DISPARITÀ DI GENERE: quello che le donne non dicono

Roberta Simone, Consulente del lavoro in Milano

E’ da poco passata la Festa della Donna, 8  marzo, giorno nel quale i nostri smartphones si riempiono di messaggi augurali, le case e gli uffici si colorano di fiori gialli, gli angoli delle strade si popolano di venditori di mimose pagate a peso d’oro, àncora di salvezza per i soliti smemorati bisognosi di rimediare all’ultimo minuto.

Ovunque sorrisi di circostanza, uomini che porgono i propri auguri, donne più o meno felici di riceverli.

Tutto procede normalmente, come ogni anno. Ma questo è un anno diverso dagli altri, perché in realtà è accaduto qualcosa di sconvolgente.

Nel mese di gennaio, i massmedia riportano una notizia drammatica. Una donna, una libera professionista al nono mese di gravidanza, prende una decisione drastica e sentendosi oppressa dagli impegni di lavoro, forse anche della vita in generale, compie un gesto drammatico proprio il giorno prima del suo trentasettesimo compleanno, e pone fine alla sua vita. Prima di compiere quel gesto estremo, prepara dei promemoria per i suoi colleghi con diversi appunti e l’elenco degli adempimenti da ultimare per i clienti.

Di questa vicenda colpisce soprattutto l’etica e il senso del dovere di questa professionista che, sopraffatta dal dolore, non ha comunque potuto tralasciare di prendersi cura dei suoi clienti, ultimo gesto di abnegazione e passione per una professione che già l’aveva stretta nelle sue spire. Da quel momento, prima lo sgomento e il cordoglio, poi i social si riempiono di commenti di altre donne libere professioniste e tra queste molte si rivelano, aprono il proprio cuore e raccontano le loro storie, spesso in forma anonima, confessando di essersi sentite spesso sopraffatte dalla mole di lavoro e di essersi dovute piegare all’inevitabile e dover scegliere tra carriera e impegni di vita, di famiglia, di salute. Ecco allora che la storia di quella libera professionista diventa la storia di tutte, delle donne che hanno il coraggio di svelarsi e anche di quelle che restano in silenzio. Come è possibile che una donna possa sentirsi così sola da non vedere altra via d’uscita alla propria disperazione? Come è possibile che ancora oggi sia così complesso e conflittuale il rapporto delle donne nel mondo del lavoro e nella società in generale?

LA “QUESTIONE” FEMMINILE

Tutte le donne conoscono la faccia nascosta della Luna, quel mondo tanto evidente quanto sconosciuto, fatto di piccoli sgarbi e di grandi difficoltà, quella parte di mondo che molti uomini ancora ignorano, sempre meno per fortuna, e che tante donne vivono come una triste quotidianità.

Tutto inizia in famiglia, nucleo sociale che prima di tutti insegna la “giusta” collocazione femminile lì e nel mondo, nell’accezione più o meno marcatamente autoritaria, retrograda, discriminante, in funzione di epoca, territorio e caratteristiche del genitore, più o meno illuminato o illuminante. Il condizionamento involontario inizia dall’assenza di giochi tecnici o scientifici, perché una femmina non può dedicarsi a tali discipline o addirittura appassionarsi. No. Il mondo delle piccole donne è lontano da costruzioni, veicoli, esperimenti: è dedicato a bambole da accudire, pappe da preparare, carrelli della spesa da riempire, formine e finti fornelli, giocattoli per le faccende domestiche. Non a caso le discipline STEM (acronimo di Science, Technology, Engineering e Mathematics) vedono ad oggi un’incidenza femminile piuttosto deludente, mediamente inferiore al 20%, come confermato da diversi studi1

L’impiego delle donne nei settori tecnologici è quasi ancillare e benché la collocazione lavorativa avvenga anche in tempi brevi grazie ai brillanti risultati accademici, l’avanzamento di carriera è lento, se non impossibile, e il ristagno è a livelli retributivi inferiori a quelli degli uomini, a parità di anzianità lavorativa, contenuto delle mansioni e competenze effettive.

Un copione che si ripete un po’ ovunque. Così è del tutto normale che perfino in ambiti in cui lo stereotipo di genere dovrebbe manifestarsi in tutto il suo “splendore” e registra effettivamente una presenza femminile in percentuali assolutamente importanti (cura della persona, sanità e istruzione, solo per citarne alcuni) ricadiamo nel tranello, perché i ruoli apicali sono assegnati maggiormente al sesso maschile e anche ai livelli inferiori si registra un divario retributivo piuttosto evidente. Durante la pandemia la disparità di genere si è ulteriormente amplificata2. La convivenza familiare forzata e la chiusura di asili e scuole hanno innescato circuiti pericolosi che hanno incrementato l’impegno delle donne nel nucleo familiare: gestione della casa e della famiglia sono rimaste a carico della moglie-madre, anche laddove le incombenze lavorative risultino paritarie con il marito-padre. Di nuovo il meccanismo dell’infanzia si ripete: sarai anche brava, sarai anche una professionista capace, ma sempre “bambole da accudire, pappe da preparare, carrelli della spesa da riempire, formine e finti fornelli, giocattoli per le faccende domestiche”. A tutto ciò si aggiungono le responsabilità della cura e del sostegno nei confronti di familiari e affini che versano in condizioni di fragilità. Poco importa la presenza o assenza del cosiddetto vincolo di sangue, ciò che conta è che normalmente è la donna che si prende carico della loro assistenza ed è a lei che si chiede il passo indietro dal ruolo di lavoratrice a quello di caregiver familiare. Non può che tornare alla mente il suicidio della donna torinese di pochi mesi fa.

È un problema di attività professionale tout court che colpisce egualmente uomini e donne? O il lavoro, sia esso autonomo che dipendente, è (solo) un ulteriore pezzo della scacchiera femminile, stracolmo di impegni professionali, familiari e casalinghi? Vi sono professioni nelle quali lo stress e l’impegno in termini di ore è un connotato tipico: molte ore di lavoro, orari che mal si conciliano con la vita privata e sociale, stanchezza fisica o mentale, ma è indubbio che a parità di tipologia di lavoro vi è una asimmetria nella fase domestica che ne segue, e da qui è evidente che le donne non finiscono mai di lavorare.

TENTATIVI PRESSAPOCHISTI PER ARGINARE IL DIVARIO

Negli ultimi decenni, le istituzioni hanno introdotto meccanismi di tutela del lavoro femminile e della maternità, pietre miliari nel nostro ordinamento giuridico ma che, non collocati in un quadro socio-giuridico più ampio e lungimirante, hanno acuito il divario tra lavoratori e lavoratrici in favore dei primi, scevri per natura da certe incombenze biologiche, e a discapito delle seconde, ree di aver la “brutta abitudine” di volersi riprodurre. Un rimedio successivo è stato l’inserimento del congedo parentale in luogo della maternità facoltativa, un tempo a solo appannaggio delle mamme e ora esteso anche ai padri, e l’introduzione e successiva cristallizzazione del congedo obbligatorio per i papà che da quest’anno è stato innalzato a dieci giorni. Ma anche questi interventi, seppur lodevoli, mal si coniugano con la realtà. Benché in timida crescita negli anni, il congedo parentale è scarsamente richiesto e i giorni di congedo obbligatorio diventano quasi un vincolo noioso e pedante, un’imposizione perfino per il destinatario della misura.

Nondimeno altri tentativi, buoni nelle intenzioni, si stanno rivelando pessimi nei risultati. Ne sono un esempio evidente le quote rosa, tese a innescare forzatamente una proporzione di genere nei ruoli apicali. In questo modo si sono verificati imbarazzanti situazioni, nelle quali per far fronte alle percentuali imposte dal Legislatore sono state designate donne che, per dirla con un elegante giro di parole, mal si rappresentano in quel contesto e in quelle funzioni. Le competenze devono essere premiate non per il nome di chi le possiede, né per il loro appartenere all’uno o all’altro sesso, a questa o a quell’altra etnia, né per un’imposizione legale, ma devono essere riconosciute per la storia professionale del soggetto, per quel che sa fare e per come lo sa fare, nonché per l’etica e il rispetto che riserva al prossimo.

LA NECESSITÀ DI UN CAMBIO INDIVIDUALE E CULTURALE

La disparità di genere è un problema complesso e articolato, il cui approfondimento non può prescindere da profonde analisi sociologiche che risultano ben lungi dalla breve disamina di questo articolo, relegando la finalità di quest’ultimo allo stimolo di una riflessione comune.

Bisogna agire su più fronti, simultaneamente ed in modo efficace.

La cultura e la scolarizzazione sono il futuro di qualsiasi Paese e purtroppo negli ultimi anni abbiamo assistito impotenti e rassegnati al loro lento declino. È necessario rivedere criticamente il contenuto e le modalità di erogazione dell’istruzione scolastica, creando già in tenera età percorsi di avvicinamento alle materie scientifiche e a mestieri e professioni, altrimenti non stupiamoci se i modelli di riferimento restano veline, calciatori e influencers. La rimozione delle disparità passa anche da un diverso sostegno alla maternità e alla cura dei figli che può trovare concretezza nel rafforzamento delle istituzioni a sostegno dell’infanzia, con una maggior flessibilità degli orari di asili e delle scuole così da renderli compatibili con le attività lavorative dei genitori. Prendendo spunto da esempi virtuosi di paesi nord-europei, andrebbe considerata l’introduzione della figura della Tagesmutter, persona dotata di competenze e formazione specifica professionale, che presso il proprio domicilio si dedica della cura e educazione di piccoli gruppi di bambini, in genere massimo cinque. Altri ambiti su cui agire sono l’erogazione di incentivi per il mantenimento di rapporti di lavoro al rientro dalla maternità, il sostegno alle forme di lavoro flessibile, la creazione di soggiorni e campi estivi per i figli, il rafforzamento delle cure domiciliari rivolte a soggetti fragili e luoghi di aggregazione e di cura economicamente accessibili. Queste sono alcune proposte per attribuire la responsabilità della cura della famiglia a soggetti diversi, così che le donne possano dedicarvisi per scelta e non più per costrizione. Ma non può essere sufficiente. Il superamento delle discriminazioni di genere necessita di un nostro percorso di crescita individuale. Dobbiamo coltivare collaborazioni genuine e sincere tra di noi, a partire dai più ristretti nuclei lavorativi, superando l’eventuale incapacità di lavorare in gruppo, spesso manifestata nella smania di protagonismo e da rivalità inutili; superate queste criticità sappiamo lavorare insieme e sappiamo farlo bene, creando sinergie e collaborazioni incredibili. Abbandoniamo l’approccio autoritario in favore dell’autorevolezza, smettiamo di approcciarci al lavoro facendo nostri i comportamenti peggiori di alcuni uomini di cui potremmo diventare la loro peggiore imitazione.

La nostra competenza non ha bisogno di essere ostentata, smettiamo di sentirci in competizione perché le nostre capacità non hanno bisogno di essere poste in discussione, in primis da noi stesse.

Infine, ai colleghi, amici, padri, mariti, cosa possiamo chiedere?

Un ulteriore passo avanti nella nostra direzione, che implica approcciarsi al mondo del lavoro guardandolo anche con i nostri occhi, prendendo atto delle nostre peculiarità e ammettendo che anche voi ne avete delle vostre, anch’esse più o meno apprezzabili, per comprendere infine che si può convivere e lavorare insieme se si superano le prese di posizione infruttuose e i pregiudizi reciproci.

1. Tra i principali studi in materia: UNESCO (giugno 2019), SCO (2018), Telling SAGA: improving measurement and poliWomen in science, Fact Sheet no. 55, FS/2019/SCI/55; UNE- cies for gender equality in science, technology and innovation.

2. MEF (2021), Bilancio di genere per l’anno finanziario 2020.