CONTRIBUZIONE INPS SU UTILI NON DISTRIBUITI: qualche riflessione

Manuela Baltolu, Consulente del Lavoro in Sassari (Ss)

l termine “trasparenza” nel nostro ordinamento risulta piuttosto inflazionato, come dimostra il recentissimo D.lgs. n.104/2022 e le numerose criticità, già analizzate in questa stessa Rivista1.

Evidentemente il Legislatore ha una particolare attrazione per questo sostantivo, infatti “trasparenza” è anche la definizione attribuita al regime introdotto dall’art. 115 del Tuir (D.P.R. n. 917/1986), mediante il quale è imputato a ciascun socio, indipendentemente dall’effettiva percezione e proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili, il reddito imponibile delle S.p.a delle S.a.p.a., delle S.r.l., delle Coop. e delle società di mutua assicurazione, nonché delle società europee di cui al regolamento CE n. 2157/2001 e n. 1435/2003 residenti nel territorio dello Stato, al cui capitale sociale partecipano esclusivamente i soggetti citati, ciascuno con una percentuale del diritto di voto di cui all’articolo 2346 del codice civile, e di partecipazione agli utili non inferiore al 10 per cento e non superiore al 50 per cento. Il successivo articolo 116 allarga tale regime anche alle S.r.l. il cui volume di ricavi non superi le soglie previste per l’applicazione degli studi di settore, e con una compagine sociale composta esclusivamente da persone fisiche in numero non superiore a 10 (20 nelle Coop.).

In sostanza, qualora si opti per il suddetto regime di trasparenza, gli utili vengono tassati in capo al singolo socio in base al criterio “di competenza”, a prescindere dall’effettivo momento in cui gli stessi utili siano stati concretamente distribuiti (“criterio di cassa”). Sulla base di tale principio, l’Inps fonda l’obbligo di pagamento della contribuzione di cui alla gestione artigiani e commercianti di tipo variabile, in aggiunta alla contribuzione c.d. “fissa” – calcolata su un minimale pari per il 2022 a € 16.243,00 -, da quantificarsi in percentuale sul

reddito effettivamente prodotto dal socio, comprensivo degli utili della società attribuiti per effetto del regime di trasparenza, anche qualora non si sia proceduto a distribuirli materialmente.

Tale principio potrebbe per  essere scardinato, d’altronde non sarebbe la prima volta che tassazione fiscale e prelievo contributivo seguono due distinti principi. Ad esempio, per i lavoratori subordinati avviene esattamente il contrario di quanto descritto, ovvero l’imposizione contributiva segue il principio di competenza, e le trattenute fiscali il principio di cassa, mentre, per gli iscritti alla gestione separata Inps, vale il principio di cassa anche per il prelievo contributivo. Nel caso specifico, rimodulando l’attuale sistema, ci si troverebbe ad applicare il criterio di competenza per quanto riguarda il prelievo fiscale, essendo il regime della trasparenza operante esclusivamente in tale ambito, mentre il trattamento ai fini contributivi potrebbe invece seguire il criterio di cassa, in considerazione del fatto che l’autonomia patrimoniale delle società di capitali è definita “perfetta”, e che la mancata distribuzione degli utili ai soci comporta comunque che gli stessi restino nella piena ed esclusiva disponibilità della società quale soggetto giuridico distinto.

Tralasciando il regime di trasparenza, nel 2021 l’Istituto previdenziale ha cambiato orientamento relativamente al presupposto necessario per il sorgere dell’obbligo contributivo nella sola gestione commercianti, recependo il contenuto della sentenza della Corte di Cassazione n. 23790/2019, ovvero l’effettiva prestazione di attività lavorativa da parte del socio all’interno della società (Circolare n. 84/2021). Di contro quindi, la sola partecipazione senza apporto di lavoro, non avrebbe più fatto scattare il rapporto giuridico previdenziale, poiché, in tal caso, i redditi derivanti da tale partecipazione societaria costituiscono redditi di capitale, e non d’impresa.

Ci  risulta in linea anche con la Costituzione, che al 2° comma dell’art. 38 destina la tutela previdenziale ai lavoratori, senza fare alcun riferimento a coloro che invece si limitino ad investire i propri capitali a scopo di lucro.

E poiché le disposizioni di cui all’articolo 3-bis del Decreto legge n. 384/1992, individuano la base imponibile dell’obbligazione contributiva per artigiani e commercianti nei redditi di impresa denunciati ai fini Irpef, i redditi di capitale ne sono esclusi.

Come detto, grazie all’illuminata sentenza citata e ad altre dello stesso filone, la bagarre in questione ha avuto termine, per i soli commercianti “non lavoratori”, a partire dal 2020, come affermato dall’Inps nella richiamata circolare n. 84/2021.

Chiarito quanto sopra, resta pienamente operativo il regime preesistente sia per i soci commercianti lavoratori che per i soci artigiani, questi ultimi lavoratori per eccellenza.

Per entrambe le categorie di soggetti risulta evidente l’iniquità del ragionamento elaborato dall’Inps, che in sostanza afferma che restano dovuti dal socio i contributi in percentuale sugli utili societari, anche se non concretamente entrati nella disponibilità dello stesso in quanto non distribuiti.

Questo assunto contrasta con il fatto che gli utili prodotti dalla società non costituiscono reddito d’impresa e non devono pertanto essere dichiarati ai fini Irpef; conseguentemente, cade il presupposto oggettivo (base imponibile) per la determinazione della contribuzione previdenziale. L’art.3-bis del D.l. n. 384/1992, convertito dalla L. n. 438/1992, prevede, al comma 1, che l’ammontare del contributo previdenziale annuo dovuto da artigiani e commercianti è “rapportato alla totalità dei redditi di impresa denunciati ai fini Irpef per l’anno al quale i contributi stessi si riferiscono”. Poiché costituiscono reddito di impresa da dichiararsi ai fini Irpef soltanto gli utili realmente distribuiti e percepiti dal socio di società di capitali, sia che esso presti o meno attività lavorativa nella società, in quanto vige il principio di cassa e non di competenza, la tassazione Irpef in capo ai soci riguarda solo gli utili e le somme di analoga natura distribuiti dalla società e quindi effettivamente incassati dai soci.

In pratica, i dividendi, sia derivanti da utili d’esercizio che da distribuzione di riserve, erogati in denaro o in natura, dalle società menzionate dall’art. 73, c.1 del Tuir vengono tassati e conseguentemente sottoposti a contribuzione previdenziale in capo ai soci, nell’esercizio in cui sono percepiti. A seguito di quanto esposto, l’utile potrà diventare imponibile Inps ed Irpef del socio di S.r.l. solo qualora in futuro la società decidesse di distribuirlo.

Anche qualora gli utili dovessero essere destinati a riserva, o essere utilizzati per ripianare perdite, o in qualsiasi altro modo consentito, essi non potranno costituire, evidentemente, reddito da dichiararsi ai fini Irpef da parte dei soci. Tale percorso logico-giuridico è confermato dalla S.C. di Cassazione nella sentenza numero 40314/2021, (e anche nelle precedenti nn. 21540/2019, 18594/2020, 19001/2020), nonché dal Tribunale di Bologna nella sentenza n. 210/2019, in cui veniva accolto il ricorso proposto dal socio che non aveva percepito gli utili (non distribuiti e destinati a riserva) dalla società in cui prestava attività lavorativa proprio in conseguenza dell’esclusione di tali importi dal reddito d’impresa in capo al socio.

In conclusione, gli utili non distribuiti non dovrebbero costituire base imponibile ai fini contributivi sia in caso di partecipazione alla società senza prestazione lavorativa, sia nel caso di apporto lavoro, per ragioni distinte:

  • nel caso in cui il socio non presti la propria opera lavorativa presso la società, in quanto costituiscono redditi di capitale, principio affermato e confermato più volte dalla Corte di Cassazione e recepito dall’Inps;
  • nel caso in cui vi sia prestazione lavorativa del socio, poiché gli importi degli utili restano nella sfera giuridica della società e non in capo alla persona fisica, tant’è che gli stessi saranno assoggettati al pagamento delle imposte in capo alla società.

Tuttavia quest’ultimo principio, sulla scia della coraggiosa pronuncia del Tribunale di Bologna,

ha ancora un lungo cammino giuridico da compiere, prima di arrivare, eventualmente, al recepimento da parte dell’Istituto di previdenza.

  1. Vedi “DIRETTIVA UE 2019-1152: dalla trasparenza alla confusione” di Roberta Simone, Sintesi rassegna di giurisprudenza e di dottrina di luglio 2022.

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