Analisi del fenomeno dello STRAINING*

Luca di Sevo, Consulente del Lavoro in Bollate (Mi)

Caterina Mazzanti si confronta con le criticità nel definire lo straining e nel dimostrare l’esistenza di un pregiudizio a carico del lavoratore

L’autrice affronta il tema dello straining per il quale vi sono notevoli difficoltà da parte del lavoratore nel dimostrare l’esistenza di un pregiudizio alla salute o alla sua sfera esistenziale per comportamenti anomali del datore di lavoro in violazione dell’art. 2087 c.c., prendendo spunto dalla sentenza Cass. civ., sez. Lavoro Ord., 04 febbraio 2021, n. 2676. Per ottenere un risarcimento del danno da straining non è sufficiente provare il demansionamento, ma è necessario accertare anche la presenza di un comportamento vessatorio del datore di lavoro.

Sono stati evidenziati diversi fenomeni legati alla sfera lavorativa: il semplice “mal d’ufficio” (amplificazione da parte del lavoratore delle normali difficoltà sul luogo di lavoro), il mobbing, lo straining e il demansionamento. Tutti questi risultano molto vicini tra loro e spesso difficili da individuare; laddove esiste un’intenzione vessatoria il demansionamento costituisce uno dei possibili volti dello straining e del mobbing.

Lo straining è stato definito come una forma di “mobbing attenuato” dotato, cioè, di un grado di conflittualità lavorativa di minor intensità ma comunque fonte di responsabilità del datore di lavoro a titolo contrattuale ed extracontrattuale, ai sensi dell’art. 2087 c.c. e dell’art. 2043 c.c.. Lo straining è caratterizzato dall’istantaneità dell’evento: il comportamento scorretto del datore di lavoro si esaurisce in un unico episodio isolato che genera un disagio nel lavoratore, oppure è costituito da più azioni tra loro scollegate.

Il riconoscimento giuridico dello straining è dettato dal timore che i comportamenti isolati, restino impuniti: l’isolamento relazionale o professionale del dipendente, la privazione degli strumenti necessari allo svolgimento dell’attività lavorativa, lo svuotamento delle sue mansioni e l’assegnazione di mansioni inferiori possono tuttavia rientrare anche nelle ipotesi di mobbing o di demansionamento o di dequalificazione. La sentenza oggetto del lavoro di ricerca ha tuttavia stabilito che l’illegittima adibizione a mansioni inferiori per poter acquisire “l’etichetta di straining” deve essere sorretta dall’intento persecutorio, oggetto di specifica prova.

È comunque innegabile che una persona isolata e professionalmente svilita per un lungo periodo di tempo, soffra intensamente a livello di autostima, di socialità, di qualità di vita, riportando un danno esistenziale, relazionale e professionale in accordo con l’idea per cui il lavoro non rappresenta soltanto una fonte di guadagno, ma anche il mezzo attraverso il quale esprimere la propria personalità (artt. 2, 3 e 4 Cost.).

La giurisprudenza ha cercato di tracciare i confini tra le situazioni di “eu-stress” o stress positivo e quelle di “di-stress”, o stress negativo, entro le quali sono riconducibili le figure del mobbing e dello straining. Ciò ha consentito di distinguere tra i pregiudizi meritevoli di ricevere una tutela risarcitoria e quelli non risarcibili, come ad esempio il “mal d’ufficio”. Tuttavia, allo stato attuale, il rischio è quello di non garantire al lavoratore una tutela risarcitoria, in casi come quello analizzato in cui non si tiene adeguatamente conto della condizione di debolezza della persona che ha subito lo straining la quale, diversamente da quella discriminata, non beneficia di alcun supporto a livello processuale: ad esempio, può essere difficile ottenere testimonianze “genuine” nel corso del giudizio da parte dei colleghi che temono possibili reazioni ritorsive del datore di lavoro, fenomeno con cui si devono confrontare giornalmente gli avvocati e per cui è auspicabile un intervento del Legislatore.

* Sintesi dell’articolo pubblicato in LG, 1/2022 dal titolo L’incerto confine tra straining, mobbing e “mal d’ufficio.