Nei casi di mobbing è a carico del lavoratore l’onere della prova

di Gabriele Fava, Avvocato in Milano

 

La Suprema Corte, con la sentenza n. 21328/17, è tornata a pronunciarsi in tema di mobbing, confermando l’orientamento ormai costante secondo cui grava sul lavoratore vittima di mobbing l’onere di provare la sistematicità della condotta del datore di lavoro e la sussistenza di un intento emulativo o persecutorio che deve sorreggerla.

Nel caso oggetto d’esame da parte della Corte, un primario ha citato in giudizio l’Azienda Sanitaria Locale per la quale lavorava, lamentando di essere stato esautorato per oltre dieci anni del suo ruolo di primario e confinato in un reparto di fatto inesistente nell’organigramma aziendale. Denunciava il medico primario di essere stato completamente privato delle sue mansioni e che tale condotta, oltre a costituire un grave demansionamento, avrebbe dato luogo ad un’azione di mobbing produttiva di un danno biologico, con conseguente diritto alla tutela risarcitoria.

La Corte d’Appello di Lecce, investita del gravame della sentenza di primo grado – che aveva ritenuto inammissibile il riscorso in quanto privo degli elementi essenziali richiesti dall’articolo 414 del codice di procedura civile – ha respinto nel merito la domanda, ritenendo che il dipendente avesse mancato di provare che i comportamenti posti in essere dall’azienda fossero caratterizzati da un «programmato disegno» avente lo «scopo di mortificarne la personalità e la professionalità».

Correttamente motivata è stata ritenuta dalla Suprema Corte la decisione della Corte territoriale. La stessa aderisce, infatti, al costante indirizzo, ormai fatto proprio dalla prevalente giurisprudenza di legittimità e di merito, secondo cui non si configura la fattispecie del mobbing senza la prova dell’intenzionalità persecutoria del datore di lavoro, preordinata alla vessazione o alla emarginazione del dipendente.

Il preciso scopo di emarginare ed estromettere il lavoratore dalla vita aziendale assurge ad elemento essenziale del mobbing, distinguendolo da atti illegittimi di diversa natura (come, nel caso di specie, un mero demansionamento ex art. 2103 del Codice civile), e, per converso, permettendo di qualificare come mobbizzante una serie di condotte considerate, altrimenti, lecite.

Evidenti le ricadute di tale orientamento in termini di onere probatorio tra le parti.

Tale orientamento, condiviso ormai da numerose pronunce di merito (Tribunale di Firenze, Sez. L. Civile, 7.07.2016, n. 1133; Corte d’Appello di Potenza, Sez. Lav., 26 maggio 2016 n. 118, Tribunale di Mantova, Sez. Lav. 13 maggio 2016 n. 65; Tribunale di Ascoli Piceno, Sezione Lav., 18 marzo 2016, n. 100) riceve il plauso della magistratura, allarmata dal dilagare di richieste risarcitorie pretestuose e, senza dubbio, appare condivisibile per la sua portata.

Vengono automaticamente esclusi, infatti, tutti gli aspetti patologici del rapporto di lavoro conseguenti a mere divergenze o conflitti tra le parti.

La necessità del riscontro dell’elemento psicologico, poi, elide la responsabilità oggettiva in capo al datore di lavoro.

Se, da un punto di vista strettamente pratico, l’orientamento in questione comporta indubbi vantaggi in termini deflattivi del contenzioso, non può dirsi altrettanto se si considera che il mobbing, dovendosi tradizionalmente inquadrare nell’alveo della responsabilità contrattuale per violazione dell’obbligo di protezione di cui all’art. 2087 del codice civile, comporterebbe una ripartizione degli oneri probatori tra lavoratore e datore di lavoro diversa da quella indicata dalla Suprema Corte.

In tema di responsabilità contrattuale, il lavoratore dovrebbe limitarsi a dimostrare il solo inadempimento – il comportamento mobbizzante – oltre al nesso causale tra quest’ultimo e il danno patito, mentre graverebbe sul datore di lavoro la prova dell’assenza di colpa.
L’orientamento giurisprudenziale in questione, invece, considera l’elemento soggettivo come requisito fondamentale del
mobbing e pone sul dipendente l’onere di dimostrare l’esistenza di un disegno doloso.

Squilibrio degno di nota, quindi, per il quale la Suprema Corte, con tutta probabilità, sarà chiamata a pronunciarsi nel prossimo futuro.