Sentenze

Patto di prova: requisito di specificità e rinvio alla contrattazione collettiva nel contratto di lavoro

Cass., sez. Lavoro, 14 gennaio 2022, n. 1099

Andrea di Nino, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1099 del 14 gennaio 2022, si è espressa in merito al requisito di specificità del patto di prova e alla sua declinazione nel contratto individuale di lavoro.
In particolare, i fatti di causa hanno visto una lavoratrice agire al fine di ottenere l’accertamento della nullità del patto di prova apposto al contratto di lavoro a tempo determinato intercorso con un datore di lavoro, il quale aveva operato il recesso per mancato superamento della prova stessa. Al contempo, di conseguenza, il lavoratore chiedeva anche la nullità del recesso datoriale e la condanna dell’azienda al risarcimento del danno, commisurato alle retribuzioni che avrebbe percepito fino alla naturale scadenza del rapporto di lavoro. Tale risarcimento del danno avveniva anche in virtù del difficile reperimento di altra occupazione a seguito del recesso, considerato il proprio status di invalidità a 46%.
La sentenza di primo grado accoglieva quanto avanzato dalla lavoratrice e tale pronuncia veniva ribadita in appello.
In particolare, nei due gradi di giudizio veniva accertato il “difetto di specificità del patto di prova nella individuazione delle mansioni di concreta adibizione della lavoratrice”.
Secondo il giudice d’Appello, infatti, il contratto di lavoro stipulato tra le parti non riportava, in concreto,  l’indicazione dei compiti a cui sarebbe stata adibita la lavoratrice. Difatti, il riferimento nel contratto indivivduale alla figura dell’«addetto ai lavori non rientranti nel ciclo produttivo» rendeva “priva di concretezza la indicazione dei compiti ai quali sarebbe stata adibita la lavoratrice”; analogamente, il rinvio operato dal contratto al «livello I 3» del Ccnl applicato “non conferiva specificità alle mansioni da svolgere in ragione del fatto che la previsione collettiva menzionava fra i compiti riconducibili al detto livello «lavori analoghi a lavori di pulizia», senza ulteriore specificazione o esemplificazione”. Infine, aggiuntivo elemento di incertezza in relazione ai compiti oggetto della prova era costituito dalla clausola del contratto individuale secondo cui le mansioni e gli obiettivi assegnati sarebbero stati specificati soltanto in seguito rispetto al momento dell’assunzione.
Avverso la sentenza di appello il datore di lavoro ricorreva in Cassazione, con diversi motivi di ricorso. In particolare, l’azienda riteneva che “la necessità di specificazione delle mansioni di adibizione al fine del patto di prova non esige che queste debbano essere indicate in dettaglio e la relativa identificazione può avvenire anche per mezzo di rinvio per relationem alla declaratoria del contratto collettivo”. A dire del datore di lavoro, infatti, oltre alla
declaratoria generale il Ccnl forniva evidenza dettagliata dei compiti di riferimento del livello a cui la lavoratrice era inquadrata: in dettaglio, la posizione veniva identificata dal Ccnl come correlata a “lavori di trasporto, carico e carico manuali, pulizia e analoghi, anche con mezzi meccanici”. Tanto premesso, il datore di lavoro riteneva idoneo il rinvio operato “per relationem” nel contratto individuale e riferito al Ccnl, così da integrare il requisito della specificità.
Nel proprio ricorso, l’azienda illustrava come la clausola del contratto individuale, secondo cui mansioni ed obiettivi sarebbe stati specificati soltanto in seguito, non si sarebbe prestata ad essere interpretata – come ritenuto dalla Corte
di merito – nel senso del “difetto di specificità delle mansioni sulle quali avrebbe dovuto espletarsi la prova”, bensì come “rinvio a necessarie «microindicazioni» di servizio con le quali la parte datoriale avrebbe provveduto quotidianamente a precisare il contenuto delle mansioni in funzione del concreto espletamento delle stesse”.
Il ricorso della parte datoriale non ha trovato, però, accoglimento presso la Corte di Cassazione: i giudici di legittimità, infatti, hanno evidenziato come la causa del patto di prova debba essere individuata “nella tutela dell’interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro, in quanto diretto ad attuare un esperimento mediante il quale sia il datore di lavoro che il lavoratore possono verificare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e quest’ultimo, a sua volta, valutando l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto”.
La Suprema Corte ha osservato, inoltre, che “l’esigenza di specificità, che nell’ipotesi di lavoratore parzialmente invalido deve essere valutata con particolare rigore […] è funzionale al corretto esperimento del periodo di prova ed alla valutazione del relativo esito che deve essere effettuata in relazione alla prestazione e mansioni di assegnazione quali individuate nel contratto individuale; la specificazione può avvenire […] anche tramite il rinvio per relationem alle declaratorie del contratto collettivo con riferimento all’inquadramento del lavoratore, sempre che il richiamo sia sufficientemente specifico e riferibile alla nozione classificatoria più dettagliata, sicché, se la categoria di un determinato livello accorpi un pluralità di profili, è necessaria l’indicazione del singolo profilo, mentre risulterebbe generica quella della sola categoria”.
Secondo i giudici la sentenza impugnata non escludeva, in astratto, la possibilità di integrare la clausola del contratto individuale per mezzo del rinvio ai contenuti della qualifica e del livello di inquadramento del contratto collettivo corrispondenti a quelli attribuiti alla lavoratrice. In ogni, caso, tale riferimento non vale “in relazione alla fattispecie in esame a conferire specificità al contenuto delle mansioni sulle quali avrebbe dovuto svolgersi la prova”. Ciò in ragione del fatto che “la declaratoria collettiva relativa alla posizione professionale di inquadramento della lavoratrice evocava fra i compiti di possibile adibizione, accanto a quelli di pulizia, lavori agli
stessi «analoghi»”, ampliando dunque in maniera indefinita l’ambito delle mansioni in concreto riconducibili al livello considerato. Il ricorso del datore di lavoro è stato quindi rigettato, non essendo possibile instaurare alcun automatismo tra richiamo alla contrattazione collettiva e valutazione di specificità della clausola di prova.

 


Mancato rispetto delle norme antinfortunistiche: quando si configura la responsabilità del datore di lavoro

Cass., sez. Penale, 11 gennaio 2022, n. 387

Clarissa Muratori, Consulente del Lavoro in Milano

Con la presente sentenza la Cassazione ribadisce l’importanza del rispetto delle norme antinfortunistiche negli ambienti di lavoro. Il caso verteva sui danni subiti da un lavoratore che utilizzando un macchinario privo di  un sistema automatico di bloccaggio si era procurato delle lesioni personali durante lo svolgimento dell’attività lavorativa.
Il datore di lavoro si difendeva in giudizio affermando che era stata la condotta imprudente del lavoratore a determinare i danni subiti e che quindi la responsabilità del fatto non poteva ricadere sull’azienda.
La Cassazione, nella disamina del caso, ricorda che è compito del datore di lavoro assicurare l’incolumità del personale dipendente nello svolgimento della propria attività lavorativa ivi includendovi anche i casi in cui siano condotte negligenti, imprudenti o prive della necessaria attenzione, purché connesse alla lavorazione svolta, a mettere in pericolo il lavoratore. La normativa antinfortunistica  mira, infatti, tra le altre cose, a salvaguardare
i lavoratori anche da rischi derivanti da azioni improprie, sempre che siano connesse alla lavorazione affidata.
È in linea con tale assunto un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale si può escludere la responsabilità del datore di lavoro solo se la condotta del lavoratore sia stata talmente radicale e lontana da quelle ipotizzabili da configurare un atto ontologicamente lontano e imprevedibile rispetto alla lavorazione svolta. In altre parole, quando il comportamento del lavoratore si ponga al di fuori di ogni controllo ipotizzabile in relazione a quella specifica attività. E tale non può certamente definirsi quel comportamento che seppure imprudente, sia comunque circoscritto e collegato al tipo di mansioni assegnate.
Nel caso di specie non può quindi ammettersi un’interruzione del nesso causale tra condotta ed evento lesivo, configurandosi quindi responsabilità del datore di lavoro per non aver messo in atto tutti gli strumenti necessari a garantire l’incolumità del proprio personale, in particolare l’installazione di un sistema di bloccaggio automatico che permettesse all’operatore imprudente di non ledere la sua persona nello svolgimento del proprio lavoro.

 


Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Riduzione dei finanziamenti regionali del settore

Cass., sez. Lavoro, 28 dicembre 2021, n. 41732

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano 

La Corte di Appello di Palermo, in riforma della pronuncia emessa dal Tribunale della stessa sede in primo grado, ha dichiarato l’inefficacia del licenziamento orale intimato nei confronti del lavoratore e, per l’effetto, ha condannato il datore di lavoro a riammettere in servizio il dipendente e a risarcire il danno commisurato alle retribuzioni maturate fino all’effettiva reintegrazione.
Il Tribunale aveva ritenuto fondata l’eccezione di decadenza, relativamente all’impugnazione del licenziamento, sollevata dal datore di lavoro riconnettendo efficacia risolutiva alla lettera raccomandata, trasmessa al lavoratore, recante l’intimazione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dovuto alla riduzione dei finanziamenti regionali del  settore, la cui presunzione legale di conoscenza, in virtù dell’attestazione dell’ufficiale notificatore, era tale da superare il disconoscimento della firma operato dal lavoratore.
I giudici di seconde cure, invece, premesso che l’accertamento incidentale avente ad oggetto la querela di falso proposta dal lavoratore aveva escluso che la sottoscrizione fosse opera grafica della stessa, hanno rilevato che la verifica della falsità non era surrogabile dalla presunzione che la lettera fosse entrata comunque nella sfera di conoscenza del destinatario in quanto i familiari, escussi in sede testimoniale, avevano dichiarato di non trovarsi in casa nella giornata della notifica; né hanno ritenuto, quale prova che il lavoratore avesse avuto conoscenza della comunicazione del licenziamento a mezzo sindacato di categoria, non risultando la prova del conferimento di alcun mandato.
Esclusa la fondatezza della eccezione di decadenza, la Corte territoriale ha rilevato che l’allontanamento disposto era da considerarsi un licenziamento orale e, pertanto, dichiarata la sua inefficacia, ha riconosciuto la riammissione in servizio e la tutela risarcitoria, pari a tutte le retribuzioni maturate, dalla messa in mora fino alla effettiva reintegrazione.
Per la cassazione della sentenza di secondo grado ricorre il datore di lavoro. Con un unico articolato motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., 115 e 116 c.p.c., nonché l’omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti (art. 360 co. 1, n. 3 e n. 5 c.p.c.), per avere erroneamente ritenuto la Corte di merito surrogabile la presunzione legale di conoscenza della lettera raccomandata, ex art. 1335 c.c., dall’accertamento della falsità della sottoscrizione apposta sull’avviso di ricevimento: ciò attraverso una interpretazione illogica delle risultanze istruttorie.

Il ricorso non è fondato. Le censure di cui al motivo di impugnazione presentano, infatti, profili di infondatezza e di inammissibilità. È infondata l’asserita violazione dell’art. 1335 c.c. che prevede una presunzione di conoscenza (o meglio di conoscibilità) degli atti negoziali comunque superabile mediante prova contraria, come è stato accertato nella fattispecie in esame, non dando luogo la produzione dell’avviso di ricevimento della racomandata ad una presunzione iurìs et de iure di avvenuta ricezione dell’atto, in quanto è sempre possibile la specifica confutazione
della circostanza e la prova contraria (Cass. n. 13488/2011; Cass. n. 12954/2007). In tema di ricorso per cassazione, una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea  valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come
facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (per tutte Cass. Sez. Un. n. 20867/2020): ipotesi, queste, non ravvisabili nel caso in esame.
Inammissibile è anche la asserita violazione dell’art 2697 c. c. che si ha, tecnicamente, nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era gravata in applicazione di detta  norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, abbia ritenuto erroneamente che la parte onerata avesse assolto tale onere, poiché in questo caso vi è un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. (Cass. n. 17313/2020).
Alla stregua di quanto esposto il ricorso va, pertanto, rigettato.


Stress psico-fisico da superlavoro – È necessario dimostrare la correlazione tra la prestazione di lavoro svolta e la condizione di stress

Cass., sez. Lavoro, 14 gennaio 2022 n.1096

Angela Lavazza, Consulente del Lavoro in Milano

Un dipendente comunale, con mansioni di autista di scuolabus, contestualmente ad un incidente stradale occorso mentre era alla guida del pulmino, muore a causa di infarto del miocardio.
Gli eredi propongono ricorso in Cassazione dopo che la Corte di Appello di Lecce aveva rigettato il ricorso per il riconoscimento, in loro favore, della rendita ai superstiti, per il decesso del familiare a seguito di infarto causato dallo stress psico-fisico accumulato negli anni di lavoro in svariate mansioni presso lo stesso Comune.
L’Inail si è opposto con controricorso.
La Corte di Appello aveva escluso, dopo l’istruttoria e la Consulenza medico legale, che l’infarto fosse derivato dallo svolgimento della prestazione lavorativa, anche a seguito della mancata dimostrazione, degli eredi appellati, di prove sui fattori che hanno causato, direttamente o concorso a causare, l’evento mortale.
Nello specifico, mancava ogni allegazione circa l’articolazione dei turni di lavoro, la loro durata e il protrarsi di ore di lavoro straordinario. L’attività svolta dal lavoratore non risultava, per sua natura, correlata a condizioni di stress particolari o che richiedesse lo svolgimento di lavoro straordinario, né ritmi particolarmente usuranti. Peraltro, il medico curante aveva attestato che il lavoratore era esente da patologie.
Pertanto, la Corte di Appello aveva escluso la probabilità che vi fosse un nesso causale tra la morte e la condizione lavorativa, posto che anche la CTU medico legale aveva escluso che, in assenza di prova di uno stato morboso preesistente o di una specifica condizione, si potesse riscontrare un nesso di concause tale da poter confermare la natura professionale dell’evento.
La Suprema Corte afferma che la Corte di Appello ha adeguatamente motivato il rifiuto della richiesta e dichiara inammissibile il ricorso.


 

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Sentenze

Assenza per malattia professionale: conservazione del posto di lavoro e retribuzione

Cass., sez. Lavoro, 26 novembre 2018, n. 30547

Stefano Guglielmi, Consulente del Lavoro in Milano

 

Nel caso di lavoratore assente per malattia professionale è pacifico il diritto alla conservazione del posto di lavoro ma, con riferimento al relativo trattamento retributivo, in assenza di una esplicita esclusione normativa, tenuto conto anche della cornice della garanzia costituzionale, i giudici di merito hanno stabilito che, per evitare una situazione di iniquità per il lavoratore inabile per ragione di lavoro, esso sia dovuto.

Ricorre in Cassazione il datore di lavoro che sostiene la letterale applicazione del Ccnl che nulla cita esplicitamente in tema di retribuzione del lavoratore assente per malattia professionale, spendendosi solo per ribadire l’obbligo di conservazione del posto.

La Suprema Corte rileva che non si possono mettere sullo stesso piano precetti normativi e disposizioni dei Ccnl.

Queste ultime, considerate singolarmente, non possono produrre conseguenze autonome disgiunte dal superiore disposto della Legge.

La Suprema Corte cassa il ricorso del datore di lavoro, sentenziando che in caso di assenza dovuta a ragioni connesse alla prestazione lavorativa, la norma prevede il diritto alla retribuzione al fine di garantire a colui che ha patito un pregiudizio alla salute, dipendente proprio dal contesto lavorativo, un equo trattamento e non, di contro, un ulteriore pregiudizio economico.

Le norme devono sempre essere interpretate nel loro complesso e nella cornice della garanzia costituzionale, tenendo conto dello scopo della disciplina in esame, finalizzata a realizzare una regolamentazione di miglior favore per coloro che hanno subito il più grave pregiudizio di una assenza causata dall’ambiente di lavoro.


 

Doppio licenziamento e applicazione del ne bis in idem nel caso di licenziamento

Cass., sez. Lavoro, 23 ottobre  2018, n. 26815

Silvana Pagella, Consulente del Lavoro in Milano

Un direttore di banca viene licenziato perché, abusando della propria posizione, aveva incaricato i colleghi di fare la spesa per suo conto in orario di servizio o di timbrare al suo posto il cartellino mentre era assente dal lavoro.

La questione si era chiusa con l’annullamento del provvedimento di licenziamento (Cass., sez. Lavoro, 6 novembre 2014, n. 23669).

In data 5.12.2014 la banca irroga un nuovo licenziamento al direttore, specificando puntualmente i singoli episodi  oggetto della condotta contestata con il primo provvedimento.

La Corte di Appello di Venezia, nel confermare la decisione del Tribunale di Padova che aveva dichiarato nullo e ritorsivo il secondo licenziamento, rilevava che i fatti contestati non erano altro che mere esplicazioni del precedente modus operandi sui quali si era già espresso e consumato il potere sanzionatorio del datore di lavoro.

Il principio di consunzione, ricorda la sentenza della Corte di Cassazione, esaurisce il diritto  del datore di lavoro di esercitare il potere disciplinare per gli stessi fatti oggetto di una precedente pronuncia giudiziale (ne bis in idem).

Il potere disciplinare del datore di lavoro non viene meno invece, quando la seconda contestazione abbia ad oggetto fatti che pur della stessa indole dei precedenti, siano avvenuti in circostanze diverse e successive sia di tempo che di luogo.

Cio’ detto, nel caso di specie, essendo il secondo licenziamento una duplicazione del primo, gli Ermellini dichiarano illegittima la condotta datoriale, rigettano il ricorso del datore di lavoro e confermano la sentenza di merito.



Tipizzazione dell’illecito disciplinare

Cass., sez. Lavoro, 17 ottobre 2018, n. 26013

Barbara Brusasca, Consulente del Lavoro in Milano e in Pavia

Il fatto contestato nel caso di specie, l’aver ingiuriato i colleghi, può essere ex ante inquadrabile tra le condotte che legittimano l’adozione di provvedimenti disciplinari conservativi ed espulsivi.

Il contratto collettivo di riferimento inserisce l’ingiuria ai colleghi tra le condotte punibili con sanzioni conservative salvo che la condotta stessa possa costituire una più grave mancanza e per questo essere sanzionata con il provvedimento espulsivo del licenziamento.

La Corte distrettuale nel confermare l’annullamento del licenziamento contenuto nella sentenza del Tribunale, parte dal presupposto errato della tipizzazione delle specifiche ipotesi di illecito. Nel contratto collettivo di riferimento non c’è un elenco tipizzato di condotte cui corrispondono altrettante sanzioni.

L’indicazione contenuta nella lettera k) dell’art. 40 del Ccnl, dove si fa salva l’eventualità che la stessa condotta, per modalità e quant’altro, possa rientrare tra quelle punibili con sanzioni espulsive, consente di far rientrare la fattispecie delle ingiurie ai colleghi tra quelle sanzionabili con il licenziamento così come avvenuto nel caso esaminato.

La Suprema Corte accoglie quindi il ricorso della società cassando la sentenza della Corte d’Appello di Milano.


Reintegra del lavoratore licenziato per mancato rispetto dei principi di anzianità e carichi di famiglia

Cass., sez. Lavoro, 25 ottobre  2018, n. 27094

Riccardo Bellocchio, Consulente del Lavoro in Milano e Alessia Adelardi, Ricercatrice del Centro Studi e Ricerche

 

La sentenza in esame, emessa dalla Corte di Cassazione, si basa sul ricorso presentato da un’azienda che era stata condannata dalla Corte di Appello di Napoli alla reintegra e al risarcimento di una dipendente licenziata per giustificato motivo oggettivo dovuta ad una riorganizzazione aziendale. Il licenziamento individuale veniva considerato illegittimo, anche se non discriminatorio, perché violava i principi di buona fede e correttezza in quanto la lavoratrice licenziata, a parità di mansioni, possedeva maggiori carichi di famiglia e anzianità di servizio.

L’azienda, con il ricorso in Cassazione, sosteneva che non ci fosse fungibilità completa tra le mansioni svolte dalla lavoratrice licenziata ed il collega, per cui non vi era stata alcuna preferenza del secondo rispetto alla prima. Inoltre, il datore di lavoro addebitava alla corte territoriale un’ingerenza nell’organizzazione dell’attività di impresa.

La Corte di Cassazione ha dapprima precisato che, ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro non deve necessariamente provare l’andamento economico negativo dell’azienda, essendo sufficienti le ragioni inerenti l’attività produttiva, per cui la scelta imprenditoriale che comporta la soppressione di un posto di lavoro non è sindacabile nei profili di congruità ed opportunità. La Cassazione sottolinea però che se la riduzione del personale non verte su una soppressione tout court della posizione lavorativa, ma avviene in uno specifico reparto, è necessario che il datore di lavoro effettui una valutazione comparativa tra lavoratori di pari livello ed occupati in posizioni di piena fungibilità, per cui la Corte territoriale aveva correttamente applicato i principi di buona fede e correttezza senza in alcun modo minare la libertà di scelta imprenditoriale.

La Cassazione rigettava il ricorso, facendo sì che, in assenza di parametri stabiliti da accordi sindacali, anche nei casi di licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, si applichino i principi dettati in caso di licenziamenti collettivi.


Licenziamento collettivo: la comunicazione ai sindacati è obbligatoria e deve essere tempestiva

Cass., sez. Lavoro, 13 novembre 2018, n. 29183

Andrea Di Nino, Consulente del Lavoro in Milano

 

La Corte di Cassazione ha determinato come il datore di lavoro che intenda cessare l’attività e licenziare tutti i dipendenti – salvo un gruppo individuato ai fini dei relativi adempimenti di liquidazione – debba effettuare la comunicazione alle organizzazioni sindacali e ai competenti uffici per il lavoro, prevista dall’articolo 4, comma 9, della Legge n. 223/1991, a pena di inefficacia del licenziamento. La procedura deve avvenire anche se i criteri di scelta adottati – determinati dalla chiusura dell’attività – risultano essere i medesimi per tutti i lavoratori coinvolti.

La norma in oggetto prevede espressamente che, a seguito di licenziamento collettivo, il datore di lavoro debba trasmettere all’Ufficio regionale del lavoro e della massima occupazione competente, alla Commissione regionale per l’impiego e alle organizzazioni sindacali l’elenco dei lavoratori licenziati, con l’indicazione per ciascun soggetto del nominativo, del luogo di residenza, della qualifica, del livello di inquadramento, dell’età, del carico di famiglia, nonché la puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta. La comunicazione deve avvenire per iscritto ed entro sette giorni dalla comunicazione dei recessi.

La Suprema Corte, nel caso specifico, ha deliberato nei confronti di un’azienda che, pur avendo comunicato il recesso ai lavoratori il 10 ottobre 2013, inviava le comunicazioni all’Ufficio regionale per il lavoro e all’Inps in data 9 gennaio 2014 e alle organizzazioni sindacali il 4 marzo 2014: il licenziamento riguardava tutti i lavoratori, fatto salvo un ristretto gruppo di tecnici coinvolti nelle operazioni di liquidazione, e risultava dettato dalla medesima causale, con la conseguenza che il datore di lavoro aveva ritenuto irrilevante l’espletamento delle comunicazioni in oggetto nei termini previsti. Nei fatti la comunicazione era dunque avvenuta, ma non con i criteri di tempestività prescritti dalla norma: la Corte, nella sentenza, specifica come tale adempimento sia finalizzato a dare evidenza dei criteri di scelta adottati e delle modalità applicative propedeutiche alla procedura di licenziamento, per dovere di trasparenza nei confronti del lavoratore licenziato e per fornirgli gli strumenti per contestare, eventualmente, la misura espulsiva. Ciò, a detta della Corte, deve avvenire “anche in ipotesi di un unico criterio selettivo che riguardi tutti i lavoratori e in un contesto di cessazione dell’attività e di azzeramento del personale. In tal tale caso, infatti, anche solo la gradualità delle operazioni di chiusura, e la permanenza, sia pur temporanea, di taluni lavoratori, finalizzata al completamento delle operazioni ultimative, richiede la applicazione di criteri di scelta predeterminati controllabili da tutti i soggetti interessati”.

Nella fattispecie in esame, dalla sentenza emerge come la contestualità tra comunicazione dei recessi e informativa alle parti sociali sui criteri di scelta si giustifichi come strumento per le organizzazioni sindacali – e, di conseguenza, anche per i singoli lavoratori – ai fini del controllo sulla correttezza nell’applicazione dei criteri da parte del datore di lavoro, anche in un’ottica di possibile richiesta di revoca del licenziamento ritenuto illegittimo. Ne consegue che non è ammissibile un’accezione elastica di detta contestualità, in mancanza della quale il lavoratore potrebbe trovarsi nella paradossale situazione di dover impugnare il licenziamento senza la previa conoscenza dei criteri di scelta che l’hanno determinato: la comunicazione deve dunque avvenire nei tempi prescritti dalla norma, corredata dalle modalità di attuazione dei criteri di scelta e la comparazione tra tutte le professionalità del personale in servizio rispetto allo scopo perseguito, senza che assuma rilievo l’unicità del criterio adottato ancorché concordato con le organizzazioni sindacali.

 

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Sentenze

Reintegra della lavoratrice che viola la prassi dell’azienda per colpa del superiore gerarchico

Cass., sez. Lavoro, 26 ottobre 2018, n. 27238

Patrizia Masi, Consulente del Lavoro in Milano

La Corte di Appello di Ancona, al termine del dibattimento, dichiarava illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad una dipendente di Poste Italiane Spa, dichiarando comunque risolto il rapporto di lavoro e condannando il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria pari a 18 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Il licenziamento verteva su quattro episodi oggetto di contestazione disciplinare. La dipendente ricorreva alla Suprema Corte con ricorso  affidato a tre motivi, cui resisteva con controricorso e ricorso incidentale il datore di lavoro.

  1. Violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 c.c. e 80 del Ccnl per difetto di una giusta causa di recesso, anche in relazione all’art. 54, co. 6, lett. a) del Ccnl, nonché per travisamento, omessa e carente valutazione di elementi probatori decisivi;
  2. mancato accoglimento dell’eccezione di tardività della contestazione e del licenziamento, anche in relazione al principio di immutabilità della contestazione, nonché per violazione dell’art. 2697 c.c.;
  3. violazione e falsa applicazione dell’art. 7, L. n. 300 del 1970, dell’art. 53, co. 4, Ccnl, dell’art. 18, co. 4, L. n. 300 del 1970, come modificato dalla L. n. 92 del 2012; nonché per carenza assoluta di proporzionalità della sanzione, ritenendo erroneo ricondurre la fattispecie  concretamente accertata alla previsione di cui all’art. 54, co. 6, lett. a) del Ccnl, anziché sussumere la stessa tra le condotte punibili con sanzione conservativa, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria.

La Corte annulla la sentenza con rinvio alla medesima Corte d’Appello in diversa composizione, giudicando come sproporzionato il licenziamento per giusta causa inflitto alla lavoratrice, rea di aver violato le procedure aziendali ma senza dolo, in quanto era stato il superiore gerarchico ad imporle il comportamento illecito che la stessa non era in grado di percepire come illegittimo. Il Ccnl applicato dall’azienda punisce con una sanzione conservativa la violazione delle procedure aziendali in mancanza di dolo, prevedendo invece la sanzione espulsiva solo se il dipendente è consapevole della gravità della condotta posta in essere e fornisce, mediante un tacito consenso, un contributo alla sua realizzazione. La Suprema Corte accoglie, dunque, il ricorso in quanto la Corte d’Appello ha escluso che il comportamento della stessa potesse rientrare nelle condotte punibili con la mera sanzione conservativa; cassa, come detto, quindi la sentenza rinviandola a nuova valutazione ai fini della reintegra nonché della regolamentazione delle spese del giudizio.


Indennità di cessazione del rapporto di agenzia: nel calcolo non rientrano le provvigioni prodotte dalla rete di agenti

Cass., sez. Lavoro, 15 ottobre 2018, n. 25740

Stefano Guglielmi, Consulente del lavoro in Milano

In occasione della cessazione di un rapporto di agenzia l’art. 1751 c.c. riconosce all’agente un’indennità che va determinata soltanto se e in quanto egli abbia procurato nuovi clienti al soggetto preponente o con clienti già in essere abbia incrementato i volumi di fatturato in primis. Inoltre è necessario che, terminato il rapporto di agenzia, il soggetto preponente continui a trarre beneficio da  questo pacchetto di clientela con un vantaggio economico che si protragga nel tempo.

I due elementi di cui sopra devono sussistere congiuntamente e non alternativamente.

Nella sentenza in commento l’agente ha calcolato la propria indennità di cessazione del rapporto di agenzia inserendo nel monte provvigioni anche quelle generate dalla rete di agenti di cui era coordinatore. L’indennità sulle provvigioni, stante i principi sopra enunciati, generate da ogni singolo agente verranno pagate direttamente a quest’ultimo; da escludersi un doppio pagamento in capo al preponente, che la legge non prevede.

La Corte di Cassazione respinge il ricorso dell’agente affermando che le provvigioni maturate dalla rete di vendita coordinata da un agente non concorrono nella determinazione dell’indennità di scioglimento del contratto.

Queste provvigioni infatti non sono corrisposte per affari personalmente procurati dall’agente ma da altri soggetti che a lui fanno capo.


Un singolo componente delle R.S.U. può indire un’assemblea sul posto di lavoro?

Cass., sez. Lavoro, 18 ottobre 2018, n. 26210

Angela Lavazza, Consulente del lavoro in Milano

La Federazione Lavoratori Metalmeccanici Uniti CUB di Roma e provincia ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza con la quale la Corte di Appello di Roma accoglieva l’opposizione di una società, dichiarando insussistente il denunciato comportamento antisindacale.

L’impugnata sentenza si riferisce al fatto che la società  aveva rifiutato il permesso di assemblea perché indetta soltanto da un singolo componente R.S.U..Il ricorso per cassazione della Federazione si fonda principalmente sulla violazione e falsa applicazione degli accordi collettivi nazionali di lavoro, degli artt. 2, 3, 39 e 11 della Costituzione, degli artt. 112 e 113 c.p.c., degli artt. 19 e 20 della L. n. 300 del 1970 e dell’Accordo Interconfederale 20 dicembre 1993, art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c..

La Suprema Corte accoglie il ricorso, in base al principio secondo cui l’autonomia collettiva può prevedere organismi di rappresentatività sindacale in azienda diversi rispetto alle rappresentanze sindacali aziendali, assegnando ad essi prerogative sindacali non necessariamente identiche a quelle delle R.S.A., con l’unico limite, di cui all’art. 17 della L. n. 300 del 1970, del divieto di riconoscere ad un sindacato un’ingiustificata posizione differenziata, che lo collochi quale interlocutore privilegiato del datore di lavoro. Ne consegue che il combinato di sposto degli artt. 4 e 5 dell’Accordo Interconfederale del 20 dicembre 1993 (istitutivo delle R.S.U.), deve essere interpretato nel senso che il diritto d’indire assemblee, di cui all’art. 20 della L. n. 300/1970, rientra quale specifica agibilità sindacale, tra le prerogative attribuite non solo alla R.S.U., considerata collegialmente, ma anche a ciascun componente della R.S.U. stessa, purché questi sia stato eletto nelle liste di un sindacato che, nell’azienda di riferimento, sia di fatto dotato di rappresentatività, ai sensi dell’art. 19 della L. n. 300/1970.

E, prosegue la Suprema Corte, cio’ vuole dire che, nell’ottica delle eccezioni stabilite dall’Accordo Interconfederale, una data associazione sindacale, malgrado la sua presenza all’interno della R.S.U., può anche singolarmente indire l’assemblea, ovvero che non tutti i diritti attribuiti dalla legge alla singola R.S.A. sono stati attratti e si sono disgregati all’interno delle R.S.U. L’impugnata sentenza è cassata e rinviata alla Corte di merito per un nuovo esame della controversia, che dovrà accertare, sulla singola rappresentanza, il requisito della partecipazione alla negoziazione, relativa agli accordi collettivi applicati nell’unità produttiva di riferimento, ai sensi dei principi di cui alla sentenza della Corte Costituzionale n. 231 del 2013.



Il preavviso di licenziamento ha efficacia obbligatoria, ma la contrattazione collettiva può derogare

Cass., sez. Lavoro, 26 ottobre 2018, n. 27294

Andrea di Nino, Consulente del Lavoro in Milano

ll preavviso di licenziamento ha efficacia obbligatoria: è quanto ribadito dalla Corte di Cassazione che conferma l’indirizzo ormai assunto dalla giurisprudenza a riguardo.

L’unico obbligo del recedente consiste – riporta la sentenza della Suprema Corte – nel corrispondere l’indennità sostitutiva in caso di recesso immediato, in virtù dell’istantanea risoluzione del rapporto di lavoro in tutti i suoi effetti. L’importanza della pronuncia rileva ai fini della divergenza di indirizzi circa l’efficacia – quando intesa come reale, quando come obbligatoria – del preavviso di licenziamento. Nella prima fattispecie, è contemplata l’impossibilità di recesso immediato del rapporto di lavoro, anche in caso di liquidazione dell’indennità sostitutiva del preavviso: ne deriva che lo stesso continua – anche in assenza di prestazione lavorativa – a dispiegarsi in tutti i suoi effetti fino all’ultimo giorno di preavviso dovuto.

Da tale impostazione scaturisce il rischio che il lavoratore adotti comportamenti ostruzionistici, quali la malattia simulata in costanza di preavviso al fine di sospenderne gli effetti e mantenere il posto di lavoro nel corso del periodo di comporto. Nella seconda fattispecie, invece, l’interpretazione del preavviso di licenziamento assume forma obbligatoria: il recesso ha carattere immediato, il lavoratore vede cessare da subito il suo rapporto di dipendenza senza lavorare nel periodo di preavviso e il contratto di lavoro – nella sua natura sinallagmatica e obbligatoria – viene istantaneamente meno.

Appare chiaro come l’interpretazione di efficacia obbligatoria del preavviso di licenziamento risulti più tutelante nei confronti del datore di lavoro, che vede risolto immediatamente e in ogni suo effetto il rapporto di lavoro in virtù dell’erogazione dell’indennità sostitutiva del preavviso. Questa lettura ha assunto, negli anni, maggiore solidità e viene ribadita dalla Cassazione anche in questa occasione, che esprime come l’art. 2118 c.c. attribuisca al preavviso di licenziamento “efficacia meramente obbligatoria, con la conseguenza che nel caso in cui una delle parti eserciti la facoltà di recedere con effetto immediato il rapporto di lavoro si risolve altrettanto immediatamente, con l’unico obbligo della parte recedente di corrispondere l’ indennità sostitutiva e senza che da tale momento possano avere influenza eventuali avvenimenti sopravvenuti”, ovviamente a meno che il rapporto di lavoro non si protragga fino al termine del periodo di preavviso.

Al fine di una lettura più organica e critica della pronuncia, rileva anche il riferimento ad un’altra sentenza dei giudici della Corte – la n. 17248 del 27 agosto 2015 – che vede l’indennità sostitutiva del preavviso considerata come elemento non rientrante nella base di computo ai fini della determinazione del Tfr, in quanto non correlata al rapporto di lavoro ma avente natura meramente indennitaria, riferendosi ad un periodo non lavorato. Nella sua ultima sentenza, la Corte di Cassazione fornisce in chiusura un altro rilevante indirizzo: all’efficacia obbligatoria del preavviso può derogare la contrattazione collettiva, che a riguardo ha libertà di disporre che nel corso del periodo di preavviso le disposizioni di natura economica e normativa e le norme previdenziali e assistenziali previste dalla legge e dai contratti continuino a trovare applicazione, attribuendo dunque a tale istituto efficacia reale.


Corresponsione per errore di emolumenti al lavoratore: a chi spetta dimostrare l’indebito?

Cass., sez. Lavoro, 13 settembre 2018, n. 22387

Sabrina Pagani, Consulente del lavoro in Milano

In caso di pagamento al lavoratore dipendente di emolumenti indebiti, ai fini della loro ripetibilità, spetta al datore di lavoro provare che il pagamento è stato effettuato per errore, e non al lavoratore provare l’effettiva permanenza del titolo retributivo anche dopo la cessazione della causa debendi.

Così con la sentenza 13 settembre 2018, n. 22387 la Suprema Corte ha cassato una pronuncia della Corte d’Appello di Torino, che avevai)rigettato la richiesta del lavoratore di computo ai fini del TFR e della pensione integrativa aziendale di un “contributo mensile per spese viaggio” che l’azienda aveva continuato a corrispondergli per quattro anni anche dopo la cessazione del distacco che ne aveva originato l’erogazione e ii) aveva accolto la domanda riconvenzionale dell’azienda di restituzione da parte del lavoratore dei pagamenti in questione, divenuti oggettivamente indebiti exart. 2033 c.c. proprio a motivo della cessazione del distacco.

Nello sviluppo del giudizio si confrontano due posizioni ben distinte sullo specifico tema della ripetibilità di emolumenti erogati per errore da parte del datore di lavoro.

La posizione dell’azienda poggia su una interpretazione “purista” dell’art. 2033 c.c.: al datore di lavoro in quanto solvens compete determinare la causa di ciascun pagamento sicché in una sua eventuale successiva azione di ripetizione egli dovrà solo dimostrare l’inesistenza di quella causa, mentre incomberà al lavoratore, in quanto accipiens, la dimostrazione di un nuovo titolo per la sua attribuzione.

Dall’altra quella del lavoratore, che denuncia la violazione e falsa applicazione proprio dell’art. 2033 c.c., nonché degli artt. 2099, 2697 c.c., e degli artt. 49 e 51 TUIR, per aver la Corte territoriale di Torino ritenuto automaticamente indebite le somme percepite quale “contributo mensile per spese viaggio” dopo la cessazione del titolo (il distacco) originariamente stabilito dal datore; e dell’art. 112 c.p.c., per avere detta Corte d’Appello ritenuto che egli fosse tenuto ad allegare e provare una fonte di debito alternativa che giustificasse l’erogazione delle somme, una volta esclusa la sussistenza del titolo cui il solvens aveva imputato il pagamento.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso del lavoratore, ritenendo che la natura retributiva di un reiterato e costante pagamento che si verifichi nell’ambito di un rapporto di lavoro vada presunta, anche in relazione agli “affidamenti che in tal modo necessariamente si creano all’ interno del rapporto stesso”.

In presenza di erogazioni di cui assuma la natura indebita spetta, dunque, al datore di lavoro dimostrare l’insussistenza della natura retributiva, provando l’effettivo e concreto verificarsi di un errore del consenso ai sensi dell’art. 1427 e ss. c.c., oppure l’insussistenza o l’inidoneità giuridica dei fatti che il lavoratore adduca quale fondamento della propria persistente pretesa retributiva anche dopo il venir meno della causa originaria del pagamento.

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