L’impatto della declaratoria di incostituzionalità del “cuore” del Jobs Act sul contenzioso lavoristico e sulle altre disposizioni del D.lgs. n. 23/2015

di Gionata Cavallini, Dottorando di ricerca in diritto del lavoro nell’Università degli Studi di Milano, Avvocato in Milano

 

  1. Premessa

Come è ormai noto nella comunità degli interpreti, con sentenza n. 194/2018 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, co. 1, D.lgs. n. 23/2015, nella parte in cui prevede che l’importo dell’indennità dovuta in caso di licenziamento ingiustificato dei lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 sia determinata nella misura fissa di due mensilità per ogni anno di servizio, anziché prevedere che il giudice possa graduare detta indennità tenendo conto di fattori diversi, quali il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’impresa, il comportamento e le condizioni delle parti, nonché le dimensioni dell’attività economica (parametri già previsti dall’art. 8, L. n. 604/1966, e dall’art. 18, co. 5, St. lav.).

Il Giudice delle leggi ha dunque parzialmente accolto le questioni di legittimità costituzionale sollevate la scorsa estate dalla nota ordinanza del Tribunale di Roma 1, la quale aveva dato luogo a un vivace dibattito in dottrina, chiamata a interrogarsi sulla fondatezza delle censure mosse al “cuore” del Jobs Act, mostrando spesso un certo scetticismo rispetto alla possibilità di una sentenza di accoglimento 2.. La decisione ha così ridisegnato il sistema delle tutele spettanti al lavoratore illegittimamente licenziato, pur senza mettere in discussione il marcato superamento della tutela reintegratoria, perseguito dal Legislatore del Jobs Act e confermato anche dai successivi interventi del nuovo esecutivo.

La pronuncia della Corte costituzionale si sofferma su una pluralità di questioni – e, in particolare, sul fondamento costituzionale della tutela avverso il licenziamento ingiustificato – ed è senz’altro destinata ad alimentare un dibattito che segnerà i prossimi anni, già aperto dai primi commentatori3.. D’altronde, si tratta della prima sentenza emessa dal Giudice delle leggi dopo la stagione delle riforme della disciplina dei licenziamenti, ad opera dapprima della c.d. Legge Fornero (L. n. 92/2012, che ha novellato l’art. 18, St. lav.) e quindi del Jobs Act (D.lgs. n. 23/2015).

Senza qui soffermarsi sulle motivazioni della decisione, di cui si è già parlato anche sull’ultimo numero di questa Rivista4, il presente contributo si propone solo di sviluppare alcune considerazioni di carattere pratico-operativo, per verificare l’impatto che la (parziale) declaratoria di illegittimità costituzionale del Jobs Act potrà avere sulle controversie in materia di licenziamenti (sia quelle pendenti che quelle future) nonché sulle disposizioni del D.lgs. n. 23/2015 che non hanno formato oggetto di censura da parte della Corte costituzionale, ma che risultano strettamente connesse alla norma dichiarata costituzionalmente illegittima (in particolare, gli artt. 4, 6, 9 e 10 del D.lgs. n. 23/2015).

  1. L’impatto della pronuncia sul contenzioso futuro

Un primo, prevedibile, effetto della pronuncia sarà plausibilmente un incremento del contenzioso in materia di licenziamenti, oltre che del suo valore economico. Tale risultato, peraltro, si deve alla combinazione della sentenza in esame con le altre due novità rappresentate, rispettivamente, dalla recente sentenza della Corte costituzionale n. 77/2018 e dal c.d. Decreto Dignità (D.l. n. 87/2018, conv. in L. n. 96/2018).

Con la sentenza n. 77/20185, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 92, co. 2, c.p.c. (come modificato dall’art. 13, co. 1, D.l. n. 132/2014), nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese di lite tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano “gravi ed eccezionali ragioni”. È noto che l’istituto della compensazione delle spese di lite ha da sempre trovato particolare applicazione nell’ambito delle controversie di lavoro e che, negli ultimi anni, il divieto di compensazione sancito dal nuovo art. 92 c.p.c. aveva funto da deterrente alla proposizione di azioni giudiziarie da parte dei lavoratori, comprensibilmente preoccupati dalla prospettiva di una pesante condanna alle spese. Con la reintroduzione, ad opera del Giudice delle leggi, della possibilità per il giudice di compensare le spese di lite per «gravi ragioni» (quali, ad esempio, le condizioni economiche del lavoratore soccombente), la strada del contenzioso torna ad essere più appetibile.

Nel contempo, il provvedimento varato quest’estate dal nuovo esecutivo (c.d. Decreto Dignità) 6ha innalzato da 4-24 mensilità a 6-36 mensilità la cornice edittale di riferimento entro la quale il giudice potrà oggi determinare la misura dell’indennità da licenziamento illegittimo (cfr. l’art. 3, D.l. n. 87/2018), incrementando così notevolmente le utilità potenzialmente conseguibili all’esito dell’azione giudiziaria e, ancor prima, rafforzando la posizione del lavoratore nell’ambito della trattativa pregiudiziale.

  1. L’impatto della pronuncia sulle controversie pendenti

È indubbio che il dictum di C. Cost. n. 194/2018 sia pienamente applicabile anche ai licenziamenti intimati prima della pubblicazione della decisione, in ragione della pacifica retroattività delle declaratorie di illegittimità costituzionale, che incontrano un limite solo nei rapporti esauriti7.

Quanto ai limiti minimi e massimi entro cui può oggi essere determinata l’indennità, invece, deve essere rilevato che la prima giurisprudenza formatasi all’indomani della sentenza della Corte costituzionale ha ritenuto, con motivazioni non del tutto persuasive, che la nuova cornice edittale di 6-36 mensilità non si applica ai procedimenti relativi ai licenziamenti intimati prima dell’entrata in vigore del Decreto Dignità, per i quali il giudice dovrà muoversi all’interno della precedente forbice compresa tra le 4 e le 24 mensilità8.

Sotto diverso profilo, rispetto ai procedimenti pendenti si pone il problema pratico di capire se e come il giudice possa estendere la propria cognizione a quelle circostanze di fatto, relative ai parametri che devono essere utilizzati per determinare la misura dell’indennità secondo le indicazioni della Corte costituzionale (numero di dipendenti occupati, dimensioni dell’impresa e dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti…), laddove il ricorrente non ne avesse già fatto allegazione nel ricorso introduttivo, in quanto sostanzialmente irrilevanti secondo la legge applicabile al momento della litispendenza.

Ad avviso di chi scrive, il giudice dovrebbe tentare di desumere tali elementi dagli atti di causa (d’altronde quale ricorso non contiene in narrativa un riferimento alle dimensioni dell’impresa, al numero dei dipendenti, al fatturato?) e, solo ove ciò non sia possibile, dovrebbe esercitare i propri poteri istruttori ex art. 421 c.p.c. per assumere tutte le informazioni necessarie per determinare l’indennità dovuta al lavoratore, eventualmente assegnando alle parti un termine per il deposito di memorie integrative.

  1. L’impatto della pronuncia sulle disposizioni del D.lgs. n. 23/2015 non direttamente censurate

Occorre poi chiedersi come la pronuncia della Corte costituzionale impatti sulle altre previsioni del D.lgs. n. 23/2015 che non hanno formato oggetto diretto dello scrutinio del Giudice delle leggi, per verificare se esse vengono travolte o meno dalla declaratoria di incostituzionalità dell’art. 3, co. 1, D.lgs. n. 23/2015.

Nel sistema del D.lgs. n. 23/2015, infatti, la previsione dichiarata costituzionalmente illegittima non rappresentava una norma isolata e autonoma rispetto alle altre disposizioni del decreto. All’art. 3, infatti, fanno rinvio diretto altre disposizioni (artt. 9 e 10), mentre altre ancora ne mutuano la ratio di fondo di ancorare alla sola anzianità di servizio il quantum debeatur (artt. 4 e 6).

La declaratoria di incostituzionalità dell’art. 3, co. 1,  ha senz’altro un impatto su tutte queste previsioni, seppure in termini diversi.

Quanto all’art. 4, D.lgs. n. 23/2015 (che prevede che in caso di vizi formali e procedurali al lavoratore spetti un’indennità di importo pari a una mensilità per anno di servizio) la Corte ne ha dichiarato esplicitamente l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale (punto 5.1.2 e 5.3 della decisione).

La suddetta disposizione, infatti, era pacificamente inapplicabile nell’ambito del giudizio a quo (ove era stato ritenuto sostanzialmente ingiustificato un licenziamento intimato per asseriti motivi economici) e non poteva quindi formare oggetto del giudizio incidentale di legittimità costituzionale.

Ciò non toglie, tuttavia, che il meccanismo di calcolo di cui all’art. 4 è modellato esattamente sulla falsariga di quello censurato dalla Corte, sicché pare che la previsione non potrà che essere dichiarata incostituzionale alla prima occasione utile, non appena cioè la Corte sarà investita della questione da parte di un giudice che si trovi di fronte a un licenziamento affetto esclusivamente da vizi formali o procedurali9. Restiamo dunque in attesa degli sviluppi.

Per quanto concerne invece gli artt. 9 e 10, D.lgs. n. 23/2015, non pare esservi alcuna necessità di un ulteriore intervento da parte del Giudice delle leggi. Le suddette disposizioni fanno infatti entrambe rinvio diretto alla norma dichiarata incostituzionale, per determinare le indennità dovute in caso di licenziamenti intimati da piccole imprese (art. 9, che prevede l’applicazione dell’art. 3, co. 1, con dimezzamento degli importi e fissazione del tetto massimo di 6 mensilità) e in caso di licenziamenti collettivi (art. 10, che si limita a rinviare in toto all’art. 3, co. 1).

L’incostituzionalità dell’art. 3, co. 1, pertanto, si ripercuote direttamente “a cascata” sugli artt. 9 e 10,

determinando la necessità che il giudice, nel farne applicazione, determini la misura dell’indennità facendo ricorso ai parametri, ulteriori e diversi rispetto alla sola anzianità di servizio, indicati dalla Corte.

Un discorso ancora diverso merita invece la previsione di cui all’art. 6, D.lgs. n. 23/2015, che ha introdotto una nuova modalità di conciliazione stragiudiziale prevedendo che il datore di lavoro possa offrire al lavoratore, entro sessanta giorni dal licenziamento, un importo esente da Irpef e da contribuzione previdenziale di ammontare pari a una mensilità per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a tre e non superiore a ventisette mensilità (dopo le modifiche del Decreto Dignità). Certo anche tale previsione replica il meccanismo di calcolo censurato dalla Corte, ma essa non riguarda le modalità di determinazione di un’indennità, ma solo della somma che può essere offerta al lavoratore a titolo conciliativo, sicché non sembrano esservi margini per lamentarne l’incostituzionalità.

Tuttavia, sebbene la norma non venga toccata dal punto di vista strettamente giuridico dalla pronuncia della Corte, dal punto di vista pratico-operativo essa ne esce notevolmente depotenziata. È infatti evidente che a fronte del deciso innalzamento delle utilità ricavabili con il giudizio, l’ipotesi che il lavoratore voglia accettare quei “pochi, maledetti e subito” diventa decisamente meno plausibile, come già rilevato dai primi osservatori10. Si tratta, tuttavia, di un’incongruenza che solo il Legislatore, se lo riterrà, potrà appianare

 

1.Tribunale di Roma 26 luglio 2017, tra l’altro in Lav.giur., n.10/2017, pag. 897 ss.

2.Commenti all’ordinanza romana possono leggersi in F. Carinci, Una rondine non fa primavera: la rimessione del contratto a tutele crescenti alla Corte costituzionale, Lav.giur., n. 10/2017, pag. 902 ss.; P. Ichino, La questione di costituzionalità della nuova disciplina dei licenziamenti, www.pietroichino.it, 3 agosto 2017; S. D’Ascola, Appunti sulla questione di costituzionalità del licenziamento a tutele crescenti, Labor, n. 2/2018, pag. 228 ss., ove esaustivi riferimenti alle posizioni della dottrina.

3.Tra i primi commenti, M.T. Carinci, La Corte costituzionale n. 194/2018 ridisegna le tutele economiche per il licenziamento individuale ingiustificato nel “Jobs Act”, e oltre, WP CSDLE.it, n. 378/2018, reperibile in http://csdle.lex.unict.it; O. Mazzotta, Cosa ci insegna la Corte costituzionale sul contratto a tutele crescenti, in www.rivistalabor.it, 1 dicembre 2018.

4.C.J. Favaloro, R. Vannocci, Sentenza n. 194/2018 della Corte Costituzionale: facciamo un po’ di chiarezza, Sintesi, n. 11/2018, pag. 16 ss.

5.C. Cost., 19 aprile 2018, n. 77, tra l’altro in Riv. giur. lav., n. 3/2018, pag. 403, con nota di G. Costantino, Sulla compensazione delle spese giudiziali e sulla discrezionalità del legislatore in materia processuale.

6.Su cui v. le osservazioni di F. Scarpelli, Convertito in legge il “ decreto dignità”: al via il dibattito sui problemi interpretativi e applicativi, in Giustiziacivile.com,3 settembre 2018.

7.Per tutti, P. Caretti, U. De Siervo, Istituzioni di diritto pubblico, Giappichelli, 10° ed., Torino, 2010, pag. 407.

8.Così Trib. Bari 11 ottobre 2018, reperibile in www.wikilabour.it,che aveva applicato i principi desumibili dal comunicato stampa della Corte costituzionale ancor prima della pubblicazione della sentenza, e Trib. Como 29 novembre 2018, inedita.