise di intervenire nuovamente: in data 15 luglio 1966 entrò così in vigore la Legge n. 604 rubricata “Norme sui licenziamenti individuali”.

Non c’è molto da aggiungere su tale norma. È già a noi tutti noto che si tratta di una disposizione normativa che in prima battuta delimita la libertà di recedibilità (aggiungerei datoriale) sancita dal Codice civile: ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 1, infatti, il licenziamento del prestatore di lavoro può avvenire solo o per giusta causa o per giustificato motivo (oggettivo o soggettivo)5. Direi che ai fini della nostra trattazione, occorre soffermarci solo sul giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

Anzitutto è opportuno precisare che già le prime pronunce immediatamente successive all’emanazione della Legge n. 604/1966 valorizzarono il nuovo bilanciamento di interessi rinnovato dal Legislatore6: si affermò che la ragione addotta a fondamento del recesso doveva essere “idonea” a giustificarlo o che doveva esistere un rapporto di adeguatezza tra la misura del licenziamento e l’esigenza aziendale che lo aveva determinato. Non solo, i giudici di merito, proseguendo su questo primo filone giurisprudenziale, già nei primi anni ’70 iniziarono a parlare di ripescaggio seppur la Legge n. 604/1966 non facesse alcun accenno diretto all’obbligo di repêchage: “Perché la riduzione del personale giustifichi, ai sensi della Legge 604/1966, il licenziamento individuale del lavoratore, non basta che la riduzione sia imposta da esigenze di ristrutturazione dell’azienda, ma deve il datore di lavoro provare di non essere in grado di utilizzare, magari adibendo a diverse mansioni, il lavoratore, destinato al licenziamento7”. Nacque così la tesi secondo cui la giustificazione del licenziamento sarebbe stata condizionata alla prova dell’assoluta inutilizzabilità del lavoratore anche in altre mansioni8. In particolare, andò a consolidarsi l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il repêchage non solo identificava lo strumento del licenziamento come l’“extrema ratio” a cui il datore di lavoro doveva ricorrere nel caso in cui venisse meno una determinata posizione di lavoro9, ma che tale obbligo si configurasse anche in ragione dell’art. 2103 c.c. rubricato “Prestazione del lavoro”, qualora in azienda fossero presenti mansioni che il datore di lavoro potesse esigere dal lavoratore.

Sulla spinta giurisprudenziale del licenziamento come “extrema ratio”, il Legislatore intervenne nuovamente, qualche anno dopo l’entrata in vigore della Legge n. 604/1966.

Con la Legge 20 maggio 1970, n. 300 (meglio noto come lo Statuto dei Lavoratori), venne introdotto l’art. 18 che, nella sua precedente formulazione (ossia prima dell’intervento della Riforma Fornero), non lasciava alcun dubbio interpretativo: una volta accertata l’illegittimità del licenziamento per carenza del motivo addotto ovvero anche per mancato rispetto dell’obbligo di ricollocare il lavoratore presso altro settore o reparto, il giudice non aveva altra soluzione se non condannare il datore di lavoro alla reintegrazione 10. A fronte di una consolidata giurisprudenza di merito e di legittimità formatasi nel tempo, nonché alla luce di quest’ultimo intervento normativo, tra gli elementi che il giudice era chiamato a valutare, pertanto, si era andato a inserire anche la questione della ricollocazione del lavoratore, posto che, nel caso di illegittimità, la conseguenza era una e una soltanto: la reintegra.

La situazione, però, in parte cambiò nel 2012, con riferimento alle conseguenze derivanti dal licenziamento, quando il Legislatore andò a diversificare gli effetti a seconda del vizio pendente sul provvedimento datoriale. Con la Riforma Fornero11 il Legislatore, infatti, modulò la sanzione applicabile in caso di vizio del licenziamento, nel senso di prevedere la reintegra solo nel caso di nullità del licenziamento perché discriminatorio o perché determinato da motivo illecito, mentre negli altri casi la tutela applicata è rimasta di natura meramente risarcitoria. Lo scenario delineato dalla Riforma Fornero, in materia di tutele in caso di licenziamento, subisce nuovamente un mutamento con l’entrata in vigore del Jobs Act12, il quale fece venir meno ogni distinzione in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dichiarato illegittimo, in termini di tutela applicata: trova applicazione solo la tutela di natura meramente risarcitoria.

In ogni caso, con riferimento ai riflessi sull’obbligo di repêchage, il filone giurisprudenziale rimase pressoché invariato: si è continuato a ricondurre tale obbligo nella teoria dell’“extrema ratio” del licenziamento.

La giurisprudenza prevalente, infatti, continuò comunque a sostenere che la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo presuppone, da un lato, l’esigenza di soppressione di un posto di lavoro, dall’altro l’impossibilità di diversa collocazione del lavoratore licenziato, considerate anche la sua professionalità raggiunta, in altra posizione lavorativa analoga (o inferiore) a quella soppressa13.

Occorre però precisare che i giudici di merito delimitarono in parte tale onere in ragione di un principio di ragionevolezza: “la ragionevolezza dell’operazione non deve comportare rilevanti modifiche organizzative ovvero ampliamenti di organico o innovazioni strutturali non volute dall’imprenditore”14.

In concreto, la giurisprudenza riconosce che la tutela del posto di lavoro non può arrivare fino al punto di chiedere al datore di lavoro uno sforzo irragionevole, che possa comportare un’alterazione dell’organizzazione aziendale o oneri economici e organizzativi eccessivi.

DEFINIZIONE E AMBITO DI APPLICAZIONE DELL’OBBLIGO DI REPÊCHAGE

Possiamo quindi definire l’obbligo di repêchage come un onere in capo al datore di lavoro, che intenda procedere con un licenziamento per giustificato motivo, di verificare la possibilità di adibire il prestatore a diverse mansioni, senza che ciò comporti alterazioni della struttura organizzativa15.

Sul datore di lavoro, quindi, non incombe solo l’obbligo di dimostrare il nesso causale tra il licenziamento individuale e le effettive esigenze di carattere produttivo e organizzativo, ma soggiace anche quello di provare l’impossibilità di adibire il lavoratore ad altre posizioni lavorative presenti nell’organizzazione aziendale16.

Al fine di bilanciare gli interessi costituzionali contrapposti (da un lato la libertà di iniziativa economica e dall’altra la tutela al lavoro), la giurisprudenza, nel corso della sua evoluzione, ha fondato la legittimità del giustificato motivo oggettivo di licenziamento principalmente su tre pilastri: la non presuntuosità delle ragioni addotte; l’esistenza di un nesso causale tra le ragioni addotte e il licenziamento intimato; l’impossibilità di ricollocare il lavoratore in altra posizione all’interno della struttura organizzativa.

Nonostante l’obbligo di repêchage risulti essere di utilizzo costante nella fase di valutazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il suo presupposto giuridico, invece, appare essere ancora poco chiaro. Nel delineare l’obbligo di repêchage, infatti, la giurisprudenza è stata ripetutamente chiamata a definirne anche i limiti17.

Tra i principali limiti dell’obbligo di repêchage, è indubbia la tesi secondo cui il datore di lavoro non è tenuto ad alcuna variazione della propria struttura organizzativa al fine di ricollocare il dipendente licenziato. La verifica dell’avvenuto adempimento dell’obbligo di repêchage si svolge avendo a riguardo all’organizzazione datoriale come articolata al tempo stesso del licenziamento18. Lo abbiamo detto prima: il datore di lavoro, infatti, non è in alcun modo tenuto a modificare l’organizzazione per creare ex novo un posto di lavoro in cui collocare il lavoratore in esubero19. Circa, invece, l’ambito di applicazione, opinione consolidata è che il tentativo di repêchage debba avvenire nell’ambito dell’intero complesso aziendale e non soltanto nell’unità produttiva dove il lavoratore è impiegato20. La dottrina prevalente, infatti, sostiene che, per quanto concerne l’ambito di riferimento dell’obbligo di ricollocazione, è ormai pacifico che debba essere presa in considerazione l’organizzazione aziendale nella sua totalità e non solo l’articolazione, il reparto, l’ufficio o la sede in cui il lavoratore era precedentemente impiegato21. Inoltre, parte della giurisprudenza ha dato rilievo anche al fenomeno dei gruppi o del collegamento societario, ma sempre nell’ipotesi in cui si ravvisi che l’articolazione in una pluralità di soggetti giuridici sia prestabilita allo scopo di eludere l’applicazione di norme imperative o in frode alla legge22. Non solo, secondo dottrina e giurisprudenza prevalente, l’obbligo di repêchage deve estendersi anche alle altre società facenti parte del medesimo gruppo imprenditoriale, quando si dimostri la sussistenza di un unico centro di imputazione dei rapporti giuridici23 valutando anche le sedi all’estero24, fino a estendersi alla sussistenza della codatorialità: “non è sufficiente il collegamento economico e funzionale tra imprese rispetto al repêchage, essendo necessario che ricorra la figura della c.d. codatorialità secondo i canoni identificativi individuati dalla giurisprudenza di legittimità” 25.

Inoltre, sempre nell’ottica di delineare l’ambito di applicazione dell’obbligo di repêchage, occorre precisare che la giurisprudenza ha sostenuto la tesi secondo cui tale onere non opera nei confronti di tutti i lavoratori subordinati: ne sono infatti esclusi i dirigenti, in quanto, imporre tale obbligo in capo al datore di lavoro risulta essere incompatibile con la posizione dirigenziale in riferimento alla quale è previsto un regime di libera recedibilità26. Pertanto, stante la particolare posizione del lavoratore che ricopre la qualifica di dirigente, il quale non è assistito delle stesse tutele previste, in caso di licenziamento, per le altre categorie contrattuali (operai, impiegati e quadri), la giurisprudenza ha elaborato il principio secondo cui l’obbligo di repêchage non trova applicazione in caso di recesso datoriale nei confronti del dirigente, alla luce del principio di libera recedibilità che caratterizza tale categoria di prestatore di lavoro.

In ogni caso, uno degli indizi di cui si avvale la giurisprudenza per confermare l’adempimento dell’obbligo di repêchage è quello di verificare, non solo la possibilità di assegnazioni ad altre posizioni già presenti in azienda all’atto del licenziamento, ma anche l’inesistenza di assunzioni successive in posizioni organizzative equiparabili a quelle precedentemente occupate dal lavoratore licenziato. Questo elemento è considerato indicativo del fatto che il dipendente espulso non avrebbe potuto continuare a collaborare proficuamente e utilmente all’interno dell’impresa: “si potrebbe osservare come l’eventuale nuova assunzione possa essere valutata dal giudice quale elemento sintomatico dell’insussistenza ab origine dele ragioni addotte a giustificazione del recesso” 27. Si precisa, a tal proposito, che il lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo gode di un diritto  di precedenza su future assunzioni, definito proprio dalla legge: “I lavoratori licenziati da un’azienda per riduzione di personale hanno la precedenza nella riassunzione presso la medesima azienda entro sei mesi” 28.

Da ultimo, è opportuno ricordare che, in molte altre decisioni di merito, sono poi emersi profili riconducibili all’ambito del repêchage con riferimento alle mansioni da considerare al fine di verificarne la fattibilità o meno. All’impostazione tradizionale, che portava a circoscrivere la ricerca di un’alternativa al licenziamento per giustificato motivo oggettivo alle mansioni c.d. equivalenti, si sono affiancate decisioni che hanno mostrato particolare interesse alla conservazione del posto di lavoro, ritenendo opportuno che il datore di lavoro offrisse al lavoratore, laddove disponibili, anche mansioni inferiori, rientranti nel bagaglio professionale del lavoratore e compatibilmente con l’organizzazione aziendale29 . In particolare, si richiama la sentenza della Cassazione, Sezione lavoro, del 9 novembre 2016, n. 22798 che, alla stregua di precedenti pronunce di merito, ha affermato quanto segue: “il mezzo di gravame fondato sull’assunto, errato in diritto, secondo cui l’obbligo di repêchage non si estenda anche alle mansioni inferiore a quelle del lavoratore licenziato, non può che essere respinto, atteso che, come riportato nello storico della lite, il lavoratore aveva segnalato […] la mancata offerta datoriale di compiti equivalenti o anche di livello inferiore e che, nel corso del giudizio medesimo, tali fatti avevano trovato conferma, conclamando la violazione dell’obbligo di repêchage”.

ONERE PROBATORIO NELL’OBBLIGO DI REPÊCHAGE

A chiusura del presente contributo, appare opportuno accennare un altro tema legato all’obbligo di repêchage ossia l’onere della prova. Se è indubbio che ai sensi e per gli effetti dell’art. 5 della L. n. 604/1966 l’onere di dimostrare la sussistenza del giustificato motivo oggettivo spetta al datore di lavoro, diversi sono stati gli orientamenti giurisprudenziali circa il quesito su chi ricadesse l’onere probatorio in merito all’assolvimento dell’obbligo di repêchage, se anch’esso in capo al datore di lavoro oppure al lavoratore.

In particolare, il nodo problematico della questione soggiace sul sistema di ripartizione degli oneri di prova e allegazione tra le parti alla luce dell’obbligo di repêchage, la cui fonte non è legislativa ma giurisprudenziale. Per decenni la giurisprudenza ha optato per una soluzione “intermedia”: seppur l’onere di provare l’assolvimento dell’obbligo di repêchage sia in capo al datore di lavoro, in virtù del fatto che su di esso ricade l’obbligo di dimostrare la sussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, il lavoratore mantiene però l’onere di dedurre e allegare prove sull’esistenza di posizioni lavorative vacanti da ricoprire30. Questa ripartizione, come osservato dalla dottrina31, trova fonte nel ragionevole compromesso tra interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro e quello dell’imprenditore di scegliere e attuare le proprie strategie aziendali, al fine di mitigare le gravose conseguenze dell’onere probatorio ricadente sullo stesso. A partire dal 2016, però, l’orientamento sopra descritto ha iniziato a intraprendere un percorso del tutto diverso: in particolare parte della giurisprudenza ha iniziato definendo “singolare32” la ripartizione tra onere di prova e di allegazione.

Nello specifico, la giurisprudenza ha iniziato a sostenere che la “divaricazione” tra oneri di allegazione (in capo al lavoratore) e di prova (in capo al datore di lavoro) non può essere accolta in quanto risulta priva di valido fondamento giuridico-normativo e pertanto ciò discenderebbe da una erronea qualificazione ➤

del repêchage come elemento costitutivo della domanda del lavoratore ricorrente anziché inteso come fatto impeditivo del diritto da questi azionato e parte “integrante” della fattispecie del giustificato motivo oggettivo, come suo elemento essenziale, con onere probatorio a carico del datore di lavoro ai sensi e per gli effetti dell’art. 5, L. n. 604/196633. Secondo tale tesi, non si può quindi esigere che il lavoratore ricorrente collabori mediante apposite allegazioni con il datore di lavoro convenuto, in quanto ciò si tradurrebbe in una inammissibile facilitazione della prova in favore di quest’ultimo con riduzione del thema probandum34.

Occorre però osservare che, nonostante il forte tenore della posizione giurisprudenziale sopra descritto, la giurisprudenza ha più volte cercato di equilibrare l’onere della prova mediante il principio di ragionevolezza: è stato, infatti, più volte sostenuto che “al datore di lavoro non può chiedersi una prova assoluta ed inconfutabile” 35; “l’onere della prova relativo all’impossibilità di impiego del dipendente licenziato nell’ambito dell’organizzazione aziendale – concernendo un fatto negativo – deve essere assolto mediante la dimostrazione di correlativi fatti positivi […]; detto onere […] deve essere comunque mantenuto entro limiti di ragionevolezza, sicché esso può considerarsi assolto anche mediante il ricorso a risultanze di natura presuntiva e indiziaria” 36.

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La prima parte di questo contributo, volto a ripercorrere la storia dell’obbligo di repêchage, termina qui. Proseguiremo, come anticipato nell’introduzione, nel prossimo numero parlando del rapporto tra obbligo di repêchage e ius variandi e come questo si sia evoluto nel tempo, a seguito delle modifiche apportate dal Jobs Act con riferimento all’articolo 2103 del Codice civile, per poi concludere con l’analisi circa il nuovo orientamento della Corte Costituzionale sulle tutele poste in essere dall’ordinamento in caso di violazione dell’obbligo di repêchage.

1. Barassi, Il contratto di lavoro nel diritto  positivo italiano, V&P, 2003, Ristampa anastatica dell’edizione del 1901 a cura di Mario Napoli, pag. 872.

2. Accordo interconfederale 18 ottobre 1950 art. 1: “Nel concorde intento di prevenire i licenziamenti individuali ingiustificati e la possibilità di turbamenti in occasione di licenziamenti individuali, le parti: […] hanno deliberato di dar vita ad un apposito «Collegio di Conciliazioni e Arbitrati» al quale deferire l’esame dei licenziamenti individuali quando i lavoratori interessati ne facciano istanza, essendo stato stabilito che nel caso in cui il Collegio non ritenesse valide le ragioni addotte dal datore di lavoro, questi, su invito del Collegio, provvederà a ripristinare il rapporto di lavoro, oppure, qualora per considerazioni
di opportunità, lo stesso datore di lavoro considerasse incompatibile la permanenza del lavoratore nell’azienda, a versare una penale in aggiunta al trattamento di licenziamento”.
3. Giugni, La disciplina interconfederale dei licenziamenti nell’industria, in Rivista di diritto del lavoro,1957. Vol. 1, pag. 224-225.
4. Per la citazione si veda Coll. Torino lodo 2 aprile 1962; Coll. Venezia 13 ottobre 1952 e Coll. Venezia 2 aprile 1962, in AA. Vv. op. cit. pp. 146-147.

5. Art. 1, Legge 15 luglio 1966, n. 604 “Nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato, intercedente con datori di lavoro privati o con enti pubblici, ove la stabilità non sia assicurata da norme di legge, di regolamento e di contratto collettivo o individuale, il licenziamento del prestatore di lavoro non può
avvenire che per giusta causa ai sensi dell’articolo 2119 del Codice civile o per giustificato motivo”.
6. Cfr. Pret. Milano 27 novembre 1969, in OGL, 1969, pp. 88 ss..
7. Cass. Sez. lav 12 dicembre 1972, n. 3578.
8. Pera, Foro Italiano, 1973, pag. 655
9. Cass. Sez. lav. 7 luglio 1992, n. 8254; Cass. Sez. lav. 19 giugno 1993, n. 6814; Cass. Sez. lav. 14 settembre 1995, n. 9715; Cass. Sez. lav. 28 settembre 2006, n. 21035.
10. Perulli, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, 2017, Torino.
11. Legge 28 giugno 2012, n. 92.

12. Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23.
13. Cass. Sez. lav. 5 marzo 2015, n. 4460; Cass. Sez. lav. 22 marzo 2016, n. 5592; Cass. Sez. lav. 13 giugno 2016, n. 12101; Cass. Sez. lav. 20 ottobre 2017, n. 24882; Cass. Sez. lav. 22 novembre 2017, n. 27792.
14. Cass. Sez. lav. 3 dicembre 2019, n. 31521.
15. Cass. Sez. lav. 1° dicembre 2015, n. 24421; Cass. Sez. lav. 13 giugno 2016, n. 12101; Cass. Sez. lav. 28 settembre 2016, n. 19185.
16. Cass. Sez. lav. 20 dicembre 2001, n. 16106; Cass. Sez. lav. 16 maggio 2003; Cass. Sez. lav. 7 aprile 2010, n. 8237.
17. Calcaterra, La giustificazione causale del licenziamento, op. cit. pag. 250.

18. App. L’Aquila 14 luglio 2016; Cass., Sez. lav. 15 maggio 2012, n. 7512, in Obbligo contrattuale, 2012, pag. 8-9, con nota di Vanacore.
19. Carinci, Il giustificato motivo oggettivo nel rapporto di lavoro subordinato, 2005, pag. 21.
20. Varva, Sindacato giudiziale e motivo oggettivo di licenziamento, 2011, pag. 455.
21. Carinci, Il giustificato motivo oggettivo nel rapporto di lavoro subordinato, 2005, pag. 23.
22. Cass. Sez. lav. 16 luglio 1992, n. 2005; Cass. Sez. lav. 29 marzo 1999, n. 3030; Cass. Sez. lav. 16 maggio 2003 n. 7717.
23. Cass. Sez. lav. 16 maggio 2003; Cass. Sez. lav. 21 aprile 2016 n. 8068; Cass. Sez. lav. 26 agosto 2016 n. 17638.
24. Cass. Sez. lav. 15 luglio 2010, n. 16579.
25. Cass. Sez. lav. 31 maggio 2017, n. 13809.
26. Cass. Sez. lav. 3 dicembre 2019, n. 51521.
27. Varva, Sindacato giudiziale e motivo oggettivo di licenziamento, 2011, pag. 455.

28. At. 15, comma 6, Legge 29 aprile 1949, n. 264.
29. Cass. Sez. lav. 8 marzo 2016, n. 4509.
30. Cass. Sez. lav. 29 marzo 2001, n. 4670; Cass. Sez. lav.22 ottobre 2009, n. 22417; Cass. Sez. lav. 21 agosto 2013, n. 19353; Cass. Sez. lav. 12 febbraio 2014, n. 3224; Cass. Sez. lav. 22 febbraio 2021, n. 4673.
31. Persiani, Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e obbligo di repêchage, in Giur. it. 2016,1166-1167; Marranca, Giustificato motivo oggettivo, obbligo di repêchage e ripartizione dell’onere probatori, in ADL, 2015, 3.
32. Cass. Sez. lav. 22 marzo 2016, n. 5592.


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