L’impatto della declaratoria di incostituzionalità del “cuore” del Jobs Act sul contenzioso lavoristico e sulle altre disposizioni del D.lgs. n. 23/2015

di Gionata Cavallini, Dottorando di ricerca in diritto del lavoro nell’Università degli Studi di Milano, Avvocato in Milano

 

  1. Premessa

Come è ormai noto nella comunità degli interpreti, con sentenza n. 194/2018 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, co. 1, D.lgs. n. 23/2015, nella parte in cui prevede che l’importo dell’indennità dovuta in caso di licenziamento ingiustificato dei lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 sia determinata nella misura fissa di due mensilità per ogni anno di servizio, anziché prevedere che il giudice possa graduare detta indennità tenendo conto di fattori diversi, quali il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’impresa, il comportamento e le condizioni delle parti, nonché le dimensioni dell’attività economica (parametri già previsti dall’art. 8, L. n. 604/1966, e dall’art. 18, co. 5, St. lav.).

Il Giudice delle leggi ha dunque parzialmente accolto le questioni di legittimità costituzionale sollevate la scorsa estate dalla nota ordinanza del Tribunale di Roma 1, la quale aveva dato luogo a un vivace dibattito in dottrina, chiamata a interrogarsi sulla fondatezza delle censure mosse al “cuore” del Jobs Act, mostrando spesso un certo scetticismo rispetto alla possibilità di una sentenza di accoglimento 2.. La decisione ha così ridisegnato il sistema delle tutele spettanti al lavoratore illegittimamente licenziato, pur senza mettere in discussione il marcato superamento della tutela reintegratoria, perseguito dal Legislatore del Jobs Act e confermato anche dai successivi interventi del nuovo esecutivo.

La pronuncia della Corte costituzionale si sofferma su una pluralità di questioni – e, in particolare, sul fondamento costituzionale della tutela avverso il licenziamento ingiustificato – ed è senz’altro destinata ad alimentare un dibattito che segnerà i prossimi anni, già aperto dai primi commentatori3.. D’altronde, si tratta della prima sentenza emessa dal Giudice delle leggi dopo la stagione delle riforme della disciplina dei licenziamenti, ad opera dapprima della c.d. Legge Fornero (L. n. 92/2012, che ha novellato l’art. 18, St. lav.) e quindi del Jobs Act (D.lgs. n. 23/2015).

Senza qui soffermarsi sulle motivazioni della decisione, di cui si è già parlato anche sull’ultimo numero di questa Rivista4, il presente contributo si propone solo di sviluppare alcune considerazioni di carattere pratico-operativo, per verificare l’impatto che la (parziale) declaratoria di illegittimità costituzionale del Jobs Act potrà avere sulle controversie in materia di licenziamenti (sia quelle pendenti che quelle future) nonché sulle disposizioni del D.lgs. n. 23/2015 che non hanno formato oggetto di censura da parte della Corte costituzionale, ma che risultano strettamente connesse alla norma dichiarata costituzionalmente illegittima (in particolare, gli artt. 4, 6, 9 e 10 del D.lgs. n. 23/2015).

  1. L’impatto della pronuncia sul contenzioso futuro

Un primo, prevedibile, effetto della pronuncia sarà plausibilmente un incremento del contenzioso in materia di licenziamenti, oltre che del suo valore economico. Tale risultato, peraltro, si deve alla combinazione della sentenza in esame con le altre due novità rappresentate, rispettivamente, dalla recente sentenza della Corte costituzionale n. 77/2018 e dal c.d. Decreto Dignità (D.l. n. 87/2018, conv. in L. n. 96/2018).

Con la sentenza n. 77/20185, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 92, co. 2, c.p.c. (come modificato dall’art. 13, co. 1, D.l. n. 132/2014), nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese di lite tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano “gravi ed eccezionali ragioni”. È noto che l’istituto della compensazione delle spese di lite ha da sempre trovato particolare applicazione nell’ambito delle controversie di lavoro e che, negli ultimi anni, il divieto di compensazione sancito dal nuovo art. 92 c.p.c. aveva funto da deterrente alla proposizione di azioni giudiziarie da parte dei lavoratori, comprensibilmente preoccupati dalla prospettiva di una pesante condanna alle spese. Con la reintroduzione, ad opera del Giudice delle leggi, della possibilità per il giudice di compensare le spese di lite per «gravi ragioni» (quali, ad esempio, le condizioni economiche del lavoratore soccombente), la strada del contenzioso torna ad essere più appetibile.

Nel contempo, il provvedimento varato quest’estate dal nuovo esecutivo (c.d. Decreto Dignità) 6ha innalzato da 4-24 mensilità a 6-36 mensilità la cornice edittale di riferimento entro la quale il giudice potrà oggi determinare la misura dell’indennità da licenziamento illegittimo (cfr. l’art. 3, D.l. n. 87/2018), incrementando così notevolmente le utilità potenzialmente conseguibili all’esito dell’azione giudiziaria e, ancor prima, rafforzando la posizione del lavoratore nell’ambito della trattativa pregiudiziale.

  1. L’impatto della pronuncia sulle controversie pendenti

È indubbio che il dictum di C. Cost. n. 194/2018 sia pienamente applicabile anche ai licenziamenti intimati prima della pubblicazione della decisione, in ragione della pacifica retroattività delle declaratorie di illegittimità costituzionale, che incontrano un limite solo nei rapporti esauriti7.

Quanto ai limiti minimi e massimi entro cui può oggi essere determinata l’indennità, invece, deve essere rilevato che la prima giurisprudenza formatasi all’indomani della sentenza della Corte costituzionale ha ritenuto, con motivazioni non del tutto persuasive, che la nuova cornice edittale di 6-36 mensilità non si applica ai procedimenti relativi ai licenziamenti intimati prima dell’entrata in vigore del Decreto Dignità, per i quali il giudice dovrà muoversi all’interno della precedente forbice compresa tra le 4 e le 24 mensilità8.

Sotto diverso profilo, rispetto ai procedimenti pendenti si pone il problema pratico di capire se e come il giudice possa estendere la propria cognizione a quelle circostanze di fatto, relative ai parametri che devono essere utilizzati per determinare la misura dell’indennità secondo le indicazioni della Corte costituzionale (numero di dipendenti occupati, dimensioni dell’impresa e dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti…), laddove il ricorrente non ne avesse già fatto allegazione nel ricorso introduttivo, in quanto sostanzialmente irrilevanti secondo la legge applicabile al momento della litispendenza.

Ad avviso di chi scrive, il giudice dovrebbe tentare di desumere tali elementi dagli atti di causa (d’altronde quale ricorso non contiene in narrativa un riferimento alle dimensioni dell’impresa, al numero dei dipendenti, al fatturato?) e, solo ove ciò non sia possibile, dovrebbe esercitare i propri poteri istruttori ex art. 421 c.p.c. per assumere tutte le informazioni necessarie per determinare l’indennità dovuta al lavoratore, eventualmente assegnando alle parti un termine per il deposito di memorie integrative.

  1. L’impatto della pronuncia sulle disposizioni del D.lgs. n. 23/2015 non direttamente censurate

Occorre poi chiedersi come la pronuncia della Corte costituzionale impatti sulle altre previsioni del D.lgs. n. 23/2015 che non hanno formato oggetto diretto dello scrutinio del Giudice delle leggi, per verificare se esse vengono travolte o meno dalla declaratoria di incostituzionalità dell’art. 3, co. 1, D.lgs. n. 23/2015.

Nel sistema del D.lgs. n. 23/2015, infatti, la previsione dichiarata costituzionalmente illegittima non rappresentava una norma isolata e autonoma rispetto alle altre disposizioni del decreto. All’art. 3, infatti, fanno rinvio diretto altre disposizioni (artt. 9 e 10), mentre altre ancora ne mutuano la ratio di fondo di ancorare alla sola anzianità di servizio il quantum debeatur (artt. 4 e 6).

La declaratoria di incostituzionalità dell’art. 3, co. 1,  ha senz’altro un impatto su tutte queste previsioni, seppure in termini diversi.

Quanto all’art. 4, D.lgs. n. 23/2015 (che prevede che in caso di vizi formali e procedurali al lavoratore spetti un’indennità di importo pari a una mensilità per anno di servizio) la Corte ne ha dichiarato esplicitamente l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale (punto 5.1.2 e 5.3 della decisione).

La suddetta disposizione, infatti, era pacificamente inapplicabile nell’ambito del giudizio a quo (ove era stato ritenuto sostanzialmente ingiustificato un licenziamento intimato per asseriti motivi economici) e non poteva quindi formare oggetto del giudizio incidentale di legittimità costituzionale.

Ciò non toglie, tuttavia, che il meccanismo di calcolo di cui all’art. 4 è modellato esattamente sulla falsariga di quello censurato dalla Corte, sicché pare che la previsione non potrà che essere dichiarata incostituzionale alla prima occasione utile, non appena cioè la Corte sarà investita della questione da parte di un giudice che si trovi di fronte a un licenziamento affetto esclusivamente da vizi formali o procedurali9. Restiamo dunque in attesa degli sviluppi.

Per quanto concerne invece gli artt. 9 e 10, D.lgs. n. 23/2015, non pare esservi alcuna necessità di un ulteriore intervento da parte del Giudice delle leggi. Le suddette disposizioni fanno infatti entrambe rinvio diretto alla norma dichiarata incostituzionale, per determinare le indennità dovute in caso di licenziamenti intimati da piccole imprese (art. 9, che prevede l’applicazione dell’art. 3, co. 1, con dimezzamento degli importi e fissazione del tetto massimo di 6 mensilità) e in caso di licenziamenti collettivi (art. 10, che si limita a rinviare in toto all’art. 3, co. 1).

L’incostituzionalità dell’art. 3, co. 1, pertanto, si ripercuote direttamente “a cascata” sugli artt. 9 e 10,

determinando la necessità che il giudice, nel farne applicazione, determini la misura dell’indennità facendo ricorso ai parametri, ulteriori e diversi rispetto alla sola anzianità di servizio, indicati dalla Corte.

Un discorso ancora diverso merita invece la previsione di cui all’art. 6, D.lgs. n. 23/2015, che ha introdotto una nuova modalità di conciliazione stragiudiziale prevedendo che il datore di lavoro possa offrire al lavoratore, entro sessanta giorni dal licenziamento, un importo esente da Irpef e da contribuzione previdenziale di ammontare pari a una mensilità per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a tre e non superiore a ventisette mensilità (dopo le modifiche del Decreto Dignità). Certo anche tale previsione replica il meccanismo di calcolo censurato dalla Corte, ma essa non riguarda le modalità di determinazione di un’indennità, ma solo della somma che può essere offerta al lavoratore a titolo conciliativo, sicché non sembrano esservi margini per lamentarne l’incostituzionalità.

Tuttavia, sebbene la norma non venga toccata dal punto di vista strettamente giuridico dalla pronuncia della Corte, dal punto di vista pratico-operativo essa ne esce notevolmente depotenziata. È infatti evidente che a fronte del deciso innalzamento delle utilità ricavabili con il giudizio, l’ipotesi che il lavoratore voglia accettare quei “pochi, maledetti e subito” diventa decisamente meno plausibile, come già rilevato dai primi osservatori10. Si tratta, tuttavia, di un’incongruenza che solo il Legislatore, se lo riterrà, potrà appianare

1.Tribunale di Roma 26 luglio 2017, tra l’altro in Lav.giur., n.10/2017, pag. 897 ss.

2.Commenti all’ordinanza romana possono leggersi in F. Carinci, Una rondine non fa primavera: la rimessione del contratto a tutele crescenti alla Corte costituzionale, Lav.giur., n. 10/2017, pag. 902 ss.; P. Ichino, La questione di costituzionalità della nuova disciplina dei licenziamenti, www.pietroichino.it, 3 agosto 2017; S. D’Ascola, Appunti sulla questione di costituzionalità del licenziamento a tutele crescenti, Labor, n. 2/2018, pag. 228 ss., ove esaustivi riferimenti alle posizioni della dottrina.

3.Tra i primi commenti, M.T. Carinci, La Corte costituzionale n. 194/2018 ridisegna le tutele economiche per il licenziamento individuale ingiustificato nel “Jobs Act”, e oltre, WP CSDLE.it, n. 378/2018, reperibile in http://csdle.lex.unict.it; O. Mazzotta, Cosa ci insegna la Corte costituzionale sul contratto a tutele crescenti, in www.rivistalabor.it, 1 dicembre 2018.

4.C.J. Favaloro, R. Vannocci, Sentenza n. 194/2018 della Corte Costituzionale: facciamo un po’ di chiarezza, Sintesi, n. 11/2018, pag. 16 ss.

5.C. Cost., 19 aprile 2018, n. 77, tra l’altro in Riv. giur. lav., n. 3/2018, pag. 403, con nota di G. Costantino, Sulla compensazione delle spese giudiziali e sulla discrezionalità del legislatore in materia processuale.

6.Su cui v. le osservazioni di F. Scarpelli, Convertito in legge il “ decreto dignità”: al via il dibattito sui problemi interpretativi e applicativi, in Giustiziacivile.com,3 settembre 2018.

7.Per tutti, P. Caretti, U. De Siervo, Istituzioni di diritto pubblico, Giappichelli, 10° ed., Torino, 2010, pag. 407.

8.Così Trib. Bari 11 ottobre 2018, reperibile in www.wikilabour.it,che aveva applicato i principi desumibili dal comunicato stampa della Corte costituzionale ancor prima della pubblicazione della sentenza, e Trib. Como 29 novembre 2018, inedita.

Preleva l’articolo completo in pdf 

Sentenza n. 194/2018 della Corte Costituzionale: facciamo un po’ di chiarezza

di Chiara Julia Favaloro, AvvocatoConsulente del Lavoro in Milano e 

Riccardo Vannocci, Consulente del Lavoro in Milano

 

Con sentenza n.194 emessa in data 26.09.2018 la Corte Costituzionale ha sovvertito il metodo di calcolo dell’indennità per licenziamento illegittimo, dichiarando l’illegittimità dell’art. 3, co. 1, del D.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 nella parte in cui determina tale indennità in un «importo pari a due mensilità dellultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio». Al fine di comprendere le ragioni che hanno condotto a tale decisione, occorre, tuttavia, fare un po’ di chiarezza e premettere i fatti di causa, nonché riepilogare i punti salienti della sentenza, alla luce delle motivazioni pubblicate in data 8.11.2018.

La sig.ra F. S., assunta in data 11.5.2015, è stata licenziata per giustificato motivo oggettivo in data 15.12.2015 a seguito di problematiche di carattere economico-produttivo che non hanno consentito il proseguimento del suo rapporto di lavoro.

La lavoratrice ha impugnato il licenziamento intimatole avanti il Tribunale di Roma. Il Giudice del Lavoro, con ordinanza 26 luglio 2017, n. 195 ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, co. 7, lett. c), della L. 10 dicembre 2014, n.183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro) e degli artt. 2, 3 e 4 del D.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della L. 183/2014), in riferimento agli artt. 3, 4, co. 1, 35, co. 1, 76 e 117, co. 1, Cost. – questi ultimi due articoli in relazione all’art. 30 CDFUE (Carta dei diritti fondamentali della Unione Europea), alla Convenzione sul licenziamento n. 158 del 1982 (Convenzione sulla cessazione della relazione di lavoro ad iniziativa del datore di lavoro), adottata a Ginevra dalla Conferenza generale dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) il 22 giugno 1982 (e non ratificata dall’Italia) e all’art. 24 della Carta sociale europea.

Il Giudice rimettente ha ritenuto dedurre quattro diverse questioni, di cui solo l’ultima – e più significativa – è stata dichiarata fondata ed ammissibile.

In primo luogo, con riferimento all’art. 3, co. 1, del D.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, il Giudice rimettente ha dedotto la violazione del principio di eguaglianza in ragione della disparità di trattamento tra i lavoratori assunti prima e dopo il 7 marzo 2015, sostenendo che la predetta norma tuteli questi ultimi in modo “ingiustificatamente deteriore rispetto a coloro che, nella medesima azienda, siano stati assunti in data anteriore.

La Corte Costituzionale ha ritenuto infondato tale motivo, sulla base del fatto che il Giudice rimettente non ha censurato la disciplina sostanziale dei regimi, bensì il criterio di applicazione temporale della norma stessa. In tal senso, dunque, la Corte ha ritenuto non sussistente alcun deterioramento ai danni dei lavoratori in ragione della loro data di assunzione, posto che “il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche e che lo scopo del Legislatore all’epoca dell’introduzione del Jobs Act era proprio quello di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro.

In secondo luogo, con riferimento alla medesima norma, il Giudice rimettente ha nuovamente dedotto la violazione del principio di eguaglianza in ragione della disparità di trattamento tra i lavoratori privi di qualifica dirigenziale ed i dirigenti assunti a decorrere dal 7 marzo 2015, sostenendo che quest’ultimi, in ragione dell’inapplicabilità della nuova disciplina al loro rapporto di lavoro, continueranno a godere di indennizzi di importo minimo e massimo ben più consistenti.

La Corte ha ritenuto anche tale motivo infondato in quanto il dirigente, pur rientrando, per espressa previsione dell’art. 2095, co. 1 c.c., tra i lavoratori subordinati, si caratterizza per alcune significative diversità rispetto alle altre categorie contrattuali e, pertanto, non sussiste alcun contrasto con l’art. 3, co. 1 del D.lgs. 4 marzo 2015, n.23.

Con la terza questione il Giudice rimettente ha dedotto la violazione delle disposizioni costituzionali di cui agli artt. 76 e 117, co. 1, per il tramite del parametro interposto dell’art. 30 della CDFUE, secondo cui Ogni lavoratore ha diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto dellUnione Europea e alle legislazioni e prassi nazionali”.

La Corte Costituzionale ha dichiarato infondata anche tale questione, specificando che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea sia invocabile in un giudizio di legittimità costituzionale qualora la fattispecie oggetto di legislazione interna sia disciplinata dal diritto europeo – in quanto inerente ad atti dell’Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell’Unione, ovvero alle giustificazioni addotte da uno Stato membro per una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell’Unione – e non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto.

Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto, tra l’altro, che nessun elemento consentisse di ritenere che la censurata disciplina dell’art. 3, co. 1, del D.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 fosse stata adottata in attuazione del diritto dell’Unione Europea, in particolare, per attuare disposizioni nella materia dei licenziamenti individuali, né che fosse stata adottata in attuazione della Direttiva n. 98/59/CE (Direttiva del Consiglio concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi). La quarta ed ultima questione, in conclusione, è l’unica che la Corte Costituzionale ha ritenuto fondata.

Il Giudice rimettente ha dedotto che l’art. 3, co. 1,del D.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, prevedendo una tutela rigida e inadeguata contro i licenziamenti ingiustificati, violasse gli artt. 3, 4, co. 1, 35, co. 1, e 76 e 117, co. 1, Cost. (questi ultimi due articoli in relazione all’art. 24 della Carta sociale Europea, secondo cui “Tutti i lavoratori hanno diritto ad una tutela in caso di licenziamento”).

La Corte Costituzionale ha dichiarato che l’art. 3, co. 1, del D.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, nella parte in cui determina l’indennità in un importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio “non realizza un equilibrato componimento degli interessi in gioco: la libertà di organizzazione dell’ impresa da un lato e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato dallaltro”.

 

La Corte, in conclusione, ha ritenuto che la previsione di una tutela economica, calcolata sulla base di un principio matematico, potrebbe non costituire adeguato ristoro del danno prodotto dall’illegittimo licenziamento, né tantomeno un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente.

È quindi rimessa al Giudice la quantificazione dell’indennità, che seppur nel rispetto dei limiti minimo e massimo individuati dal Jobs Act (come modificati dalla L. 9 agosto 2018, n. 96), dovrà tenere conto dell’anzianità di servizio, nonché di altri criteri individuabili nel numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti.

Ferma, dunque, l’infondatezza delle prime tre questioni, seppur afferenti alla medesima norma, la sentenza della Corte Costituzionale ha comportato la caduta di uno dei pilastri fondamentali del Jobs Act, finalizzato, tra l’altro, a garantire ex ante al datore di lavoro la puntuale determinazione dell’indennità spettante al proprio dipendente in caso di licenziamento.

Assistiamo, dunque, ad un ritorno alla discrezionalità – seppur limitata nel minimo e nel massimo – del Giudice nella determinazione dell’indennità.

In attesa di conoscere le future (e, speriamo, tempestive) “mosse” del Legislatore, i datori di lavoro saranno chiamati nuovamente a consultarsi con giuslavoristi ed esperti in materia al fine di limitare la corsa al contenzioso da parte dei lavoratori licenziati.

 

Preleva l’articolo completo in pdf 

Una proposta al mese – Il licenziamento: alla ricerca di uniformità e ragionevolezza perdute

di Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano

 

Talvolta capita di dover illustrare ad un’azienda i rischi ed i “costi possibili” del licenziamento. Quelle italiane ancora ancora sopportano una lunga e complessa spiegazione (abituate come sono, purtroppo, alla buro-complicazione italiota), ma soprattutto a quelle di derivazione straniera sembra di indicare la strada del ginepraio più irrazionale: a loro risulta difficile in particolare capire come sia possibile avere norme estremamente diverse che insistono sulla medesima fattispecie nella stessa azienda, con lavoratori che operano nella medesima compagine fianco a fianco.

Ultimamente poi, sul tema “licenziamento”, con il triplice salto mortale del contratto a tutele crescenti, rivisto dal decreto Dignità e cassato, ma solo in un punto, da un comunicato-stampa della Corte Costituzionale (che però già ha prodotto i suoi effetti in una sentenza di merito), il consulente del lavoro è visto dalle suddette aziende come una figura mista fra uno scrittore di libri gialli e un frequentatore di circoli esoterici dediti a pratiche occulte e misteriose. E il bello (o il brutto) è che talvolta anche il consulente si sente un po’ così, di fronte a sguardi increduli o allibiti dei destinatari di così complesse ed arzigogolate spiegazioni.

È davvero il caso di trovare una norma comune, uniformando e razionalizzando una fattispecie che proprio perché drammatica, per i lavoratori ma spesso anche per le aziende, necessita di chiarezza e semplicità; e magari anche di un’attenzione rivolta alla deflazione del contenzioso (con il nostro Centro Studi dell’Ordine  dei Consulenti del lavoro di Milano, su questo aspetto abbiamo promosso una riflessione in merito all’ultimo Festival del Lavoro).

Il primo dato è che lo spirito di fondo del contratto a tutele crescenti è condivisibile; ed esso consiste nell’abbandonare la via – forzosa ed inattuale – della reintegrazione come via privilegiata, puntando piuttosto verso un indennizzo economico e lasciando la reintegra soltanto nei casi di licenziamento discriminatorio; strada già timidamente perseguita dalla Riforma Fornero, che però ha avuto il merito di scalfire per la prima volta il “totem” dell’art. 18.

Un secondo aspetto che pare ugualmente condivisibile è quello di calibrare e porre dei limiti al risarcimento economico, che se indiscriminato o lasciato alla sola valutazione del giudice potrebbe avere i medesimi effetti della reintegrazione. E se è pur vero che la Corte Costituzionale ha evidenziato (in una sentenza che tutti stiamo aspettando per coglierne i contenuti) come irrazionale e ingiusto togliere qualsiasi margine decisionale al giudicante, è anche vero che la magistratura è stata a lungo (ed è ancora) condizionata dal ritenere il licenziamento una ultima ratio, ma talmente ultima che spesso si è finito per considerare intoccabile anche chi davvero non lo meritava. Questo sia detto con la consapevolezza che la bilancia del diritto del lavoro ha, ontologicamente, un equilibrio instabile fra la tutela del lavoratore e la libertà dell’azione imprenditoriale, ma anche con l’esperienza che ci dice che, salvo casi rari, il licenziamento è il sintomo di una “unità di intenti” terminata e che è davvero difficile immaginare di ricostituire.

La prima proposta è dunque quella di applicare il meccanismo di fondo delle tutele crescenti – rivisitato come vedremo, per superare le eccezioni di incostituzionalità – a tutti i lavoratori dipendenti in caso di licenziamento illegittimo. A questa aggiungiamo che una definizione di quale sia e di come si calcoli la mensilità di riferimento deve essere uniforme (ora abbiamo due concetti differenti per individuare la mensilità di riferimento: ultima retribuzione di fatto e ultima retribuzione utile per il TFR). Proponiamo in via di semplificazione che la mensilità sia calcolata semplicemente sulla RAL (come proiezione dell’ultima retribuzione percepita) divisa per 12, più la media mensile della retribuzione variabile (premi, provvigioni, bonus etc.) stabilita per contratto collettivo o individuale, percepita negli ultimi 36 mesi precedenti al licenziamento. Un criterio semplice e di immediata elaborazione.

La seconda proposta è quella di stabilire tre fasce di indennità, con riferimento alla complessiva forza aziendale:

1.aziende fino a 15 dipendenti: (indennità attuale del CTC) da un minimo di 3 mensilità ad un massimo di 6 (data la contenutezza, non si rapporta all’anzianità di lavoro);

  1. piccole imprese UE da 16 a 50 dipendenti (nuova fascia): 2 mensilità per ogni anno di servizio * con un minimo di 6 mensilità ed un massimo di 15;
  2. aziende sopra i 50 dipendenti: 2 mensilità per ogni anno di servizio *, con un minimo di 12 mensilità ed un massimo di 24. .

* Il calcolo delle mensilità, sempre nell’ambito dei minimi e massimi suddetti, può essere elevato, per particolari ragioni da esplicitare nella sentenza, sino al doppio da parte del giudice (superando così il rilievo costituzionale del vincolo obbligatorio del meccanismo di calcolo).

L’introduzione della seconda fascia si rende necessaria per limitare l’impatto finanziario dell’onere risarcitorio rispetto ad aziende di minore capacità economica e ove è di norma più forte il carattere familiare e personale dell’imprenditore. A tal fine, nella definizione di piccola impresa si valuterebbe anche l’altro requisito (oltre a quello dimensionale) stabilito dalla UE per individuare tale tipologia, ovvero un fatturato non superiore a 10 milioni di euro.

La terza proposta è quella di rivedere la tassazione delle indennità da licenziamento, con una duplice agevolazione:

a) uno sconto fiscale alle indennità di risarcimento per il licenziamento illegittimo (o incentivo all’esodo) conseguenti a una conciliazione stragiudiziale, nel senso di definite prima ed in alternativa al radicamento di una causa (in altre parole, il solo deposito del ricorso, anche con definizione intervenuta prima della sentenza, farebbe decadere l’agevolazione). Lo sconto consisterebbe nell’applicare a tali transazioni un’aliquota fiscale pari al 50% dell’aliquota TFR e nessuna imponibilità previdenziale (quest’ultima, tuttavia, già in re ipsa rispetto alle somme erogate a tale specifico titolo) entro il limite della somma massima indennitaria prevista per il caso specifico (in modo da evitare eventuali abusi). In tal modo si darebbe un incentivo alle parti, in maniera più equilibrata rispetto all’attuale “offerta conciliativa” e in ogni ambito del licenziamento, di pervenire a un’ipotesi conciliativa. Lo sconto si applicherebbe, peraltro, solo con il versamento delle ritenute in modo corretto, ovvero qualora il datore non versasse le ritenute si accollerebbe in proprio il 50% di sconto, senza conseguenze per il lavoratore.

L’eventuale minore entrata fiscale sarebbe compensata sia dall’incameramento di somme ora escluse dalla offerta conciliativa pura ex art. 6 del D.Lgs. n. 23/2015, sia dal limite posto alle indennità, evitando così che, come non di rado avviene, in maniera indiscriminata si qualifichino come corrisposte in conseguenza del licenziamento somme che hanno ben altra origine e sono per lo più collegate a differenze retributive (con la conseguente evasione previdenziale), senza contare il vantaggio derivante dal mancato intasamento delle sedi di giustizia e la riduzione a 360 gradi dei costi del contenzioso.

b) tassazione a titolo definitivo, consistente nell’applicazione (come ora) all’indennità di licenziamento dell’aliquota spettante ai fini del TFR (eventualmente dimezzata, nel senso della proposta “a)” che precede, in caso di conciliazione stragiudiziale) ma senza riliquidazione ex post da parte dell’Agenzia delle Entrate. La cosa ci sembra rappresentare equamente l’esigenza del lavoratore di sapere esattamente quale cifra “netta” sta intascando a fronte della cessazione del contendere (e in sostanza, della rinuncia al posto di lavoro), agevolando così le eventuali decisioni in merito. Una norma di pura equità e giustizia, considerando che la percezione di tali indennità si pone in una via di mezzo fra una componente reddituale e una meramente risarcitoria, pertanto, tassate sì, ma non considerate come mero “reddito”, per quanto a tassazione separata.

Come sempre, le proposte che esponiamo conseguono a una logica, che per quanto nell’esiguo spazio e con la necessità di sintesi, abbiamo cercato di rappresentare. Non servono per “immediatamente legiferare” (non abbiamo certo tale pretesa) ma in prima battuta per riflettere e individuare soluzioni equilibrate alle questioni in gioco.

 

Preleva l’articolo completo in pdf 

Indennita’ per licenziamento illegittimo e offerta conciliativa: che ne sara’ di noi?

di Chiara Julia Favaloro, AvvocatoConsulente del Lavoro in Milano e Riccardo Vannocci, Consulente del Lavoro in Milano

 

Indennità per licenziamento illegittimo e offerta conciliativa: che ne sarà di noi? La domanda sembra quanto più azzeccata!

Se da un lato, infatti, non possiamo che rilevare l’inasprimento delle disposizioni normative apportato dal Decreto Dignità, dall’altro occorre segnalare che la Corte Costituzionale ha sovvertito ogni aspettativa in tema di calcolo dell’indennità per licenziamento illegittimo.

L’art. 3 del D.Lgs. n. 23/2015 (c.d. Jobs Act) aveva introdotto un criterio univoco per il calcolo dell’indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, ricompreso tra 4 e 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto e calcolato esclusivamente sulla sua anzianità di servizio.

Il Legislatore, già allora, aveva inteso svincolare dalla discrezionalità del Giudice la quantificazione dell’onere che, in caso di licenziamento illegittimo, sarebbe gravato sul datore di lavoro, nell’ottica di incentivare (o, quantomeno, tentarci!) le assunzioni a tempo indeterminato, e garantire ai datori di lavoro la possibilità di conoscere ex ante il potenziale rischio economico in caso di licenziamento ingiustificato dei propri dipendenti.

A distanza di oltre tre anni, il Legislatore ha seguito il medesimo ragionamento e, con il Decreto Dignità, ha confermato il criterio di calcolo, inasprendo la “forbice” e passando da 4-24 mensilità a 6-36 mensilità.

Fin qui, dunque, nonostante le diverse ed accese critiche mosse nei confronti tanto del Jobs Act, quanto del Decreto Dignità, il criterio di calcolo è sempre rimasto il medesimo.

Tuttavia, il terremoto è arrivato comunque! Con comunicato stampa del 26.9.2018, infatti, la Corte Costituzionale ha annunciato la sentenza che ha paralizzato il sistema!

La Corte Costituzionale, infatti, ha dichiarato illegittimo l’art. 3, co. 1, del D.Lgs. n. 23/2015 nella parte in cui è stata individuata l’anzianità di servizio quale unico criterio di calcolo dell’indennità per licenziamento illegittimo, in quanto contraria ai principi di ragionevolezza e uguaglianza Costituzionalmente garantiti.

In ragione di ciò, la Corte ha ritenuto restituire al Giudice la palla! Non più, dunque, un criterio puramente matematico ed oggettivo, bensì un ritorno ad una valutazione discrezionale dell’organo giudicante, basata su fattori differenti rispetto all’anzianità di servizio, quali, ad esempio, la gravità della violazione della legge, le dimensioni aziendali, i carichi di famiglia, l’anzianità del lavoratore.

In sostanza, il lavoratore potrà ottenere un’indennità ora compresa tra un minimo di 6 ed un massimo di 36 mensilità, indipendentemente dalla propria anzianità di servizio, a scelta insindacabile del solo Giudice.

La sentenza, dunque, investe esclusivamente le disposizioni del comma 1 del citato articolo, ossia il criterio di calcolo, lasciando, di conseguenza, inalterata la previsione della misura minima e massima di mensilità riconoscibili al lavoratore.

Seppur non siano ancora state pubblicate le motivazioni di tale sentenza, già il Tribunale di Bari, con ordinanza dell’11.10.2018, ha ritenuto di applicare i principi della Corte Costituzionale, condannando un datore di lavoro al pagamento di 12 mensilità in luogo delle 4 cui, in ragione dell’anzianità di servizio del lavoratore, avrebbe dovuto condannarlo ante pronuncia della Corte Costituzionale.

Occorre tuttavia segnalare che la sentenza della Corte Costituzionale ha inevitabilmente generato un “doppio binario”: se da un lato, infatti, gli effetti di tale decisione si riflettono sugli esiti di eventuali procedimenti pendenti e/o futuri, è pur vero che gli stessi non investiranno le modalità di calcolo della c.d. offerta conciliativa ex art. 6 del D.Lgs. n. 23/2015.

Come noto, tale strumento permette ai datori di lavoro di offrire al lavoratore licenziato, avanti ad una sede protetta, un’indennità non assoggettata a contribuzione e tassazione, purché nei termini dell’impugnazione stragiudiziale, calcolata anch’essa sulla base dell’anzianità di servizio, tra un minimo di 2 ed un massimo di 18 mensilità (innalzate a 3-27 mensilità dal Decreto Dignità).

La sentenza della Corte Costituzionale, tuttavia, ha lasciato inalterato tale sistema di calcolo, il quale è rimasto, dunque, ancorato alla sola anzianità di servizio del lavoratore.

Va da sé che i lavoratori, nella consapevolezza di poter ottenere un importo più alto in sede giudiziale, salvo che non godano di una rilevante anzianità di servizio, troveranno più favorevole assumersi il rischio di un contenzioso, piuttosto che accettare somme potenzialmente inferiori a quanto potrebbero ottenere “grazie” alla discrezionalità del Giudice.

Tra Decreto Dignità ed illegittimità costituzionale, non ci resta che attendere che le Corti e gli esperti giuslavoristi si pronuncino.

 

Preleva l’articolo completo in pdf