LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO, la pensione non riduce il risarcimento del danno*

Laura di Nunzio, Avvocato giuslavorista in Milano, Potito di Nunzio, Consulente del lavoro in Milano

La Cassazione offre un quadro completo delle ragioni per le quali il trattamento pensionistico non possa essere considerato utile ai fini della riduzione del risarcimento del danno da illegittimo recesso: il beneficio economico derivante dall’accesso al trattamento pensionistico non è in alcun modo derivato dal recesso, ma consegue al verificarsi di presupposti completamente differenti

Il trattamento pensionistico percepito dal lavoratore illegittimamente licenziato non può essere detratto a titolo di aliunde perceptum dal risarcimento del danno al quale parte datoriale sia stata condannata per effetto dell’errato provvedimento espulsivo adottato. Con la recentissima sentenza pubblicata lo scorso 31 ottobre 2022, n. 32130 la Corte di Cassazione ha ribadito il proprio orientamento in materia, ricordando che può ritenersi “compensativo (quale aliunde perceptum) del danno arrecato dal licenziamento non qualsiasi reddito percepito, ma solo quello conseguito attraverso l’impiego della medesima capacità lavorativa”.

IL FATTO

Il caso affrontato dalla Suprema Corte atteneva un ex-dipendente del Ministero per i Beni e le Attività Culturali che, nonostante avesse ottenuto il provvedimento di trattenimento in servizio per ulteriori due anni, era stato licenziato prima che il temine biennale venisse a scadenza, in quanto aveva raggiunto il requisito contributivo massimo che gli consentiva l’accesso al trattamento pensionistico. Proprio in quel tempo, infatti, l’art. 72, c. 11, D.l. 112/2008 convertito in L. n. 133/2008 aveva introdotto la possibilità per le amministrazioni pubbliche di recedere dal rapporto di lavoro al raggiungimento, da parte del dipendente, del requisito di anzianità contributiva per l’accesso al pensionamento. Tuttavia, i giudici di prime cure avevano ugualmente dichiarato illegittimo il licenziamento, in quanto la nuova normativa prevedeva espressamente la non applicabilità della facoltà di recesso nel caso in cui il dipendente avesse ottenuto il provvedimento di trattenimento in servizio prima dell’entrata in vigore della norma. Per effetto della declaratoria di illegittimità del recesso, il Ministero era stato condannato al pagamento di un’indennità risarcitoria pari all’importo delle retribuzioni perse dalla data dell’illegittimo recesso al termine del biennio di trattenimento in servizio (dal 3.9.2009 al 31.10.2010). Da tale somma risarcitoria i giudici d’appello avevano decurtato la somma percepita dall’ex dipendente a titolo di pensione d’anzianità nell’arco temporale sopra indicato (dal 3.9.2009 al 31.10.2010). Secondo i giudici di seconde cure infatti, non potendo nel caso di specie sanzionare l’illegittimità del recesso con il ripristino del rapporto di lavoro – circostanza che avrebbe legittimato l’Inps a richiedere al lavoratore la restituzione delle somme pensionistiche erogate -, la mancata detrazione dall’indennità risarcitoria delle quote di pensione ricevute avrebbe comportato un indebito arricchimento del lavoratore, il quale avrebbe percepito, per lo stesso periodo di riferimento, sia il risarcimento del danno che la pensione. Il lavoratore ha dunque adito la

Suprema Corte contestando la sentenza d’appello nella parte relativa proprio alla detrazione della pensione percepita dal risarcimento del danno, fondando la propria eccezione sul costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui solo il compenso da lavoro percepito durante il c.d. periodo intermedio (intercorrente tra il licenziamento e la sentenza di annullamento) può comportare la riduzione dell’indennità risarcitoria, non anche un trattamento economico che non è in alcun modo ricollegabile al recesso.

I MOTIVI DELLA DECISIONE

La sentenza n. 32130/2022 in esame – accogliendo le ragioni del lavoratore – ha ribadito ancora una volta il principio sopra invocato, sottolineando come l’importo risarcitorio derivante dalla declaratoria di illegittimità del recesso possa essere unicamente ridotto da compensi percepiti dal lavoratore attraverso l’impiego della stessa capacità lavorativa che quest’ultimo avrebbe impiegato ove non fosse stato licenziato. Il diritto alla pensione invece discende da tutt’altri presupposti: si tratta di compensi che prescindono completamente dall’impiego da parte del lavoratore delle sue energie lavorative e deriva piuttosto dal verificarsi di requisiti di anzianità anagrafica e contributiva stabiliti dalla legge. Pertanto le utilità economiche di cui il lavoratore ha beneficiato con l’accesso al pensionamento non sono causalmente ricollegabili al licenziamento subìto e sono quindi da escludere dalla regola della compensatio lucri cum damno, la quale – si ricorda – prevede che, ai fini della quantificazione del risarcimento dei danni derivanti da un fatto illecito, occorre tener conto anche dell’eventuale vantaggio che lo stesso illecito abbia comportato in favore del danneggiato. Nella pronuncia in esame la Suprema Corte prospetta alcuni esempi dai quali si evince ancor più chiaramente l’impossibilità di considerare detraibili dal risarcimento del danno somme percepite a titolo di pensione. Si pensi ad esempio ai casi in cui la legge consente al lavoratore di accedere anticipatamente al trattamento pensionistico in conseguenza proprio della perdita del posto di lavoro, ipotesi in cui il rapporto tra pensione e retribuzione si pone quindi in termini di alternatività. Ebbene, in tali ipotesi l’intervenuta declaratoria di illegittimità del licenziamento travolge il presupposto stesso della concessione dell’anticipo pensionistico, facendo sorgere in capo al lavoratore l’obbligo di restituzione all’Inps delle somme percepite a titolo di pensione. Allo stesso obbligo restitutorio soggiace il lavoratore nelle ipotesi in cui la legge prevede l’espresso divieto di cumulo tra pensione e retribuzione: anche in tali casi la sopravvenuta declaratoria di illegittimità del licenziamento travolge ab origine il diritto al pensionamento, attribuendo all’ente erogatore del trattamento pensionistico il diritto di ottenere la ripetizione di quanto corrisposto al lavoratore. È evidente che qualora si trattenessero dall’indennità risarcitoria le somme percepite a titolo di pensione si arrecherebbe al lavoratore un danno, in quanto egli si vedrebbe corrispondere un importo risarcitorio ridotto della stessa misura che dovrà restituire all’Inps. I giudici di legittimità hanno anche ricordato quanto affermato dalle Sezioni Unite nel 2018 quando hanno escluso la possibilità di ridurre il risarcimento del danno conseguente ad un fatto illecito che aveva cagionato la morte di un uomo detraendo la pensione di reversibilità ricevuta dalla moglie. Tale trattamento pensionistico infatti, pur derivando dal fatto illecito che ha cagionato la morte del coniuge, risponde ad un diverso disegno attributivo, individuabile nel rapporto di lavoro pregresso del de cuius, nei contributi versati e nella previsione di legge, “tutti fattori che si configurano come serie causale indipendente e assorbente rispetto alla circostanza (occasionale e giuridicamente irrilevante) che determina la morte” (Cass. SS. n. 12564/2018).

Nessun rilievo potrebbe nemmeno avere il fatto che alla pronuncia di illegittimità del recesso non è conseguito l’effettivo reintegro del  lavoratore, atteso che – nelle more del giudizio – era scaduto il biennio di trattenimento in servizio. Per effetto dell’accertamento giudiziale, infatti, la prosecuzione del rapporto di lavoro vi era stata de iure, tant’è che il Ministero ha dovuto ripristinare il rapporto contributivo-previdenziale del dipendente fino al termine del biennio, erogare a titolo risarcitorio le retribuzioni non pagate fino a detto termine. Conseguentemente, anche il dipendente sarà chiamato a ripetere all’Inps la pensione percepita nel periodo 3.9.2009-31.10.2010 (quest’ultima divenuta, sia pure ex post e per effetto dell’accertamento contenuto nella sentenza, priva ormai di giustificazione causale), senza che rilevi l’effettiva reintegra dello stesso nel posto di lavoro per effetto del termine biennale di trattenimento in servizio. In ultimo i giudici di legittimità hanno altresì chiarito che nemmeno si arriverebbe ad una diversa conclusione obiettando che nel lavoro pubblico privatizzato il raggiungimento dei limiti d’età non consente in nessun caso il prosieguo del rapporto. Nella vicenda in esame infatti il risarcimento è stato in concreto parametrato al solo arco temporale in cui il lavoratore avrebbe potuto continuare a lavorare, ossia al periodo fino 31.10.2010, data di scadenza del biennio di trattenimento in servizio.

OSSERVAZIONI CONCLUSIVE

La pronuncia in esame offre un quadro davvero completo delle ragioni per le quali il trattamento pensionistico non possa essere considerato utile ai fini della riduzione del risarcimento del danno da illegittimo recesso: il beneficio economico derivante dall’accesso al trattamento pensionistico non è in alcun modo derivato dal recesso, ma consegue al verificarsi di presupposti completamente differenti.

* Pubblicato in Corriere delle Paghe, 10 dicembre 2022, n. 12, p. 21-23.


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