INDIVIDUAZIONE DEL DATORE DI LAVORO NELLE SPA: linee guida della Cassazione

Nina Catizone, Consulente del lavoro in Torino 

Nessun dubbio che, in materia di sicurez za sul lavoro, spetti alle società per azioni (Spa) affrontare un problema di particolare difficoltà: l’individuazione del datore di lavoro, del soggetto, cioè, che assume una posizione di garanzia primaria. Basti pensare che, in base all’art. 17, comma 1, D.lgs. n. 81/2008 competono al datore di lavoro, e soltanto al datore di lavoro, obblighi impegnativi quali la nomina del R.S.P.P. (responsabile del servizio di prevenzione e protezione) e soprattutto la valutazione dei rischi e, pertanto, l’obbligo di analizzare i rischi e individuare le misure di prevenzione contro tali rischi alla luce della “migliore evoluzione della scienza tecnica”. E dunque grava sul datore di lavoro una posizione di garanzia, a ben vedere destinata a riservare al datore di lavoro una responsabilità a dir poco drammatica, se sol si riflette che, pacificamente, la Corte di Cassazione insegna che il datore di lavoro “non può esimersi da responsabilità adducendo una propria incapacità tecnica” (così, per tutte, Cass. 11 gennaio 2022, n. 425).

Si spiega allora perché nell’ambito di un’impresa articolata in più stabilimenti o strutture soggetti pur dotati in tale impresa dei pieni poteri decisionali e di spesa, possano essere tentati di ricorrere a meccanismi tipo la trasformazione in datori di lavoro dei direttori di quegli stabilimenti o di quelle strutture, pur se si tratti di stabilimento di strutture prive dell’autonomia finanziaria pretesa dall’art. 2, comma 1, lettera t), D.lgs. n. 81/2008.

Si tratta di meccanismi messi inesorabilmente in crisi dalla sentenza della Cassazione Penale n. 8476 appena depositata il 27 febbraio 2023. Una sentenza che contrariamente a quanto azzardato in taluni primi commenti fornisce alle imprese linee-guida mai tanto implacabili. E infatti prende le mosse da un basilare distinguo: “La delega di funzioni di cui all’art. 16, D.lgs n. 81/2008 è lo strumento con il quale il datore di lavoro trasferisce i poteri e responsabilità per legge connessi al proprio ruolo ad altro soggetto: questi diventa garante a titolo derivativo, con conseguente riduzione e mutazione dei doveri facenti capo al soggetto delegante. L’istituto della delega gestoria contemplata dal diritto societario all’art. 2381 c.c., invece, attiene alla ripartizione delle attribuzioni e delle responsabilità nelle organizzazioni complesse ed è preordinato ad assicurare un adempimento più efficiente della funzione gestoria (in quanto evidentemente più spedita) ed al contempo la specializzazione delle funzioni, tramite valorizzazione delle competenze e delle professionalità esistenti all’interno dell’organo collegiale”. E purtroppo ben a ragione la Sez. IV avverte che “non di rado, anche nella giurisprudenza della Suprema Corte la differenza fra i due tipi di delega non è stata sufficientemente enucleata, con conseguente confusione di piani che invece vanno tenuti distinti”. Nella giurisprudenza, ma aggiungiamo noi anche in non rare prassi aziendali.

Proficua è allora una distinzione nell’ambito delle società di capitali: “nelle società di capitali più semplici, in cui figura un amministratore unico titolare della ordinaria e straordinaria amministrazione, questi assume anche la posizione di garanzia datoriale”, “nelle società di capitali in cui, invece, l’amministrazione sia affidata ad un organo collegiale quale il consiglio di amministrazione, l’individuazione della posizione datoriale è più complessa, anche in ragione della molteplicità di possibili modelli di amministrazione offerti dalla normativa  societaria”, con la conseguenza che “nell’ipotesi in cui non siano previste specifiche deleghe di gestione, l’amministrazione ricade per intero su tutti i componenti del consiglio e tutti i componenti del consiglio sono investiti degli obblighi inerenti la prevenzione degli infortuni posti dalla legislazione a carico del datore di lavoro”.

Ma è proprio a questo punto che la Corte Suprema compie un secondo passo avanti. Sulla scorta delle esperienze vissute nel caso ThyssenKrupp, non trascura di prendere atto che “l’art. 2, comma 1, lett. b), D.lgs. n. 81/2008 definisce il datore di lavoro come “il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o comunque il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa”. E ne desume che “se in senso prevenzionistico è datore di lavoro il soggetto che, in quanto investito dei poteri decisionali e di spesa, ha la responsabilità dell’organizzazione o della unità produttiva, il giudice penale anche in presenza di una formale delega gestoria che riguardi la materia della sicurezza dovrà interrogarsi se e come i soggetti delegati siano stati messi in condizione di partecipare ai relativi processi decisori”. Non senza contare che “a seguito della delega gestoria l’obbligo di adottare le misure antinfortunistiche e di vigilare sulla loro osservanza si trasferisce dal consiglio di amministrazione al delegato, rimanendo in capo al consiglio di amministrazione residui doveri di controllo sul generale andamento della gestione e di intervento sostitutivo”.

In questo quadro, alle imprese arriva dalla Corte Suprema un messaggio inequivocabile: “La delega di funzioni prevista dall’art. 16 del D.lgs. 81/2008 presuppone un trasferimento di poteri e correlati obblighi dal datore di lavoro verso altre figure non qualificabili come tali e che non lo divengono per effetto della delega. La delega di gestione, anche quando abbia ad oggetto la sicurezza sul lavoro, invece, nel caso di strutture societarie complesse, consente di concentrare i poteri decisionali e di spesa connessi alla funzione datoriale, che fa capo ad una pluralità di soggetti (ovvero i membri del consiglio di amministrazione), su alcuni di essi”. Addio al “datore di lavoro delegato”?


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