LA SORVEGLIANZA SANITARIA NUOVI OBBLIGHI E VECCHI ADEMPIMENTI: adempimenti in capo alle aziende sempre più pesanti. Interpello della 1° e 2° Commissione Interpelli

Nina Catizone, Consulente del lavoro in Torino 

 

Non è un caso che la Commissione Interpelli del Ministero del Lavoro si sia tanto occupata ultimamente della sorveglianza sanitaria sui lavoratori e degli obblighi del medico competente. Il fatto è che la disciplina dettata in materia dal D.Lgs. n. 81/2008 sta creando alle imprese problemi quanto mai ostici.

L’Interpello n. 1 del 1° febbraio 2023 risponde a un quesito di grande attualità per le imprese: i lavoratori agili debbono essere sottoposti a sorveglianza sanitaria? Ben due sono le conclusioni formulate dalla Commissione Interpelli. La prima, desunta dall’art. 39, D.lgs. n. 81/2008, è che il datore di lavoro può nominare più medici competenti, individuando tra essi un medico con funzioni di coordinamento, per particolari esigenze organizzative nei casi di aziende con più unità produttive, nei casi di gruppi di imprese nonché qualora emerga la necessità in relazione alla valutazione dei rischi. Con l’avvertenza che, in questa ipotesi, ogni medico competente verrà ad assumere tutti gli obblighi e le responsabilità in materia ai sensi della normativa vigente. E tra tali obblighi fa spicco quello di effettuare la sorveglianza sanitaria nei casi previsti dall’art. 41, D.Lgs. n. 81/2008.

Seconda conclusione, destinata a sgomentare quanti in tempo di Covid hanno ritenuto e ancora oggi ritengono ingiustificato l’aggiornamento del D.V.R. in relazione al rischio associato all’infezione, salvo il caso degli ambienti di lavoro sanitario o socio-sanitario o qualora il rischio biologico sia un rischio di natura professionale, già presente nel contesto espositivo dell’azienda. Tanto è vero che ad avviso della Commissione Interpelli dovrà essere cura del datore di lavoro rielaborare il documento di valutazione dei rischi nei casi di cui all’art. 29, comma 3, del D.lgs. n. 81/2008.

Del pari illuminante è l’Interpello n. 2 del 14 marzo 2023. Il quesito è se il combinato disposto degli artt. 25, comma 1, lettera a), 18, comma 1, lettera a), e 29, comma 1, del D.lgs. n. 81/2008 determini l’obbligo per il datore di lavoro di procedere in tutte le aziende alla nomina preventiva del medico competente al fine del suo coinvolgimento nella valutazione dei rischi, anche nelle situazioni in cui la valutazione dei rischi non abbia evidenziato l’obbligo di sorveglianza sanitaria. E questa è la risposta: “la nomina del medico competente è obbligatoria per l’effettuazione della sorveglianza sanitaria nei casi previsti dall’art. 41, D.lgs. n. 81/2008 e, pertanto, il MC collabora, se nominato, alla valutazione dei rischi di cui all’art. 17, comma 1, lettera a), D.lgs. n. 81/2008”.

A questo punto, dobbiamo renderci conto dei seri problemi che le imprese sono chiamate ad affrontare. E il primo problema nasce dal fatto -implacabilmente confermato dalla Commissione Interpelli- che il medico competente è presente in azienda a condizione che venga nominato dal datore di lavoro. E in linea con quanto statuiscono più norme del D.lgs. n. 81/2008 (come gli artt. 2, comma 1, lettera b-bis), 25, comma 1, lettere b) e h), 29), il datore di lavoro ha l’obbligo di nominare il medico competente nei casi di sorveglianza sanitaria indicati dall’art. 41, in particolare nel comma 1, alle lettere a) e b): “a) nei casi previsti dalla normativa vigente, nonché dalle indicazioni fornite dalla Commissione consultiva di cui all’articolo 6; b) qualora il lavoratore ne faccia richiesta e la stessa sia ritenuta dal medico competente correlata ai rischi lavorativi”.

Donde una conclusione dirompente. L’art. 5 Statuto dei Lavoratori vieta gli accertamenti sanitari sui lavoratori da parte del datore di lavoro, e a questo divieto deroga l’art. 41, comma 1, D.lgs. n. 81/2008, norma dunque applicabile ai soli casi espressamente e tassativamente previsti. Al di fuori di tali casi, l’unica strada percorribile è quella del controllo sanitario sull’idoneità affidato, non già al medico competente nominato dal datore di lavoro, bensì al medico pubblico nel rispetto del comma 3 dell’art. 5 Statuto dei Lavoratori. Ne consegue un’implicazione destinata a mettere in difficoltà tutte le imprese. Basti riflettere  che il datore di lavoro è tenuto a redigere una relazione sulla valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l’attività lavorativa, nella quale siano specificati i criteri adottati per la valutazione stessa (art. 28, comma 2, lettera a), D.lgs. n. 81/2008), e, dunque, in primo luogo, ad individuare tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all’interno dell’azienda. Ma ove e sino a quando non identifichi uno o più rischi riconducibili nell’ambito dell’art. 41, comma 1, D.lgs. n. 81/2008, non risulta obbligato, né legittimato, a nominare quel medico competente la cui collaborazione pur gli sarebbe necessaria per identificare siffatti rischi.

Si comprende allora che gli Interpelli nn. 1/2023 e n. 2/2023, pur ineccepibili, abbandonano le imprese in un dramma originato dalla scelta operata nel D.lgs. n. 81/2008 mediante la limitazione della sorveglianza sanitaria del medico competente alle ipotesi di cui all’art. 41. Riflettiamo, infatti, sui casi non riconducibili nell’art. 41 D.lgs. n. 81/2008, e dunque sui casi in cui l’unica strada percorribile è quella del controllo affidato al medico pubblico. Non per nulla allarma tanto le aziende, per fare un solo esempio, un caso come quello del lavoratore che sembri manifestare disturbi psichici. Solo che la strada del medico pubblico non sempre appare agevolmente e rapidamente percorribile, con il risultato di lasciare le aziende in preda a possibili responsabilità anche penali. Tanto più che il TUSL circoscrive, è vero, la presenza del medico competente, e, dunque, la sua sorveglianza sanitaria, ai soli casi di cui all’art. 41. Ma nel contempo stabilisce a carico del datore di lavoro (e del dirigente) l’obbligo di garantire l’idoneità del lavoratore all’espletamento dei compiti affidati a ciascuno. Leggiamo, infatti, una norma fondamentale, ma da non pochi trascurata, quale l’art. 18, comma 1, lettera c), D.lgs. n. 81/2008: “nell’affidare i compiti ai lavoratori, tenere conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza”. Diverse sono le ipotizzabili modalità di adempimento degli obblighi ma comune l’obiettivo di assicurare che il lavoratore sia in condizioni che permettano lo svolgimento in sicurezza dell’attività lavorativa” (come da tempo dice la Corte di Cassazione). Ed è evidente che tra queste modalità è determinante proprio la sorveglianza sanitaria.

Non per nulla, una risalente Circolare del Ministero del Lavoro, la n. 3/2017, proprio in base all’art. 18, comma 1, lettera c), D.lgs. n. 81/2008, si propose di rendere obbligatoria la sorveglianza sanitaria da parte del medico competente al di fuori dei casi espressamente e tassativamente previsti nell’art. 41 D.lgs. n. 81/2008. A questo fine, la Circolare tentò un distinguo tra “tutti i casi in cui la normativa vigente prevede l’obbligo della sorveglianza sanitaria” e “i casi in cui si debba valutare lo stato di salute del lavoratore, al fine dell’affidamento dei compiti specifici, che non dipendono dai rischi presenti nell’ambiente di lavoro, ma dalla capacità del lavoratore stesso di svolgerli (es. lavori in quota, lavori in sotterraneo o in ambienti chiusi in genere, lavori subacquei, ecc.)”. E con riguardo alla prima categoria di casi, indicò la violazione dell’art. 18, comma 1, lettera g), D.lgs. n. 81/2008, mentre con riguardo alla seconda categoria indicò la violazione dell’art. 18, comma 1, lettera c), D.lgs. n. 81/2008.

Certo, lo abbiamo appena sottolineato, l’art. 18, comma 1, lettera c), D.lgs. n. 81/2008 contiene una norma di basilare rilievo. E tuttavia una norma di per sé inidonea a rendere obbligatoria la sorveglianza sanitaria da parte del medico competente al di fuori dei casi espressamente e tassativamente previsti nell’art. 41, comma 1, D.lgs. n. 81/2008. Beninteso, sarebbe aprioristico negare che lo stesso medico competente -ove comunque presente in quanto nominato- segnali al datore di lavoro l’esigenza di un ricorso al medico pubblico, ove s’imbatta in un’ipotesi in cui occorra verificare l’idoneità di un lavoratore al di fuori dei casi indicati dall’art. 41, D.lgs. n. 81/2008. Ma si sa che una circolare non può modificare una norma di legge.

 

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INDIVIDUAZIONE DEL DATORE DI LAVORO NELLE SPA: linee guida della Cassazione

Nina Catizone, Consulente del lavoro in Torino 

 

Nessun dubbio che, in materia di sicurez za sul lavoro, spetti alle società per azioni (Spa) affrontare un problema di particolare difficoltà: l’individuazione del datore di lavoro, del soggetto, cioè, che assume una posizione di garanzia primaria. Basti pensare che, in base all’art. 17, comma 1, D.lgs. n. 81/2008 competono al datore di lavoro, e soltanto al datore di lavoro, obblighi impegnativi quali la nomina del R.S.P.P. (responsabile del servizio di prevenzione e protezione) e soprattutto la valutazione dei rischi e, pertanto, l’obbligo di analizzare i rischi e individuare le misure di prevenzione contro tali rischi alla luce della “migliore evoluzione della scienza tecnica”. E dunque grava sul datore di lavoro una posizione di garanzia, a ben vedere destinata a riservare al datore di lavoro una responsabilità a dir poco drammatica, se sol si riflette che, pacificamente, la Corte di Cassazione insegna che il datore di lavoro “non può esimersi da responsabilità adducendo una propria incapacità tecnica” (così, per tutte, Cass. 11 gennaio 2022, n. 425).

Si spiega allora perché nell’ambito di un’impresa articolata in più stabilimenti o strutture soggetti pur dotati in tale impresa dei pieni poteri decisionali e di spesa, possano essere tentati di ricorrere a meccanismi tipo la trasformazione in datori di lavoro dei direttori di quegli stabilimenti o di quelle strutture, pur se si tratti di stabilimento di strutture prive dell’autonomia finanziaria pretesa dall’art. 2, comma 1, lettera t), D.lgs. n. 81/2008.

Si tratta di meccanismi messi inesorabilmente in crisi dalla sentenza della Cassazione Penale n. 8476 appena depositata il 27 febbraio 2023. Una sentenza che contrariamente a quanto azzardato in taluni primi commenti fornisce alle imprese linee-guida mai tanto implacabili. E infatti prende le mosse da un basilare distinguo: “La delega di funzioni di cui all’art. 16, D.lgs n. 81/2008 è lo strumento con il quale il datore di lavoro trasferisce i poteri e responsabilità per legge connessi al proprio ruolo ad altro soggetto: questi diventa garante a titolo derivativo, con conseguente riduzione e mutazione dei doveri facenti capo al soggetto delegante. L’istituto della delega gestoria contemplata dal diritto societario all’art. 2381 c.c., invece, attiene alla ripartizione delle attribuzioni e delle responsabilità nelle organizzazioni complesse ed è preordinato ad assicurare un adempimento più efficiente della funzione gestoria (in quanto evidentemente più spedita) ed al contempo la specializzazione delle funzioni, tramite valorizzazione delle competenze e delle professionalità esistenti all’interno dell’organo collegiale”. E purtroppo ben a ragione la Sez. IV avverte che “non di rado, anche nella giurisprudenza della Suprema Corte la differenza fra i due tipi di delega non è stata sufficientemente enucleata, con conseguente confusione di piani che invece vanno tenuti distinti”. Nella giurisprudenza, ma aggiungiamo noi anche in non rare prassi aziendali.

Proficua è allora una distinzione nell’ambito delle società di capitali: “nelle società di capitali più semplici, in cui figura un amministratore unico titolare della ordinaria e straordinaria amministrazione, questi assume anche la posizione di garanzia datoriale”, “nelle società di capitali in cui, invece, l’amministrazione sia affidata ad un organo collegiale quale il consiglio di amministrazione, l’individuazione della posizione datoriale è più complessa, anche in ragione della molteplicità di possibili modelli di amministrazione offerti dalla normativa  societaria”, con la conseguenza che “nell’ipotesi in cui non siano previste specifiche deleghe di gestione, l’amministrazione ricade per intero su tutti i componenti del consiglio e tutti i componenti del consiglio sono investiti degli obblighi inerenti la prevenzione degli infortuni posti dalla legislazione a carico del datore di lavoro”.

Ma è proprio a questo punto che la Corte Suprema compie un secondo passo avanti. Sulla scorta delle esperienze vissute nel caso ThyssenKrupp, non trascura di prendere atto che “l’art. 2, comma 1, lett. b), D.lgs. n. 81/2008 definisce il datore di lavoro come “il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o comunque il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa”. E ne desume che “se in senso prevenzionistico è datore di lavoro il soggetto che, in quanto investito dei poteri decisionali e di spesa, ha la responsabilità dell’organizzazione o della unità produttiva, il giudice penale anche in presenza di una formale delega gestoria che riguardi la materia della sicurezza dovrà interrogarsi se e come i soggetti delegati siano stati messi in condizione di partecipare ai relativi processi decisori”. Non senza contare che “a seguito della delega gestoria l’obbligo di adottare le misure antinfortunistiche e di vigilare sulla loro osservanza si trasferisce dal consiglio di amministrazione al delegato, rimanendo in capo al consiglio di amministrazione residui doveri di controllo sul generale andamento della gestione e di intervento sostitutivo”.

In questo quadro, alle imprese arriva dalla Corte Suprema un messaggio inequivocabile: “La delega di funzioni prevista dall’art. 16 del D.lgs. 81/2008 presuppone un trasferimento di poteri e correlati obblighi dal datore di lavoro verso altre figure non qualificabili come tali e che non lo divengono per effetto della delega. La delega di gestione, anche quando abbia ad oggetto la sicurezza sul lavoro, invece, nel caso di strutture societarie complesse, consente di concentrare i poteri decisionali e di spesa connessi alla funzione datoriale, che fa capo ad una pluralità di soggetti (ovvero i membri del consiglio di amministrazione), su alcuni di essi”. Addio al “datore di lavoro delegato”?

 

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SMART WORKING E SORVEGLIANZA SANITARIA: i controversi obblighi del datore di lavoro

Nina Catizone, Consulente del lavoro in Torino 

 

La L. n. 81/2017 valorizza due esigenze a tutela degli interessi delle parti contrattuali che esulano il normale rapporto lavorativo: da un lato, quella del datore di lavoro di “incrementare la competitività aziendale” e dall’altro, quella del lavoratore di “agevolare i tempi di vita e di lavoro”.

In questo equilibrio la normativa va oltre le motivazioni contrattuali ed estende la disciplina alla tutela della sicurezza e della salute del lavoratore nello stesso modo previsto con riguardo a un normale rapporto di lavoro. “Il datore di lavoro garantisce la salute e la sicurezza del lavoratore che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile”. L’obbligo di garantire la sicurezza ricondotto alla figura del datore di lavoro si estende anche al lavoratore che “è tenuto a cooperare all’attuazione delle misure di prevenzione predisposte dal datore di lavoro per fronteggiare i rischi connessi all’esecuzione della prestazione all’esterno dei locali aziendali”. In questa ottica, sembrerebbe tutto semplice, ma, nonostante la legge n. 81/2017 abbia già percorso un lungo cammino, continua la tendenza all’utilizzo della prestazione resa dai lavoratori agili senza un’effettiva osservanza degli adempimenti relativi alla tutela della salute e della sicurezza. La domanda incalzante è: come è applicato l’obbligo di garantire la sicurezza quando i lavoratori operano al di fuori dei locali aziendali e in particolare quando operano all’interno della propria abitazione?

Questa difficoltà è ancora più preoccupante quando i luoghi di lavoro sono molto distanti dai confini aziendali o addirittura sono ubicati all’estero. Bastano le indicazioni previste nell’accordo di smart working a sollevare il datore di lavoro dagli obblighi di garante della sicurezza? Può limitarsi il datore di lavoro ad inviare al lavoratore agile raccomandazioni più o meno generiche?

Hanno ben colto il punto l’art. 6 del Protocollo Nazionale sul lavoro in modalità agile sottoscritto all’esito di un confronto con le Parti sociali promosso dal Ministro del Lavoro il 7 dicembre 2021, e ancora più recentemente l’Interpello n. 1 del 25 gennaio 2023 della Commissione Interpelli. Illuminante è l’art. 22, comma 2, il quale prescrive che il lavoratore è tenuto a cooperare all’attuazione delle misure di prevenzione predisposte dal datore di lavoro per fronteggiare i rischi connessi all’esecuzione della prestazione all’esterno dei locali aziendali e, dunque, palesemente circoscrive la cooperazione del lavoratore agile al momento dell’attuazione delle misure, mentre affida in via esclusiva al datore di lavoro la loro predisposizione. E lungimirante è ancora quell’art. 22, comma 1, secondo periodo, per cui il datore di lavoro consegna al lavoratore e al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, con cadenza almeno annuale, un’informativa scritta nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro. Dunque, un’informativa che presuppone necessariamente una individuazione dei rischi inerenti all’attività prestata dai lavoratori agili non solo all’interno, bensì anche all’esterno dei locali aziendali. Altro che attribuire allo stesso dipendente -come pure è stato da taluno esplicitamente suggerito- l’obbligo di “accertare la presenza delle condizioni che garantiscono la tutela della salute e sicurezza del lavoratore”. E naturalmente la norma base dell’art. 22, comma 1, lavoro garantisce e, dunque, ha l’obbligo garantire la sicurezza ricondotto alla figura del datore di lavoro si estende anche al lavoratore che “è tenuto a cooperare all’attuazione delle misure di prevenzione predisposte dal datore di lavoro per fronteggiare i rischi connessi all’esecuzione della prestazione all’esterno dei locali aziendali”.

n questa ottica, sembrerebbe tutto semplice, ma, nonostante la legge n. 81/2017 abbia già percorso un lungo cammino, continua la tendenza all’utilizzo della prestazione resa dai lavoratori agili senza un’effettiva osservanza degli adempimenti relativi alla tutela della salute e della sicurezza. La domanda incalzante è: come è applicato l’obbligo di garantire la sicurezza quando i lavoratori operano al di fuori dei locali aziendali e in particolare quando operano all’interno della propria abitazione?
Questa difficoltà è ancora più preoccupante quando i luoghi di lavoro sono molto distanti dai confini aziendali o addirittura sono ubicati all’estero. Bastano le indicazioni previste nell’accordo di smart working a sollevare il datore di lavoro dagli obblighi di garante della sicurezza? Può limitarsi il datore di lavoro ad inviare al lavoratore agile raccomandazioni più o meno generiche?
Hanno ben colto il punto l’art. 6 del Protocollo Nazionale sul lavoro in modalità agile sottoscritto all’esito di un confronto con le Parti sociali promosso dal Ministro del Lavoro il 7 dicembre 2021, e ancora più recentemente l’Interpello n. 1 del 25 gennaio 2023 della Commissione Interpelli. Illuminante è l’art. 22,
comma 2, il quale prescrive che il lavoratore è tenuto a cooperare all’attuazione delle misure di prevenzione predisposte dal datore di lavoro per fronteggiare i rischi connessi all’esecuzione della prestazione all’esterno dei locali aziendali e, dunque, palesemente circoscrive la cooperazione del lavoratore agile al momento dell’attuazione delle misure, mentre affida in via esclusiva al datore di
lavoro la loro predisposizione. E lungimirante è ancora quell’art. 22, comma 1, secondo periodo,
per cui il datore di lavoro consegna al lavoratore e al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza,
con cadenza almeno annuale, un’informativa scritta nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro.
Dunque, un’informativa che presuppone necessariamente una individuazione dei rischi inerenti all’attività prestata dai lavoratori agili non solo all’interno, bensì anche all’esterno dei locali aziendali. Altro che attribuire allo stesso dipendente -come pure è stato da taluno esplicitamente suggerito- l’obbligo di “accertare la presenza delle condizioni che garantiscono la tutela della salute e sicurezza del lavoratore”. E naturalmente la norma base dell’art. 22, comma 1, primo periodo, ove si dispone che il datore di lavoro garantisce e, dunque, ha l’obbligo di garantire, la salute e la sicurezza del lavoratore svolge la prestazione in modalità di lavoro agile.
Una norma che, oltre ad essere integrata dagli ulteriori disposti dettati nella stessa Legge n. 81/2017, per forza di cose richiama gli obblighi di sicurezza contemplati dal D.lgs. n. 81/2008.
Un capitolo fondamentale -affrontato ora dall’Interpello n. 1/2023 della Commissione Interpelli- concerne proprio il rapporto tra smart working e sorveglianza sanitaria. Domanda: i lavoratori agili debbono essere sottoposti a sorveglianza sanitaria? La risposta non può non essere sì, beninteso nei casi indicati dall’art. 41, comma 1, D.lgs. n. 81/2008, e, dunque, sia nei casi previsti dalla normativa vigente, e dalle indicazioni fornite dalla Commissione consultiva, sia qualora il lavoratore ne faccia richiesta e la stessa sia ritenuta dal medico competente correlata ai rischi lavorativi.
Il quesito acutamente proposto dalla Confcommercio concerne appunto la possibilità, per il datore di lavoro, di continuare attivamente, nonostante il periodo pandemico e in relazione all’utilizzo sempre maggiore del lavoro agile, ai sensi della L. n. 81/2017, le attività di sorveglianza sanitaria di cui all’art. 41, D.lgs. n. 81/2008. E concerne, in particolare, la possibilità per il datore di lavoro (anche alla luce dell’attuale situazione pandemica e, in ogni caso, stante il massivo utilizzo del lavoro agile) di individuare, con una apposita nomina, medici competenti diversi e ulteriori rispetto a quelli già nominati per la sede di assegnazione originaria dei dipendenti, vicini al luogo ove gli stessi dipendenti ora continuano ad operare in regime di smart working, specificamente individuati per apposite aree territoriali (provincie e/o regioni) e appositamente nominati esclusivamente per tali aree e per le tipologie di lavoratori operanti da tali aree. Tutto ciò nel dichiarato intento di garantire adeguate condizioni di salute e sicurezza sul luogo di lavoro anche nei confronti di lavoratori videoterminalisti che
operano in smart working e che si trovano, attualmente, a svolgere attività lavorativa presso il proprio domicilio o, comunque, in luoghi anche molto lontani dalla propria sede di lavoro.
Il quesito non potrebbe essere più lungimirante. E infatti, dall’art. 39, D.lgs. n. 81/2008, la Commissione Interpelli desume che il datore di lavoro può nominare più medici competenti, individuando tra essi un medico con funzioni di coordinamento, per particolari esigenze organizzative nei casi di aziende con più unità produttive, nei casi di gruppi di imprese nonché qualora emerga la necessità in relazione alla valutazione dei rischi. Con la precisazione che, in questa ipotesi, ogni medico competente verrà ad assumere tutti gli obblighi e le responsabilità in materia ai sensi della normativa vigente. E tra tali obblighi fa spicco quello di effettuare, sì, la sorveglianza sanitaria, ma nei casi previsti dall’art. 41, D.lgs. n. 81/2008 (utilmente richiamato sia dall’interpellante, sia dalla Commissione, in linea, del resto, con l’Interpello n. 2 del 26 ottobre 2022, e a smentita della Lettera Circolare n. 3 del 12 ottobre 2017 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro).
Dunque, l’Interpello n. 1/2023 rivela una portata eccezionale che va oltre lo specifico quesito sollevato. Presuppone, infatti, che, ove ricorra allo smart working, il datore di lavoro è tenuto comunque a garantire la sicurezza dei lavoratori agili. E insegna, quindi, che gli obblighi di sicurezza non vengono meno a carico del datore di lavoro (così come dei suoi collaboratori, dall’RSPP al medico competente) per il fatto che la prestazione di lavoro venga eseguita al di fuori dei locali aziendali. La sorveglianza sanitaria è semplicemente uno di questi obblighi. E ben fa la Commissione Interpelli ad aggiungere che dovrà essere cura del datore di lavoro rielaborare il documento di valutazione dei rischi nei casi di cui all’articolo 29, comma 3, del D.lgs. n. 81/2008. Altro che la pretesa propugnata dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro nella nota del 13 marzo 2020 n. 89 ove si ritenne ingiustificato l’aggiornamento del DVR. in relazione al rischio associato all’infezione, salvo il caso degli ambienti di lavoro sanitario o socio-sanitario o qualora il rischio biologico sia un rischio di  natura professionale, già presente nel contesto espositivo dell’azienda. Anche su questo punto il chiarimento dato dalla Commissione Interpelli è inesorabilmente incalzante.

 

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SICUREZZA DEL LAVORO NEL DECRETO 231: Cassazione divisa su interessi e vantaggi

Nina Catizone, Consulente del lavoro in Torino 

 

Sempre più ampia e penetrante è la giurisprudenza relativa alla responsabilità c.d. amministrativa delle imprese per i reati di omicidio colposo e di lesione personale colposa grave o gravissima commessi con violazione delle norme antinfortunistiche. E in particolare l’attenzione della Corte Suprema si è concentrata sulla norma dettata dall’art. 5, commi 1 e 2 del D.lgs. n. 231/2001, in forza della quale “l’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio” da persone apicali e/o sottoposte, a meno che “tali persone abbiano agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi”.

In proposito, è ormai pacifica la risposta data a due problemi sorti nei primi procedimenti in materia di sicurezza sul lavoro. Anzitutto, si afferma che i criteri dell’interesse e del vantaggio si pongono in rapporto di alternatività, come conferma la congiunzione disgiuntiva “o” presente nel testo della disposizione. In secondo luogo, è stata respinta la tesi -inizialmente sostenuta da alcuni che aveva escluso la concreta applicabilità della responsabilità amministrativa nel settore degli infortuni e delle malattie professionali, e ciò perché il criterio dell’interesse o del vantaggio non sarebbe compatibile con la natura colposa del delitto presupposto di omicidio o di lesione personale da lavoro. Come infatti osserva la Corte Suprema, “una lettura delle norme imperniata sulla incompatibilità logica tra necessaria sussistenza dei requisiti dell’interesse o del vantaggio, da una parte, e natura colposa del reato-presupposto, dall’altro, si risolverebbe,

a ben vedere, in una interpretatio abrogans delle norme che hanno, appunto, introdotto, nel catalogo dei reati-presupposto, illeciti che appaiono contraddistinti dalla natura di reati colposi di mera condotta”, e che “proprio considerando tale ultima circostanza, è evidente come il legislatore abbia inteso configurare anche i reati colposi quali titoli di addebito della conseguente responsabilità amministrativa, a ciò, dunque, conseguendo l’obbligo, per l’interprete, di adattare agli stessi i criteri di imputazione dell’interesse e del vantaggio di cui all’art. 5 D.lgs. n. 231/2001”. Con specifico riferimento ai reati in materia di sicurezza sul lavoro, la Corte Suprema legge la nozione di interesse/ vantaggio “nella prospettiva patrimoniale dell’ente, come risparmio di risorse economiche conseguente alla mancata predisposizione dello strumentario di sicurezza ovvero come incremento economico conseguente all’aumento della produttività non ostacolata dal pedissequo rispetto della normativa prevenzionale”. E precisa che “nei reati colposi l’interesse/ vantaggio si ricollegano al risparmio nelle spese che l’ente dovrebbe sostenere per l’adozione delle misure precauzionali ovvero nell’agevolazione, sub specie, dell’aumento di produttività che ne può derivare sempre per l’ente dallo sveltimento dell’attività lavorativa “favorita” dalla mancata osservanza della normativa cautelare, il cui rispetto, invece, tale attività avrebbe “rallentato” quantomeno nei tempi” 1.

Purtroppo, però, sono affiorati insegnamenti giurisprudenziali non agevolmente conciliabili su due punti di determinante rilievo. In primo luogo, è discusso se ai fini della responsabilità amministrativa sia necessaria una violazione antinfortunistica “sistematica”, ovvero risulti bastevole una violazione anche isolata. Inoltre, ci chiediamo se la responsabilità amministrativa venga meno in caso di esiguità del vantaggio o di scarsa consistenza dell’interesse perseguito.

Per anni, la Cassazione ha ritenuto configurabile la responsabilità c.d. amministrativa delle imprese ex art. 25-septies, D.lgs. n. 231/2001, a condizione che la persona fisica, agendo per conto dell’ente, abbia violato sistematicamente le norme prevenzionali. Ancora da ultimo, Cass., pen., 20 ottobre 2022, n. 39615 ritiene che, “qualora la persona fisica abbia violato sistematicamente le norme prevenzionistiche, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto, allora potrà ravvisarsi il vantaggio per l’ente”. E “quanto alla consistenza del vantaggio”, sostiene che “deve certamente trattarsi di importo non irrisorio, il cui concreto apprezzamento è rimesso alla valutazione del giudice di merito, che resta insindacabile ove congruamente ed adeguatamente motivata”.

Di diverso avviso fu Cass., pen., 26 ottobre 2020, n. 29584: “l’art. 25-septies non richiede la natura sistematica delle violazioni alla normativa antinfortunistica per la configurabilità della responsabilità dell’ente derivante dai reati colposi ivi contemplati”, ed “è eccentrico rispetto allo spirito della legge ritenere irrilevanti tutte quelle condotte, pur sorrette dalla intenzionalità, ma, in quanto episodiche e occasionali, non espressive di una politica aziendale di sistematica violazione delle regole cautelari”. Ancora da ultimo, proprio Cass., pen., 20 ottobre 2022, n. 39615 ritiene che, “qualora la persona fisica abbia violato sistematicamente le norme prevenzionistiche, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto, allora potrà ravvisarsi il vantaggio per l’ente”. E “quanto alla consistenza del vantaggio”, sostiene che “deve certamente trattarsi di importo non irrisorio, il cui concreto apprezzamento è rimesso alla valutazione del giudice di merito, che resta insindacabile ove congruamente ed adeguatamente motivata”.

  1. Così, per tutte, Cass. pen., 27 gennaio 2020, n. 3157.

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IL NUOVO RUOLO DEL PREPOSTO: “l’anello di congiunzione” di cui si sentiva la necessità*

Luca di Sevo, Consulente del Lavoro in Bollate (Mi)

Valentina Pasquarella analizza il ruolo del preposto alla luce della vigente, rinnovata normativa

 

L’Autrice analizza la centralità della figura del preposto in materia di salute e sicurezza sul lavoro, in seguito alle modifiche al D.lgs. n. 81/2008 introdotte dal D.l. n. 146/2021 (L. n. 215/2021 – “Decreto fiscale”).
Quella del preposto è una figura centrale in materia di salute e sicurezza sul lavoro, poiché collocato in posizione intermedia tra il dirigente e i lavoratori, con compiti di vigilanza e controllo sul comportamento dei lavoratori stessi: è un “soggetto cui competono poteri originari e specifici, differenziati tra loro e collegati alle funzioni a essi demandati, la cui inosservanza comporta la diretta responsabilità del soggetto ’iure proprio’ ”; egli, quindi, è chiamato a rispondere “a titolo diretto e personale per l’inosservanza di obblighi che allo stesso (…) direttamente fanno capo”.
Il preposto è la “persona che, in ragione delle competenze professionali e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’incarico conferitogli, sovrintende all’attività lavorativa e garantisce l’attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di iniziativa” (art. 2, comma 1, lett. e), D.lgs. n. 81/2008).
Questo lo qualifica come il punto di raccordo tra datore di lavoro e lavoratori. Operando a diretto contatto con i lavoratori e con i fattori di rischio, ha il compito di verificare la concreta attuazione delle disposizioni impartite dal datore di lavoro o dal dirigente e di vigilare sulla corretta esecuzione degli stessi da parte dei lavoratori; è quindi un “responsabile esecutivo (…), estraneo ai compiti di organizzazione e predisposizione delle misure di prevenzione”.
Egli deve vigilare sull’eventuale instaurarsi di prassi comportamentali incaute oltre che sulle anomalie di funzionamento dei macchinari, al fine di “segnalare” ai vertici aziendali eventuali negligenze degli operatori e/o eventuali lacune nell’attuazione delle misure di prevenzione.
La L. n. 215/2021 introduce l’obbligo per il  datore di lavoro/dirigente di individuare uno o più preposti per l’effettuazione dell’attività di vigilanza, prevedendo la possibilità per i contratti collettivi di stabilire l’emolumento ad essi spettante, anche nelle attività eseguite in regime di appalto o subappalto.
Le novità del 2021, oltre ad introdurre un obbligo di individuazione del preposto, ne stabiliscono un presidio mediante sanzioni penali. Infatti, in caso di inadempimento, si configura un reato a carico del datore di lavoro e del dirigente, punito con la pena alternativa dell’arresto (da due a quattro mesi) o dell’ammenda (da 1.500 a 6.000 euro).
Questo ruolo meglio definito del preposto consentirà di chiarire meglio le posizioni di garanzia in materia di sicurezza, in linea con quanto previsto dal documento di valutazione dei rischi che, oltre alla definizione delle procedure per l’attuazione delle misure preventive e protettive, richiede l’individuazione dei “ruoli dell’organizzazione aziendale che vi debbono provvedere, a cui devono essere assegnati unicamente soggetti in possesso di adeguate competenze e poteri”, con l’obbiettivo di ridurre al minimo l’esposizione a rischio. Il rafforzamento del ruolo del preposto discende dai nuovi obblighi di cui è insignito.
Oltre a quanto previsto dall’art. 19, comma 1, D.lgs. n. 81/2008, si aggiungono specifici casi di intervento, penalmente sanzionabili, in caso del verificarsi di condizioni di insicurezza.
Il preposto deve prima di tutto sovrintendere e vigilare “sull’osservanza da parte dei singoli lavoratori dei loro obblighi di legge, nonché delle disposizioni aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro e di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuale messi a loro  disposizione”, ed in più, gli si riconosce un doppio ruolo di intervento diretto ad esercizio progressivo.
Nel caso in cui il preposto rilevi comportamenti dei lavoratori non conformi alle istruzioni impartite dal datore di lavoro e dai dirigenti ai fini della protezione collettiva e individuale, egli dovrà intervenire “per modificare il comportamento non conforme fornendo le necessarie indicazioni di sicurezza”. Successivamente, ma solo in caso di mancata attuazione delle disposizioni impartite al lavoratore o di persistenza dell’inosservanza, dovrà esercitare un intervento deciso, ovvero provvedendo ad interrompere l’attività del lavoratore inadempiente (con possibile irrogazione di sanzioni disciplinari da parte del datore di lavoro) e ad informare i diretti superiori; nell’interruzione dell’attività si concentra il carico più oneroso delle nuove responsabilità imputate al preposto.
Va notato che la delicatezza del ruolo, così come delineato, viene difeso dalla norma per cui questi non potrà “subire pregiudizio alcuno a causa dello svolgimento della propria attività”. Questa forma di difesa si aggiunge al compenso economico di emanazione prevista dalla contrattazione collettiva.
In merito alla formazione, che rimane confermata come obbligatoria e specifica per questo ruolo, i contenuti della formazione non vengono più dettagliati dalla norma, ma saranno specificati da un apposito accordo in Conferenza permanente Stato, Regioni, mentre riguardo alle modalità di svolgimento delle attività formative rivolte ai preposti, si introduce in capo al datore di lavoro e al dirigente un obbligo specifico penalmente sanzionato, per cui le attività dovranno essere svolte interamente in presenza e con periodicità almeno biennale “e comunque ogni qualvolta sia reso
necessario in ragione dell’evoluzione dei rischi o all’insorgenza di nuovi rischi” (art. 37, comma 7-ter, D.lgs. n. 81/2008).
In conclusione, viene trasformato il ruolo da semplice “sentinella” a “gestore” attivo delle problematiche della sicurezza; il preposto è in prima linea nell’attuazione del sistema di prevenzione aziendale, con maggiori responsabilità collegate all’esercizio della sua funzione.

 

*Sintesi dell’articolo pubblicato ne Il lavoro nella giurisprudenza, n. 8-9, 1 agosto 2022, p. 782 dal titolo Il “nuovo” ruolo del preposto alla sicurezza.

 

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Analisi delle problematiche che nascono dall’USO IMPROPRIO DELLA TASTIERA*

Antonella Rosati, Ricercatrice Centro Studi e Ricerche

Alessandro Bordin esamina le norme di sicurezza che regolano l’uso del pc e della tastiera 

 

Faceva sorridere, negli anni ’80, una frase del giovane Bill Gates: “porteremo un computer su ogni scrivania e in ogni casa”. La profezia invece si è avverata, con tutti i benefici che ne sono derivati.

Ma se da un lato l’impiego del PC offre illimitate opportunità, dall’altro un uso continuativo espone inevitabilmente a dei rischi. Proprio per questo è stata introdotta nella legislazione, in materia di sicurezza, la problematica dell’utilizzo dei videoterminali. L’Autore, con questo contributo, si sofferma in particolare su un tema specifico ancora poco sviscerato, quello dell’uso della tastiera, con l’intento di gettare le basi per eventuali approfondimenti futuri.

LEGISLAZIONE VIGENTE

La sicurezza dei lavoratori nell’uso dei videoterminali1 è affrontata dal Titolo VII del D.lgs. n. 81/2008 e s.m.i. e dall’Allegato XXXIV.

Essa va considerata con riguardo a (art. 174):

‒ rischi per la vista e per gli occhi;

‒ problemi legati alla postura e all’affaticamento fisico o mentale;

‒ condizioni ergonomiche e di igiene ambientale.

Nell’Allegato XXXIV sono contenute le indicazioni da seguire al fine di tutelare il videoterminalista dall’esposizione dei rischi connessi all’utilizzo del computer, sia PC che portatile. Esistono delle avvertenze per la postazione di lavoro, il tavolo, la sedia e i diversi componenti hardware (video, mouse, etc.) e software.

Tra gli elementi hardware ritroviamo la tastiera. Rammentando che la tastiera controlla alcuni comandi del sistema operativo e dei programmi installati attraverso “tasti funzione” e “combinazioni di tasti”, anche i software devono essere a loro volta concepiti in modo ergonomico.

UTILIZZO DELLA TASTIERA E RISCHI PER LA SALUTE

In generale, per ridurre l’esposizione dei lavoratori videoterminalisti, è bene assicurarsi una postazione di lavoro ergonomica (fonte luminosa, altezza della poltrona e inclinazione dello schienale, giuste distanze dalla tastiera e dallo schermo, corretta posizione del corpo, etc.). Tanto premesso, i rischi per la salute riconducibili all’utilizzo della tastiera sono collegati a problemi muscolo-scheletrici2 dell’arto superiore, in particolare all’avambraccio, al polso e alle mani, comprendendo le dita, soprattutto quelle più deboli (mignoli).

L’esposizione dei lavoratori ai fini della sicurezza e della salute è riconducibile a una pluralità di fattori.

In primo luogo, all’ergonomia dell’attività che va vista nel suo complesso e non legata unicamente alla tastiera.

La posizione degli arti superiori rispetto alla tastiera (altezza della sedia e del tavolo) è il secondo elemento da prendere in considerazione. Durante la digitazione è necessario che gli avambracci, i polsi e le mani siano allineati in posizione diritta.

Le posizioni del videoterminalista, improprie e corrette, sono indicate in Figura 1.

Non dimentichiamo, fra gli aspetti che condizionano l’ergonomia del lavoratore, la forma della tastiera e la disposizione dei tasti, che ricadono sulla posizione delle mani e sull’operatività delle dita.
Infine, per l’uso delle dita, assumono rilievo la ripetitività delle operazioni (pressione e battitura dei tasti) e le posizioni assunte in seguito a specifiche istruzioni del software, ad esempio il simultaneo impiego di più tasti
per eseguire un comando.

ALCUNE SOLUZIONI
Il problema dell’impiego della tastiera presenta alcune difficoltà, soprattutto nella diagnosi differenziale rispetto a patologie e sintomatologie affini, più conosciute, che sono determinate da altri ausili del PC come il mouse che comporta la nota sindrome del tunnel carpale. L’esposizione riconducibile all’utilizzo della tastiera in un lavoratore quando mostra i sintomi, proprio perché meno studiata, è ancora lontana dall’essere catalogata come malattia professionale.
Non per questo però va sottovalutata dal punto di vista medico e professionale ma è necessario, al contrario, avanzare delle soluzioni per risolvere o almeno limitare i rischi,  in un’ottica di prevenzione e sicurezza sul lavoro e non solo di terapia. Alcune basi per l’ergonomia nell’impiego della tastiera erano state poste nel passato per il predecessore del PC, ossia la macchina da scrivere.
La dattilografia, materia ormai desueta, applicava i principi dell’ergonomia della scrittura, usando in
modo efficace i tasti con le dita, come indicato in Figura 2.

Nelle macchine da scrivere più datate, essendo a funzionamento meccanico, la pressione dei tasti richiedeva
uno sforzo notevole; successivamente, l’elettrificazione e l’automazione, quindi le macchine più moderne, hanno risolto o, quanto meno, attenuato questa problematica.
Adesso l’attenzione si sposta e si concentra sulla tastiera del PC.  Un aspetto importante, ai fini dell’ergonomia, è la sua forma.
A tale scopo, i progettisti hanno disegnato tastiere che consentono alle mani e alle dita – più in generale all’arto superiore – di operare più comodamente, riducendo la tensione muscolo-tendinea.
Ai fini della ricerca delle soluzioni per limitare l’esposizione dai rischi dell’utilizzo della  tastiera, possono essere utili le prescrizioni che provengono direttamente dal mondo lavorativo  del PC e dai professionisti implicati
in prima persona, in primis gli informatici.
Leonardo Finetti, consulente Web e programmatore, in alcuni articoli3 suggerisce diverse modalità per potenziare il comfort nell’utilizzo della tastiera. Particolarmente importante, secondo l’informatico, è il layout
dei tasti distribuiti nella tastiera4 .
I layout che sono stati progettati nel tempo sono diversificati e cercano di rispondere alle esigenze del momento.
Il primo fra tutti, il più antico, è il “Modello Qwerty” del 1860, che non teneva in considerazione, visto il periodo storico, l’ergonomia.
Poco o nullo era l’interesse a bilanciare l’utilizzo delle dita, anche a fronte di una loro diversa forza. Il mignolo, ad esempio, è più corto e debole rispetto all’indice; pertanto, i moderni studi consigliano di assegnare a tale
dito la battitura delle lettere meno adoperate.
Il “Modello Colemak”, più recente (2006), presenta un layout che ottimizza l’uso della tastiera rispetto al “Modello Qwerty” 5, in quanto razionalizza la posizione dei tasti maggiormente usati. Oltre ai modelli citati esistono altre tipologie di layout delle tastiere riportate in Figura 3.
Un ulteriore miglioramento delle prestazioni ergonomiche si ha con la variante “Modello Colemak – DHm”.
In essa la distribuzione delle lettere in base alle dita (D, H e M) è più bilanciata così da affaticare meno le dita più deboli ma, allo stesso tempo, senza sforzare eccessivamente le dita più forti (Figura 4).

L’ultimo aspetto da vagliare è l’impiego combinato dei tasti.
Molti programmi di uso comune si sono riallineati in molte funzioni, come i noti comandi “taglia, copia e incolla” di ampio utilizzo, solo per fare un esempio.
Analoghe considerazioni si possono fare per caratteri speciali presenti nella tastiera (bigrammi) che richiedono l’uso combinato del tasto “Maiusc” oppure “Alt Gr” (trigrammi).
Fra le modifiche dell’uso combinato dei tasti menzioniamo altresì l’integrazione delle funzioni dei tasti modificatori (Alt, Ctrl, etc.) in quelli della home row (con le lettere A, R, S, etc.).
Secondo lo schema di Figura 5, alla lettera R viene anche associato/integrato il comando Alt, alla S il comando Ctrl e così via.
Le funzioni dei tasti modificatori vengono attivate con una lunga pressione. Esemplificando, il tasto della lettera R, che viene assumere così una duplice funzione, comanda la lettera se si applica una pressione breve, mentre in seguito a una pressione lunga viene attivato il tasto di funzione, nella fattispecie Alt.
Si può notare come la soluzione prospettata valga sia per la mano destra che per la sinistra, in modo da permettere agevolmente tutte le combinazioni di tasti.
Nelle tastiere tradizionali, infatti, i modificatori come Ctrl e Shift sono normalmente premuti dal mignolo che è il dito più debole della mano. Inoltre, questi tasti richiedono un allungamento eccessivo delle dita, ad esempio per eseguire alcune combinazioni speciali.
Questi movimenti sono tra i più dannosi durante la digitazione. La soluzione prospettata da Finetti va quindi a migliorare l’ergonomia. Si ricorda però che queste modalità richiedono una programmazione di software operativi o
relativi alla configurazione dell’hardware.
È ovvio che, per opportune necessità, si possano creare delle “stringhe di programma” per modificare le funzioni, ma una simile attività spetta agli addetti ai lavori, per non inficiare il funzionamento e l’impiego del  PC.

 

* Sintesi dell’articolo pubblicato in Igiene & Sicurezza del Lavoro, n. 12, 1° dicembre 2021, p. 613 dal titolo Ergonomia nell’uso della tastiera del computer.

1.In ambito aziendale e anche nel “telelavoro” in ambito domestico, quest’ultimo aumentato considerevolmente durante la pandemia del Coronavirus. Per adempiere all’esercizio dell’attività prevenendo i rischi, i lavoratori a distanza sono informati dal datore di lavoro circa le politiche aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro, specialmente in ordine alle esigenze relative ai videoterminali e applicano correttamente le direttive aziendali di sicurezza.

2.Non vanno dimenticati gli annessi nervo–tendinei e le articolazioni di tali porzioni del corpo.

3. L. Finetti, “Ottimizzare la posizione dei tasti modificatori nella home row”, Sito web, 2021;
L. Finetti, “5 motivi per passare ad una tastiera con layout Colemak DHm”, Sito web, 2020.

4. Anche sotto il profilo dell’impilamento, obliquo (sfalsato) oppure verticale (incolonnato). Quest’ultimo sembra più ergonomico rispetto alla distribuzione sfalsata.

5. Modelli alternativi della tastiera Qwerty sono i seguenti: Dvorak; Colemak e Colemak DHm, di cui si riferirà nel testo; Workman; Norman; Carpalx e Beakl.

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L’evoluzione del modello di organizzazione e gestione: LA MINDFULNESS IN AMBIENTE DI LAVORO

Barbara Garbelli, Consulente del Lavoro in Pavia, Esperta in materia di salute 

Organizzare un’impresa nel modo corretto è un aspetto fondamentale per stare al passo coi i tempi: il segreto è far sì che le risorse interne riescano a rispondere alle esigenze del mercato e, allo stesso tempo, raggiungere in modo efficace gli obiettivi aziendali.
In questo ultimo periodo l’organizzazione e la gestione delle aziende è stata messa a dura prova, sia dal contesto pandemico in cui ci siamo ritrovati, sia dagli interventi normativi in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro
che hanno apportato sostanziali modifiche al Decreto legislativo n. 81/2008 (Testo Unico), con lo scopo di consentire di intervenire in maniera più efficace sulle imprese che non rispetteranno le norme di prevenzione.
Il cosiddetto “Decreto Fiscale” (D.l. n. 146/2021), convertito con modificazioni dalla Legge n. 215/2021, ha riformato in maniera sostanziale diversi articoli del D.lgs. n. 81/2008 che hanno subìto un vero e proprio restyling, nell’ottica di rendere le attività di vigilanza e controllo maggiormente efficaci.
La nuova normativa, introduce in modo particolare il provvedimento di sospensione dell’attività lavorativa per coloro che non rispetteranno le norme di prevenzione in materia di salute e sicurezza sul lavoro o che impiegano
lavoratori in nero.

Il decreto ha reso inoltre più severe le sanzioni in caso di violazioni al T.U. n. 81/2008, e potenziato il ruolo degli ispettori.
Ecco che, nell’attuale contesto, l’introduzione del MOG, ovvero il Modello di Organizzazione e Gestione aziendale, può essere una strategia estremamente efficace per la corretta gestione delle attività, scongiurando sanzioni
e blocchi all’attività aziendale e creando un circolo virtuoso ed un ambiente di lavoro sicuro e dignitoso.
In particolare, l’articolo 30 del D.lgs. n. 81/2008 ha riconosciuto il valore dei sistemi organizzativi e di gestione come strategici nell’opera di prevenzione all’interno delle aziende.

COSA SI INTENDE PER MODELLO ORGANIZZATIVO DI GESTIONE (MOG)?
Si intende l’insieme delle soluzioni tecniche, comportamentali e strategiche che l’impresa adotta nelle diverse aree di business per svolgere le proprie attività produttive che siano in linea con gli obiettivi strategici che si è data.
Nella realtà il “modello organizzativo” definisce la struttura “statica” dell’organizzazione aziendale, che ne comprende le idealizzazioni culturali, etiche e deontologiche, nonché le finalità  strategiche, di prodotto e di business.
Ogni modello organizzativo ha al suo interno dei sotto-sistemi progettati per la definizione e il funzionamento di parti ben definite delle attività aziendali. Questi sotto-sistemi sono rispettivamente destinati a descrivere le attività connesse alla qualità, alla sicurezza del lavoro, all’ambiente, alla contabilità, alla gestione del personale etc. e, nel loro insieme coordinato, consentono di delineare e fotografare l’intero schema organizzativo e il ciclo produttivo dell’azienda.

IL MOG SECONDO IL D.LGS. N.231/2001

Il D.lgs. n. 231/2001 ha introdotto nel nostro ordinamento un sistema di responsabilità in capo alle persone giuridiche per la commissione di reati inerenti a lesioni gravi e gravissime e a omicidio colposo per violazioni della
normativa in materia di sicurezza del lavoro.

La Legge stabilisce che possono esonerare dalle sanzioni:
– l’adozione di un modello organizzativo atto a prevenire i reati presupposto,

– la sua efficace applicazione,

– la costituzione di un organismo (detto organismo di vigilanza) preposto a vigilare sul suo funzionamento e sulla sua osservanza e a curarne l’aggiornamento e

– l’adozione di un idoneo sistema sanzionatorio nel caso di violazioni.

Il Legislatore, con l’onere in capo alle imprese di predisporre un modello di organizzazione e gestione, concentra la propria attenzione sulla politica aziendale: l’attenzione è volta maggiormente alla creazione di un sistema di  esenzione, una sorta di “ancora di salvataggio” nel caso di commissione di reati di cui all’art. 25 septies, D.lgs. n. 231/2001, piuttosto che sul concetto di buona organizzazione, sicuramente preferibile ed auspicabile.
Pertanto, la società non risponde dei reati commessi dai propri dipendenti se prova:

– di aver adottato ed attuato efficacemente Modelli di Organizzazione, Gestione e Controllo 231 conformi ai requisiti del D. lgs. n. 231/2001;

– di aver affidato ad un organismo dotato di autonomi poteri d’iniziativa e controllo (ODV) la vigilanza e  l’aggiornamento di tale Modello 231;

– che il modello è stato eluso in modo fraudolento.

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IL MOG SECONDO IL D.LGS. N.81/2008

Anche il D.lgs. n. 81/2008 disciplina l’adozione del modello di organizzazione e gestione:  l’art. 30 infatti ne specifica i contenuti, al fine di garantire l’effettivo adempimento di tutti gli obblighi in tema di prevenzione. L’adozione dei modelli è pertanto condizione fondamentale per l’esonero dalla responsabilità, necessaria ma non sufficiente, in quanto è la stessa legge a richiedere la sua efficace attuazione. Il primo requisito richiesto è il rispetto degli
obblighi di legge di cui all’art. 30 del Testo Unico ed i relativi richiami normativi. L’art. 30 prevede, ai commi 3 e 4, uno specifico sistema di sanzioni per il mancato rispetto delle misure ivi richiamate e un sistema di monitoraggio
sul corretto adempimento delle misure e delle procedure individuate dal modello stesso. Esso, per essere valido, deve però essere adottato ed efficacemente attuato assicurando un sistema aziendale per l’adempimento di tutti
gli obblighi giuridici relativi:
• al rispetto degli standard tecnico-strutturali di legge relativi a attrezzature, impianti, luoghi di lavoro, agenti chimici, fisici e biologici;
• alle attività di valutazione dei rischi e di predisposizione delle misure di prevenzione e protezione conseguenti;
• alle attività di natura organizzativa, quali emergenze, primo soccorso, gestione degli appalti, riunioni periodiche di sicurezza, consultazioni dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza;
• alle attività di sorveglianza sanitaria;
• alle attività di informazione e formazione dei lavoratori;
• alle attività di vigilanza con riferimento al rispetto delle procedure e delle istruzioni di lavoro in sicurezza da parte dei lavoratori;
• alla acquisizione di documentazioni e certificazioni obbligatorie di legge;
• alle periodiche verifiche dell’applicazione e dell’efficacia delle procedure adottate.

Il modello organizzativo e gestionale deve prevedere, inoltre, idonei sistemi di registrazione dell’avvenuta  effettuazione delle attività  sopraindicate ed una articolazione di funzioni che assicuri le competenze tecniche e i poteri necessari per la verifica, valutazione, gestione e controllo del rischio. Lo stesso deve, altresì, prevedere un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello ed un idoneo sistema
di controllo sull’attuazione del medesimo modello e sul mantenimento nel tempo delle condizioni di idoneità delle misure adottate.
Un MOG efficacemente attuato migliora la gestione della salute e sicurezza sul lavoro aziendale in relazione alle necessità d’impresa ed esigenze gestionali ed organizzative.

LE DIFFERENZE
Il MOG, come previsto dall’art. 30, D.lgs. n. 81/2008 differisce da quello contemplato nel D.lgs. n. 231/2001, per vari profili sostanziali:
– per l’imposizione della forma scritta ad substantiam della documentazione relativa agli adempimenti previsti dal comma 1, – per la presunzione di idoneità del modello adottato in conformità alle linee guida UNI-INAIL e al BS OHSAS 18001:2007 (sostituito dalla ISO 45001),
– nella indicazione dei modelli di organizzazione e delle procedure semplificate per le piccole e medie imprese, per il riconoscimento del ruolo della commissione permanente di cui all’art. 6 del medesimo decreto.
Occorre innanzitutto analizzare il raccordo tra la disciplina relativa ai modelli di organizzazione e gestione,  contenuta nel D.lgs. n. 231/2001, e gli obblighi di organizzazione previsti dalla legislazione speciale in materia
di salute e sicurezza sul lavoro.
L’obiettivo di entrambi i decreti è il contenimento del rischio di infortuni sul lavoro o malattie professionali. Ne sono una dimostrazione le modalità di raggiungimento degli obiettivi, similari fra loro; difatti, ad una prima fase di valutazione di ogni potenziale rischio per la salute e la sicurezza dei lavoratori segue un’attività di applicazione delle
misure preventive idonee a ridurre il rischio attraverso protocolli organizzativi. Il rapporto tra i due modelli può considerarsi contemporaneamente di identità e di misura.
Di identità, poiché entrambi hanno la funzione di limitare il rischio di commissione di reato; di misura, in quanto l’uno si inserisce nell’altro, configurandosi come parte speciale, deputato alla tutela della salute e sicurezza del lavoro.

QUALI SONO I VANTAGGI?
Sono molti i vantaggi per le aziende che adottano tali modelli, che creano una partecipazione attiva di tutti gli attori della sicurezza aziendale.
Ad esempio:
• la riduzione dei costi derivanti da incidenti, infortuni e malattie professionali, attraverso la minimizzazione dei rischi cui possono essere esposti i lavoratori ed i terzi eventualmente presenti;
• l’ottimizzazione delle risorse investite e all’agevolazione nella produzione della documentazione richiesta dalla normativa;
• il conseguimento di una maggiore efficacia nell’adeguamento a quella che è l’evoluzione normativa.

L’ORGANIZZAZIONE E LO STRESS LAVORO-CORRELATO
Oggigiorno il termine organizzazione è dibattuto fra tre particolari significati:

– assetto organizzativo e quindi componente o parte dell’azienda;

– specifica attività o funzione, rivolta a costruire, realizzare o modificare l’assetto organizzativo di un’azienda;

– riferimento teorico e concettuale, che orienta l’intervento sull’organizzazione e quindi la funzione o attività che consiste nell’organizzare.
Abbiamo visto come adottare buoni modelli di organizzazione aziendale aiuti non solo ad aumentare il valore del prodotto da offrire ai propri clienti ma anche il benessere organizzativo dell’azienda.
Per Benessere Organizzativo Aziendale possiamo intendere “la capacità di un’organizzazione di promuovere e  mantenere il benessere fisico, psicologico e sociale di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori che operano al
suo interno”.
Sono molteplici i fattori che influiscono sul benessere organizzativo di un’azienda: ad esempio il clima aziendale, i bisogni dei dipendenti, le motivazioni e gli interessi, gli obiettivi, i rapporti con i colleghi e datore di lavoro, i carichi di lavoro scarsi o eccessivi, il coinvolgimento, la fiducia e lo stress.
Proprio questo ultimo fattore ci fa evidenziare quanto i rischi di natura psico-sociale siano molto importanti, direi a mio parere fondamentali, per il benessere organizzativo di un’azienda.
Lo stress legato all’attività lavorativa può diventare un problema per l’azienda, in quanto può creare complicazioni a livello organizzativo, di prestazioni individuali e anche a livello economico.

LA MINDFULNESS IN AZIENDA
La Mindfulness è una disciplina molto antica che negli ultimi vent’anni è entrata a far parte anche della cultura occidentale. Portare la Mindfulness in azienda significa puntare al proprio benessere e a quello dei dipendenti.
Un modo concreto, per essere più centrati e consapevoli, e ottenere un incremento naturale della produttività. Vorrebbe dire ridurre lo stress e migliorare il benessere sul posto di lavoro, con conseguente aumento della motivazione, dell’impegno e della produttività dei singoli dipendenti.
La Mindfulness è ormai praticata sia nelle multinazionali che nelle piccole imprese. Offrire a sé stessi, e ai propri collaboratori, la possibilità di meditare sul lavoro, consente di intraprendere percorsi di consapevolezza, per affinare uno strumento potente di benessere e produttività. La pratica della Mindfulness, infatti, favorisce la possibilità di essere in relazione con sé stessi e sviluppare consapevolezza su come il proprio mondo interno sia in rapporto con il
mondo in cui siamo immersi, momento dopo momento. Attraverso la Mindfulness, dunque, si sviluppa la capacità di portare attenzione al momento presente, la consapevolezza e l’accettazione.
Dalle indagini condotte sui benefici ottenuti in seguito alla pratica della Mindfulness in azienda, è scaturito che coloro che si dedicano alle pratiche di consapevolezza basate su questa disciplina, hanno un tono dell’umore
più alto, sono calmi e sereni e riescono a gestire al meglio le tensioni dovute al lavoro.
Lo sviluppo di questa disciplina è fatto coincidere con il lavoro del medico Jon Kabat- Zinn, fautore della tecnica Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR), e la Mindfulness- Based Cognitive Therapy (MBCT), terapia di
stampo di cognitivo – comportamentale, in grado di apportare miglioramenti sia in popolazioni cliniche che non. Inizialmente concepita per apporre beneficio congiuntamente su corpo e mente, questa tecnica ha in seguito
conosciuto un notevole sviluppo nel campo lavorativo, portando diverse aziende leader nei propri settori, tra le quali Google, Apple, Nike, Yahoo!, Deutsche Bank, ad altre ancora, ad investire risorse in questa pratica, nella speranza di coniugare riduzione dello stress nei propri addetti, e benefici operativi.
È innegabile che la situazione attuale nei luoghi di lavoro sia molto stressante. I dipendenti si ritrovano spesso a dover gestire più impegni  allo stesso tempo e il peso delle responsabilità deve essere gestito con efficacia.
Il tanto osannato multitasking, produce in realtà un elevato dispendio di energie. La mente dell’essere umano può concentrarsi al 100% solo su una cosa alla volta: ciò significa che se ne stai facendo due insieme non puoi dare il massimo. Il multitasking finisce per spezzettare la concentrazione e influire negativamente sulla serenità della persona. Portare un livello di stress allo zero non è sicuramente possibile, ma si può provare a ridurlo:  a questo serve la Mindfulness. Gli studi scientifici hanno dimostrato come la pratica costante di meditazione mindfulness
cambi il modo in cui il cervello elabora le informazioni e gestisce lo stress.
Alcune aziende infatti per i manager, il personale, ma anche per la clientela, hanno allestito all’interno dei loro uffici specifici spazi per coltivare il benessere in ambiente lavorativo o particolari momenti formativi strutturati e continuativi capaci di offrire le condizioni necessarie per favorire lo sviluppo e il potenziamento della concentrazione, incrementare le prestazioni, gestire lo stress e determinare le migliori condizioni lavorative.
Molte organizzazioni stanno acquisendo consapevolezza dell’importanza della pausa, nel vorticoso ritmo tipico della vita aziendale.
Senza la capacità di schiacciare ogni tanto il tasto pausa, si perde di vista la propria individualità, il corpo, l’energia e le emozioni e il senso di ciò che si sta facendo. Di conseguenza non si è più in condizione di prendersi cura di queste cose importantissime, che influenzano sia la vita lavorativa che la vita privata. Esistono ad esempio programmi formativi sulla Mindfulness attivati nel contesto lavorativo con cadenza quotidiana o settimanale oppure corsi o ritiri formativi intensivi residenziali della durata di 3-7 giorni finalizzati a rafforzare non solo le abilità lavorative ma
anche empatia, comprensione e spirito di collaborazione tra i colleghi.

 

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IN CONCLUSIONE
Possiamo pertanto concludere con una riflessione legata a tre concetti: l’obbligo normativo, l’opportunità legata a questo obbligo e l’approccio innovativo nella gestione di obbligo e opportunità.
Cambiare la chiave di lettura ci aiuta ad analizzare e gestire in maniera attiva e propositiva gli adempimenti a cui siamo soggetti e sottoposti quotidianamente; senza più considerarli soltanto tali ma gestendoli come una vera e propria risorsa di investimento, innovazione e benessere.

“Una mente che si apre a una nuova idea non torna mai alla dimensione precedente”.
Albert Einstein

 

 

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