Il “Decreto Dignità” e le delocalizzazioni: profili giuslavoristici

di Armando Tursi, Ordinario di diritto del lavoro nell’Università degli Studi di Milano, Avvocato in Milano

 

La disciplina restrittiva delle delocalizzazioni e delle riduzioni di personale operate da imprese beneficiarie di aiuti di Stato, introdotta dal “Decreto Dignità”, merita una specifica attenzione da parte di giuslavoristi, sotto almeno due profili

1.se la Cassa Integrazione Guadagni (CIGS) possa considerarsi “aiuto di Stato” che rende applicabili le restrizioni introdotte dal “Decreto Dignità”

2.quali tipologie di licenziamento siano riconducibili a quelli intimati per “giustificato motivo oggettivo”, e dunque esclusi dall’applicazione delle predette restrizioni.

  1. L’art. 5, co. 1, del D.l. n. 87/2018, convertito con modificazioni nella legge n. 96/2018, – recante “Limiti alla delocalizzazione delle imprese beneficiarie di aiuti”, stabilisce che “… le imprese italiane ed estere, operanti nel territorio nazionale, che abbiano beneficiato di un aiuto di Stato che prevede l’effettuazione di investimenti produttivi ai fini dell’attribuzione del beneficio, decadono dal beneficio medesimo qualora l’attività economica interessata dallo stesso o una sua parte venga delocalizzata in Stati non appartenenti all’Unione europea …, entro cinque anni dalla data di conclusione dell’ iniziativa agevolata”.

    Una prima considerazione ci sembra pacifica: le norme suddette non possono riferirsi a interventi di CIGS  che non contemplano la necessità o la possibilità di investimenti produttivi e quindi sono, in via di principio, riferibili solo alla CIGS per riorganizzazione aziendale.

    Così delimitato il perimetro dell’analisi, ci si deve interrogare sulla riconducibilità dell’istituto della CIGS alla nozione di “aiuto di Stato”: nozione con la quale, ai sensi dell’art. 107 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), si intendono “gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza”.

    – Sul piano dell’esegesi letterale, si potrebbe sostenere che, affinché un provvedimento statale sia annoverabile tra gli aiuti di Stato, esso debba estrinsecarsi in vantaggi procurati alle imprese, quali sovvenzioni, prestiti agevolati, esenzioni fiscali, esoneri contributivi, riduzioni degli oneri sociali a carico del datore di lavoro, esonero dal pagamento di alcune imposte o tasse; mentre le integrazioni salariali, in quanto sostitutive di una retribuzione non dovuta a lavoratori sospesi dal lavoro o lavoranti a orario ridotto, costituiscono un beneficio per i lavoratori.

    Si potrebbe però obiettare che, salvo i casi di impossibilità oggettiva della prosecuzione dell’attività d’impresa, in caso di sospensione o riduzione dell’orario di lavoro per ragioni economiche, il datore di lavoro sarebbe tenuto a corrispondere ugualmente la retribuzione, e quindi l’integrazione salariale sarebbe a vantaggio suo e non del lavoratore. Peraltro, secondo la Commissione e la giurisprudenza della Corte di Giustizia, la nozione di “aiuti di Stato” è idonea a ricomprendere qualsiasi misura pubblica in grado di conferire alle imprese beneficiarie, grazie ad un provvedimento di carattere specifico o selettivo,un vantaggio sulle loro concorrenti in grado di falsare la concorrenza nel mercato unico.

    – Un secondo argomento utile all’esclusione degli interventi della Cassa Integrazione Guadagni può essere, allora, quello della natura generale e non selettiva di tali interventi che sono erogati secondo parametri oggettivi a tutte le imprese che dimostrino la sussistenza delle c.d. “causali” di intervento. Ciò è tanto vero, che si è dubitato, in dottrina, della natura di aiuto di Stato, non già con riferimento alla Cassa Integrazione Guadagni in generale, ma con specifico riferimento alla c.d. “Cassa integrazione in deroga”, erogata con criteri sostanzialmente discrezionali.

    – La Commissione, nel qualificare una misura come “aiuto di Stato” ai sensi dell’(allora) art. 87, § 1, del Trattato CE, delinea un’importante distinzione tra aiuti che mirano semplicemente a conservare lo status quo, e aiuti che sono diretti a consentire i necessari adattamenti agli sviluppi del mercato, contenendo gli effetti negativi sull’occupazione ovvero contribuendo alla creazione di nuovi posti di lavoro. Mentre nei confronti di questi ultimi la Commissione mostra un atteggiamento favorevole, diverso è l’atteggiamento verso gli aiuti conservativi, in linea di principio incompatibili con il Trattato in quanto implicherebbero i maggiori rischi di trasferimento della disoccupazione e delle difficoltà industriali da uno Stato membro all’altro.

    Ciò confermerebbe, aliunde, l’esclusione della CIGS per cessazione di attività (reintrodotta dall’art. 44 del D.l. n. 109/2018), se non, tout court, quella per crisi aziendale.

    – La considerazione che però ci sembra decisiva per escludere che la CIGS rientri nella nozione di aiuto di Stato cui fa riferimento l’articolo 5 della legge n. n. 96/2018, è che essa si riferisce ad aiuti di Stato che prevedano l’effettuazione di investimenti produttivi; ovvero che prevedano una valutazione dell’impatto occupazionale.

    In primo luogo, il riferimento a un “aiuto di Stato che prevede l’effettuazione di investimenti produttivi ai fini dell’attribuzione del beneficio” implica che debba trattarsi di misure che abbiano come finalità quella di favorire gli investimenti produttivi, e non invece di misure in cui l’investimento produttivo sia il presupposto affinché la misura venga erogata.

    In altre parole: negli aiuti di Stato di cui alla legge n. 96/2018, gli investimenti produttivi sono il fine dell’aiuto, e l’aiuto è la condizione dell’investimento; all’opposto, nella CIGS il presunto “aiuto” (l’intervento della CIGS) è il fine dell’investimento, e l’investimento è la condizione dell’“aiuto”.

    Analoga considerazione vale per gli investimenti che prevedano una valutazione dell’impatto occupazionale: anche da tale nozione ci pare esorbitino gli investimenti propri del programma di CIGS (per riorganizzazione), poiché anche in questo caso l’“aiuto” statale cui si allude mira a incentivare l’effettuazione di un investimento produttivo che incorpora un effetto occupazionale; mentre il presunto “aiuto” consistente nell’ammissione al trattamento di CIGS, lungi dal mirare all’incentivazione di un investimento che incorpora un effetto occupazionale, semplicemente presuppone l’effettuazione di investimenti produttivi da parte dell’imprenditore che richiede l’intervento. E quanto all’effetto occupazionale, esso, nel caso dell’“aiuto di Stato” è un effetto necessario e diretto dell’investimento, mentre nel caso della CIGS è l’effetto della stessa CIGS (la salvaguardia dei posti di lavoro è resa possibile dalla CIGS, e non – almeno direttamente e nell’immediato – dall’investimento produttivo).

    1. L’art. 6, co. 1, del “Decreto Dignità” – recante “Tutela dell’occupazione nelle imprese beneficiarie di aiuti”-, stabilisce che “Qualora una impresa italiana o estera, operante nel territorio nazionale, che beneficia di misure di aiuto di Stato che prevedono la valutazione dell’impatto occupazionale, fuori dei casi riconducibili a giustificato motivo oggettivo, riduca in misura superiore al 50 per cento i livelli occupazionali degli addetti all’unità produttiva o all’attività interessata dal beneficio nei cinque anni successivi alla data di completamento dell’investimento, decade dal beneficio; qualora la riduzione di tali livelli sia superiore al 10 per cento, il beneficio è ridotto in misura proporzionale alla riduzione del livello occupazionale”.

    Pur consapevoli dell’esistenza di opinioni contrarie e nell’assenza, ad oggi, di chiarimenti ministeriali, riteniamo che:

    i licenziamenti collettivi, ai sensi dell’articolo 24 della legge n. 223/1991, non siano inclusi tra “i casi di giustificato motivo oggettivo”che, ai sensi del comma 1 del citato articolo 6, non determinano la decadenza dal beneficio: essi, pertanto, sono incompatibili col mantenimento del beneficio;

    i licenziamenti per giustificato motivo soggettivo, pur non espressamente contemplati, siano invece compatibili col mantenimento dei benefici.

    In primo luogo va osservato che l’obiettivo esplicito del predetto art. 6 è quello di favorire investimenti produttivi da parte di imprenditori che si obblighino a produrre determinati effetti occupazionali positivi.

    Non si vede, allora, come possa perseguirsi tale obiettivo, consentendo proprio i licenziamenti che per definizione impattano sui livelli occupazionali, quali i licenziamenti collettivi per riduzione del personale.

    Né si comprende che senso possa avere l’inibizione dei licenziamenti per giustificato motivo soggettivo, i quali, oltre a non produrre effetti occupazionali sono, in un certo senso, “obbligati”, perché determinati da gravi violazioni contrattuali (disciplinari) o da superamento del periodo di comporto.

    Ciò è confermato dal Regolamento UE n. 651/2014 – recante norme su “categorie di aiuti compatibili con il mercato interno in applicazione degli articoli 107 e 108 del trattato” -, il quale prevede che, in caso di decremento occupazionale dovuto a licenziamenti per motivi oggettivi – con esclusione quindi dei “disciplinari” e delle dimissioni -, l’agevolazione non si consolidi.

    Ritenere che i licenziamenti collettivi siano inclusi nei casi di (licenziamento per) “giustificato motivo oggettivo” contemplati dal comma 1 del citato articolo 6 e che, invece, costituiscano causa di perdita del beneficio i licenziamenti disciplinari, sarebbe, oltre che assurdo, in contrasto con la normativa europea,e porterebbe a ritenere che il Legislatore abbia voluto espressamente escludere ciò che il Regolamento europeo invece espressamente prevede.

    Sul piano strettamente giuridico poi, la menzione espressa del giustificato motivo oggettivo di licenziamento rimanda all’art. 3 della legge n. 604/1966 che, come noto, si riferisce ai licenziamenti “ individuali”, intimati per ragioni attinenti “all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento della stessa”.

    Ciò, in contrapposizione con i “licenziamenti collettivi per riduzione di personale” la cui “materia”, per dettato espresso dell’art. 11 della stessa legge n. 604/1966, “ è esclusa dalle disposizioni della presente legge”.

    Detta“materia”, infatti, come pure noto, è regolata da autonomo e diverso corpo normativo, che si incardina sulla nozione di “riduzione o trasformazione dell’attività o di lavoro” (art. 24 della legge n. 223/1991), a sua volta basata su una specifica procedura a rilevanza collettivo-sindacale, che esula del tutto dal licenziamento per g.m.o. di cui all’art. 3 della legge n. 604/1966.

    Quanto ai licenziamenti disciplinari (e per scadenza del periodo di comporto): riteniamo che la mancata menzione di tali ipotesi risolutive si spieghi con la loro oggettiva, strutturale estraneità alla valutazione in termini di “impatto occupazionale”, presa in considerazione dall’art. 6 della legge n. 96/2018;

    e ciò, anche per la necessaria coerenza con la vincolante normativa regolamentare euro-unitaria.

    Per concludere sinteticamente sulla seconda questione, riteniamo che il riferimento al (licenziamento per) “giustificato motivo oggettivo”, operato dall’art. 6 della legge n. 96/2018, vada letto in contrapposizione ai licenziamenti collettivi (che dunque risultano inibiti e non ammessi, ai fini della conservazione del beneficio), e non ai licenziamenti per motivo soggettivo (disciplinari); e che, quindi, i licenziamenti collettivi per riduzione di personale, lungi dall’essere esclusi dalle cause di decadenza, costituiscano la causa tipica di decadenza dal beneficio.