Contratti&Co.: Il comparto delle agenzie per il lavoro si cuce su misura regole di durata massima e di proroghe dei contratti. Quando la contrattazione collettiva funziona

di Andrea Morzenti – Curatore e autore di intornoallavoro.com

Il 21 dicembre 2018 è stata sottoscritta l’“Ipotesi rinnovo Ccnl per la categoria delle Agenzie di somministrazione di lavoro”. Dopo ormai due anni dalla scadenza del precedente contratto collettivo, datato 27 febbraio 2014, una “era giuridica” fa, le Parti hanno quindi – e finalmente – raggiunto un accordo.

Un accordo molto importante e innovativo, frenato prima e accelerato poi dall’entrata in vigore del Decreto cosiddetto Dignità (che, di seguito, chiamerò solo DD).

Importante perché si rivolge a quasi cinquecentomila lavoratori ogni giorno in missione presso le aziende, di cui oltre quarantamila assunti a tempo indeterminato.

Innovativo sul versante delle tutele e del welfare, sul sostegno al reddito, sulla formazione, sulla qualificazione e riqualificazione professionale, sulla assunzione e gestione dei lavoratori con contratto di lavoro  a tempo indeterminato, sulla conferma  della somministrazione con monte ore retribuito garantito.

L’Ipotesi di rinnovo,con tutta la sua portata innovativa, entrerà però in vigore solo  dopo l’approvazione definitiva degli organi deliberativi e/o assembleari delle Parti stipulanti (Assolavoro, Felsa-Cisl, Nidil Cgil,  Uiltemp), nei termini previsti dai rispettivi  statuti associativi. Una volta ottenuto questo “via libera”, le Parti, recependo i contenuti dell’Accordo di rinnovo, avvieranno una revisione e armonizzazione del testo contrattuale del 27 febbraio 2014. Tutto quello che direttamente o indirettamente non è stato modificato dall’Accordo di rinnovo resterà invece in vigore.

Ma, dicevo, l’Ipotesi di rinnovo è stata raggiunta anche a seguito dell’entrata in vigore, e sotto la spinta, del DD. Due infatti erano i punti di massima attenzione e di preoccupazione: i) la durata massima della successione dei contratti di lavoro a termine delle  Agenzie per il Lavoro; ii) il regime delle proroghe.

Per entrambe le nuove disposizioni su tali punti, le Parti ne hanno quindi previsto la loro immediata entrata in vigore, con decorrenza dalla data di sottoscrizione dell’Ipotesi di rinnovo (21 dicembre 2018).

Vediamo i due punti, nel dettaglio.

DURATA MASSIMA E SUCCESSIONE DEI CONTRATTI (ART. 19, COMMA 2, D.LGS. N. 81/2015)

Cos’era accaduto? Il DD, per la prima volta in venti anni, ha introdotto una durata massima legale della successione di contratti di lavoro a termine delle Agenzie. Anche le Agenzie, infatti, dal 14 luglio 2018 (data di entrata in vigore del DD), applicano una norma che per i datori di lavoro “ordinari” esiste (seppur in testi normativi diversi e con durate diverse, ieri erano 36 mesi, oggi sono 24 mesi) fin dal 1° gennaio 2008.

Sulla nuova applicabilità di tale norma alle Agenzie per il lavoro, gli interpreti si sono fin da subito interrogati sul quando doveva iniziare il conteggio utile a determinare la durata massima (fissata, come noto, in 24 mesi). Due, e molto diverse tra loro, sono state le letture:

  1. Il conteggio inizia dai contratti di lavoro a termine stipulati tra le parti (Agenzia e lavoratore) a far data dal 14 luglio 2018;
  2. Il conteggio deve considerare tutti i contratti, anche se stipulati prima del 14 luglio 2018.

Senza entrare nel merito della fondatezza dell’una o dell’altra lettura (la prima contenuta e argomentata dettagliatamente in una Circolare di Assolavoro, la seconda fatta propria – in modo non certo chiarissimo – dalla Circolare del Ministero del Lavoro n. 17 del 31 ottobre 2018), che ho già affrontato sul numero di novembre di questa Rivista, è evidente come diverse sarebbero le conseguenze nel seguire la prima o la seconda lettura. In particolare, sulla possibilità o meno per decine di migliaia di lavoratori di avere una continuità occupazionale con la stessa Agenzia, magari a favore di diverse aziende. Questo quadro ha quindi generato, per mesi, una forte incertezza per l’intero settore delle Agenzie e, di riflesso, per le aziende.

Le Parti, quindi, recependo una delega di legge (l’articolo 19, comma 2, del D.lgs. n. 81/2015, fa salve infatti le “ diverse disposizioni dei contratti collettivi”) hanno messo un punto fermo su questo tema di rilevante importanza.

Fermo restando che nulla cambia – e nulla può cambiare in applicazione del contratto collettivo delle Agenzie – per quanto riguarda il conteggio della durata massima della successione di contratti (a termine e di somministrazione a tempo determinato) per le aziende (che segue le norme di legge o, eventualmente, quelle dei loro contratti collettivi), vediamo cosa hanno pattuito le Parti:

  1. A far data dal primo gennaio 2019, la du rata massima dei periodi di lavoro derivanti dalla successione di contratti a termine tra Agenzia e lavoratore si articola su due “contatori” paralleli e non alternativi:
  2. in caso di medesimo utilizzatore, la durata massima – de relato– è individuata dal contratto collettivo applicato dall’Azienda. In assenza, è fissata in 24 mesi;
  3. in caso di diversi utilizzatori,la durata massima è fissata in 48 mesi.
  4. Prima del 1° gennaio 2019, e nel solo periodo compreso tra il 1° gennaio 2014 e il 31 dicembre 2018, si conteggiano al massimo 12 mesi.

Ecco quindi che l’Ipotesi di rinnovo interviene con una triplice finalità:

  • in caso di mono utilizzatore, parametrando la durata massima in funzione di quanto il settore dell’utilizzatore o l’Azienda con le sue organizzazioni sindacali hanno previsto per la propria flessibilità. Solo in assenza di tali pattuizioni, opera il requisito legale di 24 mesi;
  • salvaguardando la tipicità e la funzione del lavoro in somministrazione, elevando a 48 mesi (il doppio del limite legale) la durata massima nel caso in cui il lavoratore presti attività lavorativa a favore di più utilizzatori;
  • assicurando una continuità occupazionale, definendo un conteggio solo “parziale” e comunque mai superiore a 12 mesi, per i periodi di lavoro ante1° gennaio 2019.

Tra le pieghe dell’Ipotesi di rinnovo si legge anche che unicamente il punto 2 sopra riportato (conteggio ante 1° gennaio 2019) è cedevole in caso di diversi interventi normativi e/o interpretazioni di fonte ministeriale che dovessero stabilire di non considerare, ai fini del superamento dei limiti di durata, alcuni periodi di lavoro intercorsi tra lavoratore e Agenzia. Il riferimento è all’Istanza di Interpello che Assolavoro ha presentato, il 5 novembre 2018, al Ministero del Lavoro “volta a richiedere chiarimenti in merito alle modalità applicative del limite di durata di 24 mesi alla successione di contratti di lavoro a tempo determinato a scopo di somministrazione”.

REGIME DELLE PROROGHE (ART. 34, CO. 2, D.LGS. N. 81/2015)

Anche sul tema della prorogabilità dei contratti di lavoro a termine delle Agenzie, il DD ha generato diverse interpretazioni, dubbi e preoccupazioni. Per la prima volta in venti anni, infatti, non è più prevista una esclusione esplicita del regime ordinario delle proroghe (dal DD fissata nel limite massimo di 4, nell’intera vita lavorativa tra datore e lavoratore) ai contratti di lavoro a termine stipulati dalle Agenzie.

Questa non esclusione, però, deve necessariamente tener conto del secondo periodo dell’art. 34, co. 2, del D.lgs. n. 81/2015, rimasto invariato anche a seguito dell’entrata in vigore del DD (a differenza del primo periodo, fortemente modificato), che demanda(va) alla contrattazione collettiva applicata dall’Agenzia la regolamentazione della prorogabilità dei loro contratti di lavoro a termine. E il Ccnl del 27 febbraio 2014, in essere all’entrata in vigore del DD, prevedeva il limite massimo di 6 proroghe per ogni contratto (limite non operante in caso di sostituzione di lavoratori assenti, per cui il contratto può essere prorogato sino al rientro del dipendente assente).

Sul punto, la dottrina maggioritaria, nonché Assolavoro con una propria Circolare interpretativa, ha ritenuto ancora in vigore la norma del Ccnl del 27 febbraio 2014, nonostante la successiva entrata in vigore del DD.

In considerazione del fatto che si erano però sollevate alcune voci in disaccordo con la dottrina maggioritaria e che davano prevalenza alla norma di legge a discapito della norma della contrattazione collettiva, risulta senza dubbio opportuna e dirimente l’Ipotesi di accordo in oggetto che, come sul tema della durata massima, mette un punto fermo anche su questa (minore) diatriba.

Fermo restando l’inderogabile limite legale di 24 mesi di durata massima del singolo contratto (derogabile solo con accordo di prossimità e non con una norma di Ccnl), le Parti hanno infatti previsto:

  1. il limite generale delle proroghe dei contratti a termine delle Agenzie è fissato in un numero massimo di 6 proroghe per ogni singolo contratto (con l’eccezione dell’ipotesi sostitutiva vista sopra);
  2. il limite massimo, sempre per ogni singolo contratto, è elevato a 8 proroghe per queste ipotesi (riporto le più rilevanti):
  3. diverso limite di durata, exart. 19 co. 2 del D.lgs. n. 81/2015, individuato dal contratto collettivo applicato dell’Azienda;
  4. per alcuni “lavoratori svantaggiati”:
  5. senza diploma di scuola media superiore o professionale (ISCED 3);
  6. oltre i 50 anni di età;

iii. in professioni o settori caratterizzati da un tasso di disparità uomo-donna che supera almeno del 25% la disparità media uomo-donna in tutti i settori economici, se il lavoratore interessato appartiene al genere sottorappresentato;

  1. per i lavoratori privi di un impiego regolarmente retribuito da almeno 12 mesi;
  2. per le tipologie di lavoratori individuati dalla contrattazione collettiva di secondo livello e/o territoriale finalizzata ad assicurare forme di continuità occupazionale;
  3. per i lavoratori con disabilità di cui alla Legge n. 68/1999.

Da ultimo, l’Ipotesi di accordo prevede che (resta inteso) sono esclusi dalla durata massima i contratti di somministrazione a tempo determinato con lavoratori assunti a tempo indeterminato dall’Agenzia.

Norma, questa, che non fa che ribadire un principio pacifico. E cioè che, per l’Agenzia, i limiti di durata massima e di prorogabilità (e io aggiungo anche di causale) non operano per le proprie assegnazioni a termine, in caso di assunzione con contratto di lavoro a tempo indeterminato. In tali ipotesi, infatti, le Agenzie possono assegnare i propri lavoratori alle aziende senza limiti.

Conseguentemente, questo dice l’Ipotesi di rinnovo, nessun limite si pone neppure sul contratto commerciale di somministrazione.

Tale assenza di limiti, con esclusivo riferimento alla durata massima della successione di contratti, non necessariamente può però ritenersi operante de plano anche a favore di chi, Azienda, riceve la prestazione del lavoratore in somministrazione (seppur) assunto a tempo indeterminato dall’Agenzia.

In altri termini, in caso di assegnazione a termine di lavoratore assunto dall’Agenzia a tempo indeterminato, mentre il limite massimo di proroghe (e causale) non opera, senza dubbio alcuno, tanto per l’Agenzia quanto per l’Azienda, non può invece che restare nella valutazione della singola Azienda (in termini non solo strettamente giuridici, ma anche di gestione ed effetti di una assunzione a tempo indeterminato dell’Agenzia e successiva ricollocazione del lavoratore) se ritenere o meno operante il limite massimo di durata a sé applicabile in applicazione dell’art. 19, co. 2, del D.lgs n. 81/2015. E questo, in assenza ad oggi di giurisprudenza, in quanto la norma di legge richiamata dice di “periodi di missione […], svolti tra i medesimi soggetti, nell’ambito di somministrazioni di lavoro a tempo determi nato”, senza cenno alcuno alla tipologia assuntiva sottostante.

Queste – durata massima della successione di contratti e regime delle proroghe – le nuove e principali disposizioni già in vigore per il comparto delle Agenzie per il lavoro (non ho trattato, perché non ha impatti sulle aziende, il SAR, la nuova misura di sostegno al reddito dei lavoratori in somministrazione, anch’essa già in vigore).

Una risposta delle parti sociali, sindacali e datoriali, alle stringenti norme del DD; uno scatto in avanti della contrattazione collettiva. Altre risposte e soluzioni stanno arrivando, sempre più copiose, nella forma dell’accordo di prossimità, istituto praticamene dormiente dal 2011 ad oggi, che sta prendendo forma e vitalità. Insomma, dove la Legge chiude all’impresa e ai lavoratori, le parti sociali provano ad aprire.

 

 

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La somministrazione fraudolenta nel Decreto Dignità: cronaca di una fattispecie inefficace*

di Andrea Asnaghi, Consulente del lavoro in Paderno Dugnano

*pubblicato con modifiche redazionali su “Lavoro Diritti Europa”, n. 2/2018   

 

Il mondo del lavoro del nostro Paese paga un grande tributo in termini di illegalità nel proliferare di una miriade di somministratori abusivi di manodopera, cooperative o altre strutture societarie che siano. Ingenti guadagni ed una molteplicità di interessi sono collegati a questi fenomeni di sfruttamento dei lavoratori, magari in situazione di bisogno, che non di rado si intrecciano con altre pratiche ad alto coefficiente di elusione o evasione.

Potremmo parlare di “caporalato in guanti bianchi” perché, senza che il fenomeno sfoci nel reato di cui all’articolo 603 bis del codice penale (che, sia pure con gli ampliamenti della L. n. 199/2016, sembra circoscriversi alle situazioni più estreme di sfruttamento ed intimidazione), l’intermediazione illecita rappresenta una fattispecie perversa e pericolosa, sia per la depressione delle tutele economiche e di sicurezza sociale dei lavoratori che ne deriva, sia per l’ingenerarsi di catene e filiere non virtuose che minano la concorrenza leale, a tutto svantaggio degli operatori sani.

Notizie in tal senso si susseguono in continuazione, addirittura con connessioni con la criminalità organizzata, ma molto maggiore di ciò che viene alla ribalta è il sommerso che non viene intercettato, o viene sorpreso solo in fase avanzata o tardiva.

In questo contesto, chi scrive in passato denunciò un rischioso passaggio degli attori del Jobs Act che – nella riscrittura delle norme sulla somministrazione, trasportate senza modifiche particolarmente significative nel “Codice dei Contratti” D.lgs. n. 81/2015 – decisero di non riproporre la fattispecie della somministrazione fraudolenta di cui all’art. 28 del D.lgs. n. 276/03 (forse l’unico articolo del Decreto legislativo Biagi, relativamente al contratto di somministrazione di lavoro, non trasposto nel nuovo testo), in quanto ritenuta casistica di difficile applicazione: trascuratezza volontaria, chè in tal senso si lesse un’esplicita dichiarazione nella relazione parlamentare accompagnatoria al testo di legge. Un brutto segnale, che di lì a poco tempo faceva il paio con la depenalizzazione operata dal D.lgs. n. 8/2016, il quale – nell’ambito di un’azione invero generalizzata – tuttavia interveniva anche sulla fattispecie sanzionatoria dell’art. 18, co. 5 bis del D.lgs. n. 276/03 – inerente appalto e distacco non genuini. A causa di questa duplice combinazione, non solo l’intermediazione illecita smetteva di essere perseguita penalmente, ma si rendeva difficile anche un’azione terza (normalmente su impulso ispettivo) di costituzione del rapporto in capo all’utilizzatore effettivo, lasciandone la facoltà solamente alla ben più debole (ed in più di un caso anche pesantemente coercibile) iniziativa individuale del lavoratore, attivabile per via giudiziale. In compenso, veniva penalizzata la violazione episodica. E ciò pur mantenendo formalmente l’identica quantificazione sanzionatoria (l’ammenda di euro 50 al giorno per ogni lavoratore occupato era mantenuta, trasformandosi tuttavia in sanzione amministrativa).

Infatti, il D.lgs. n. 8/2016, non solo prevedeva la depenalizzazione, ma, in tema di sanzioni amministrative, si adeguava alla normativa europea prevedendo – per le sanzioni che, come quella sull’appalto illecito, agiscono in maniera cumulativa – un minimo sanzionatorio di euro 5.000 ed un massimo di euro 50.000; si noti peraltro che tali limiti, come per qualsiasi sanzione amministrativa, sono ridotti ad un terzo (con estinzione completa della violazione)  in caso di pagamento conciliativo in misura ridotta ex art. 16 L. n. 689/81.

Gli effetti perversi di tale passaggio normativo possono essere riassunti con qualche semplice paragone esemplificativo.

Il datore di lavoro che avesse effettuato un distacco illecito di due lavoratori per un paio di giorni, con la precedente norma sarebbe stato onerato di un pagamento di euro 200 (euro 50 per ogni giorno di effettivo impiego di ciascun lavoratore), eventualmente oblabile ad un quarto, ovvero ad euro 50. Con la depenalizzazione, la medesima violazione è ora punita in via amministrativa con un minimo di euro 5.000 (25 volte tanto!), sia pure conciliabile con il pagamento di un terzo (euro 1667, ovvero circa 34 volte tanto la precedente definizione).

L’appaltatore illecito che avesse messo in piedi per un paio d’anni una somministrazione di 30 lavoratori (caso meno infrequente di quel che si creda e fenomeno quasi sempre collegato ad episodi di profonda depressione delle tutele lavoristiche) prima sarebbe stato onerato da un’ammenda pari ad euro 720.000 circa, mentre ora verrebbe esposto al più alla sanzione (massima) di euro 50.000, definibile con euro 16.667, cifra molto inferiore al guadagno illecito che la messa a disposizione di quei lavoratori ha fruttato nel periodo considerato a committente ed appaltatore fittizi.

La sproporzione sopra evidenziata risulta ancora più evidente laddove si pensi che alla medesima sanzione sono esposti sia il finto appaltatore che l’utilizzatore.

In pratica, dalla deterrenza alla insipienza.

Tornando alla somministrazione fraudolenta, ed alla mancanza di una norma attiva, dobbiamo per fortuna constatare come la giurisprudenza, invero, avesse messo nel frattempo qualche rimedio alla situazione con sentenze che – rimandando ora al principio della “effettività della prestazione” (Cass. Civ., sez. Lavoro, n. 22894/2011), ora agli artt. 1343 e 1344 c.c. sulla illiceità o elusività della causa del contratto – perveniva al medesimo effetto riequilibrante gli interessi in gioco, ovvero la ricostituzione del rapporto di lavoro fra il lavoratore e il falso committente, reale datore di lavoro occultato dall’intermediatore truffaldino. Dobbiamo tuttavia osservare che queste azioni sono in realtà percorsi di mediata praticabilità, svolgendosi con tempistiche lunghe e talvolta pure con iter tortuosi, e quindi inidonei ad un ristoro che tanto più è efficace quanto più è sicuro ed ha soluzioni di sbocco immediate.

In realtà, a parere di chi scrive, già con la separazione e la scrittura parallela operata dal Jobs Act si rompeva il delicatissimo equilibrio del D.lgs. n. 276/03, che poneva somministrazione e appalto (e in misura più sfumata, distacco) come le due alternative lecite alla triangolazione del rapporto di lavoro (la prima caratterizzata da un “dare”, la seconda da un “fare”) tanto che l’assenza di genuinità della seconda faceva ricadere la fattispecie quasi automaticamente nella somministrazione illecita (o, appunto, fraudolenta).

Dovremmo pertanto salutare favorevolmente la reintroduzione della somministrazione fraudolenta? A parere di chi scrive, è meglio trattenere facili entusiasmi.

Infatti, nel riproporre, come art. 38 bis del D.lgs. n. 81/2015, la somministrazione fraudolenta nei medesimi, assolutamente identici, termini in cui la stessa era stata abrogata, il “Decreto Dignità” D.l. n. 87/2018 compie un’operazione di “archeologia normativa” che però rischia di essere poco efficace e di non centrare la questione reale per due motivi differenti.

Il primo è che, significativamente, la maggior parte delle osservazioni interpretative sul ripristino della norma in argomento si è concentrata su casi di somministrazione (autentica, e quindi messa in atto dalle agenzie autorizzate) che in qualche modo fossero posti in essere per eludere (ad esempio) la più stringente normativa sul contratto a termine introdotta dal medesimo Decreto; in tal modo, i commenti sono andati a sorprendere casistiche obiettivamente abbastanza accademiche, senza contare che in ogni caso sempre di somministrazione di lavoro si tratta, e quindi con una serie di garanzie economiche e di sicurezza sociale del tutto paragonabili, anzi identiche, a quelle dell’utilizzatore (in realtà, a ben vedere, nel D.l. n. 87/2018 si può sorprendere un grande disfavore verso la somministrazione a tempo determinato, vista come una forma deteriore di precarietà e pertanto accostata tout court al tempo determinato, senza tenere in pregio la fondamentale funzione di incontro, serio, fra domanda ed offerta di lavoro e di promozione occupazionale svolta dalle agenzie per il lavoro, sia pure strutture private).

In secondo luogo, e proprio per quanto detto finora, risulta poco scalfito il vero problema e cioè l’intercettazione e la repressione della costruzione di strutture contrattuali ed organizzative interpositorie; senza contare che, nelle forme di elusione più evoluta, spesso viene abbandonano lo schema contrattuale classico dell’appalto, declinando verso accordi commerciali del tutto atipici, oppure in contratti associativi, consortili o di rete; e ciò proprio per cercare di evitare quelle forme di tutela introdotte “solo” verso l’appalto (salvo quanto diremo più avanti) e, come contraltare di non genuinità, nella somministrazione illecita.

Ad onor del vero, infatti, la critica che ha portato all’abbandono della fattispecie ora ripristinata (cioè di una scarsa praticabilità concreta dell’ipotesi di somministrazione fraudolenta) non era del tutto infondata. In particolare, e salvo casi marchiani, diventava arduo sorprendere o dimostrare nelle attività illecitamente interpositorie quel dolo specifico, quel “consilium fraudis”, che solo avrebbe potuto dar luogo all’azione penale e soprattutto, ciò che più importa, liberare da subito la costituzione di un rapporto di lavoro ex tunc in capo all’utilizzatore, annullando gli effetti dell’azione di intermediazione illecita.

E’ quindi il caso di affermare che sia nella fase del Jobs Act (e forse anche in quella precedente), ma a maggior ragione nella situazione attuale, un Legislatore più attento su questo tipo di fenomeni e sensibile alle ricadute perverse che abbiamo ricordato all’inizio avrebbe dovuto – invece che abrogare prima, e ripristinare poi, una norma poco esigibile – rivisitare la materia dandole una forma più sistematica e compiuta.

Da tempo il Centro Studi e Ricerche dei Consulenti del Lavoro di Milano ha formulato proposte in tal senso, ad esempio proponendo di estendere le norme di garanzia non solo all’appalto ma a tutti i fenomeni anche solo latamente esternalizzatori (in cui vi sia, in buona sostanza, un impiego significativo di manodopera), nonché andando a regolare in maniera precisa la casistica estremamente insidiosa dei cambi di appalto.

Come detto in precedenza, infatti, oggi l’esternalizzazione presenta molteplici aspetti che possono celare altrettante perdite di tutele (e, correlativamente, di guadagni illeciti sulla pelle dei lavoratori ivi occupati).

E allora, perché (ad esempio) non estendere le norme sull’appalto (come la responsabilità ex art. 29 D.lgs. n. 276/03 o le sanzioni specifiche, anche ricostitutive del rapporto) anche a fattispecie contrattuali “commerciali” (talvolta agite in modo non genuino ed elusivo) quali: affidamento o assegnazione di opere o servizi nell’ambito di attività consortili o di reti di impresa, associazione in partecipazione fra imprese ed altri contratti di tipo associativo,  servizi integrati o globali di trasporto e logistica (ora oggetto, in tema di responsabilità solidale sui crediti di lavoro e contributivi, di una noma ad hoc di scarsa efficacia),  nolo  a caldo, somministrazione di beni o servizi o forniture con posa in opera in caso di rilevante percentuale di manodopera, etc. ? Peraltro proprio recentemente, sia pure limitatamente al caso specifico della sub-fornitura, anche il Giudice delle leggi (Corte Cost., sentenza n. 254/2017) ha offerto una lettura fortemente estensiva delle tutele riservate in via normativa all’appalto, in ragione di un condivisibile richiamo ai principi di tutela del lavoro propri della Costituzione italiana verso qualsiasi lavoratore esternalizzato.

E perché, invece di deprimere (come da D.l. n. 25/2017 del passato recente, ciecamente supino rispetto all’iniziativa referendaria che ha inteso intercettare) non si incentivano attività di auditing e di controllo preventivo, o di buone prassi, volte alla certificazione delle filiere autentiche e virtuose di esternalizzazione ed alla prevenzione dei fenomeni borderline, piuttosto che ancorarsi solo ad una legislazione repressiva che – per oggettiva scarsità di mezzi – risulta poco e tardivamente efficiente?

Invece sull’appalto e sulla somministrazione vi è da tempo un isterico andirivieni di norme (tanto per dire, negli ultimi sei anni anche solo le regole sulla responsabilità solidale hanno subito circa una decina di modifiche) tuttavia mai risolutive, mai organiche, oscillanti fra l’ideologia ed il lassismo.

Anche la prassi cerca di seguire, con fatica, il fenomeno: solo nel 2018 l’Ispettorato Nazionale del Lavoro è intervenuto –  anche con qualche licenza interpretativa – a varie riprese (in particolare, con le circolari n. 6, 7 e 10, rispettivamente sulla responsabilità nella sub-fornitura, sull’intermediazione o distacco illecito in contratti associativi e di rete, sulla responsabilità solidale contributiva negli appalti illegittimi), dando la sensazione di voler dare  e acquisire certezze su una materia sfuggente ex defectu agentis, cioè per l’inerzia del Legislatore. A riprova del fatto che l’argomento è sentito, e non potrebbe essere altrimenti, ma che gli interessi in gioco (che inevitabilmente spingono in direzioni diverse) sono tanti. Con il risultato, purtroppo consueto nel panorama giuslavoristico, di norme anche ingombranti ed onerose per chi vuole stare alle regole del gioco, ma facilmente eludibili da chi le vuole sistematicamente aggirare.

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Considerazioni sulla legittimità della proroga anticipata dei contratti a termine effettuata entro il 31 ottobre 2018

a cura di Alberto Borella, Consulente del lavoro in Chiavenna

 

La problematica

Una delle questioni che negli scorsi mesi più ha preoccupato aziende e Consulenti del lavoro ha riguardato l’obbligo, in vigore dal 1° novembre 2018, dell’indicazione di una delle causali giustificatrici l’apposizione del termine nel caso di proroga di contratti a tempo determinato al raggiungimento della durata massima di 12 mesi.

E proprio al fine di sottrarsi alle nuove e più stringenti regole in molti hanno sfruttato il periodo transitorio – durante il quale, lo ricordiamo, la precedente disciplina non prevedeva il richiamo alle causali e permetteva la durata complessiva del contratto a termine fino a 36 mesi – concordando con il lavoratore la proroga del rapporto di lavoro con largo anticipo rispetto alla data di scadenza del termine inizialmente pattuito.

Sulla legittimità di tale pattuizione è stato sollevato da alcuni commentatori qualche dubbio ipotizzando che una siffatta operazione potesse essere giudicata illegittima in relazione ad un utilizzo improprio del periodo transitorio. Onde evitare possibili contestazioni veniva consigliato il ricorso alla proroga anticipata solo nel caso in cui il datore di lavoro potesse dimostrare l’esistenza di circostanze che giustificassero l’anticipo dell’accordo con il lavoratore. Qualcuno addirittura, spingendosi oltre, sino a richiedere “il sopraggiungere di circostanze inattese”.

La vecchia normativa in materia di proroghe

Vediamo innanzitutto di ricapitolare il quadro giuridico entro cui gli operatori hanno disposto l’anticipo della proroga dei contratti a termine per beneficiare del, più favorevole, vecchio regime.

Va subito chiarito che ante Decreto Dignità la norma concedeva al datore di lavoro la più ampia autonomia in materia di gestione del contratto a termine. Fatto salvo il limite di 5 proroghe e dei 36 mesi egli risultava totalmente libero di stabilire la durata sia del contratto iniziale che delle eventuali proroghe, non avendo alcun obbligo di esplicitare i motivi del ricorso al contratto a termine. E poteva, allo stesso modo, lasciar scadere il rapporto e ripartire, nel rispetto dello stop & go, con un nuovo contratto. Che ci fosse o meno un motivo legittimo non interessava a nessuno: l’individuazione temporale del termine finale era insindacabile.

Se quindi un datore di lavoro aveva un’esigenza sostitutiva per 5 mesi e assumeva un lavoratore per soli 3 mesi o addirittura per 10 mesi, nessuno poteva obiettare alcunché. L’unico paletto era il rispetto della durata complessiva degli allora 36 mesi.

Poteva ovviamente anticipare la trasformazione a tempo indeterminato rispetto alla scadenza originaria ma soprattutto, vigente la precedente disciplina, aveva la facoltà – e qui è quanto più interessa nella presente disamina – di concordare con il lavoratore, e sottolineiamo in qualsiasi momento nel corso del contratto, la proroga della scadenza senza dover giustificare la sussistenza o la fondatezza dei motivi sottostanti. Motivi in ogni caso da considerarsi civilisticamente irrilevanti, costituendo quegli interessi personali e particolari che la parte tende a realizzare con la conclusione di un contratto (che quindi non rientrano nel contenuto di questo) e per i quali non era ovviamente richiesta la coincidenza con il novero delle causali previste dal Decreto Dignità (perché non ancora in vigore), potendo quindi soddisfare qualsiasi esigenza aziendale, sopraggiunta ma anche, si ritiene, preesistente.

La nuova normativa in materia di proroghe

L’articolo 21 del D.lgs n. 81/2015, riscritto dal Decreto Dignità, dispone che “Il contratto può essere prorogato liberamente nei primi dodici mesi” (seppur nel limite di quattro proroghe), richiedendo, solo nel caso di superamento di tale durata, il rispetto delle condizioni di cui all’articolo 19 ovvero l’esplicitazione dei motivi di ricorso al contratto a termine.

La nuova normativa quindi, pur introducendo dopo i primi dodici mesi l’obbligo delle causali, lascia inalterata la precedente situazione giuridica per il primo anno. Il potere di modificare, anticipare o posticipare il termine del contratto a tempo determinato inizialmente concordato tra le parti non viene infatti toccato dal Decreto Dignità.

La norma transitoria e i primi dubbi

Il D.l. 12 luglio 2018 n. 87 ha opportunamente individuato un periodo transitorio durante il quale

Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto, nonché ai rinnovi e alle proroghe contrattuali successivi al 31 ottobre 2018”.

In questo quadro la stampa specializzata si è posta la domanda se la posticipazione, concordata prima del 1° novembre 2018, del termine di scadenza del rapporto potesse essere sindacata dal punto di vista della liceità della causa in quanto finalizzata a beneficiare di un trattamento più favorevole rispetto ad una proroga stipulata dopo la scadenza del periodo transitorio. Si è parlato di negozio in frode alla legge ed anche di utilizzo di schema legale lecito per il conseguimento di un interesse illecito.

La contestazione e la possibile difesa

In attesa di capire come la giurisprudenza valuterà eventuali contenziosi sul punto, si vuole qui condividere alcune riflessioni che, senza alcuna pretesa di suggerire strategie difensive processuali, si ritiene possano avvallare la tesi che ritiene corretto l’operato di coloro che, più o meno consapevoli dei possibili rischi, hanno proceduto alla stipula di proroghe durante il periodo transitorio.

  1. La ratio della norma

La prima osservazione che può essere fatta è che un periodo transitorio, in cui non valgono le future regole, è di norma previsto proprio per permettere ai soggetti, teoricamente interessati dalle modifiche normative, di organizzarsi al meglio, operando liberamente fino ad una certa data con le vecchie regole. E nel caso di specie, rammentiamolo, le vecchie regole non impedivano un accordo anticipato di proroga del contratto.

Se la norma avesse voluto vietare un determinato comportamento nel periodo transitorio avrebbe dovuto semplicemente non prevedere un periodo transitorio. Se una condotta è considerata contraria ai principi giuridici non ha alcun senso dire che le regole valgono da una certa data in avanti per poi sanzionare quei comportamenti, posti in essere prima di tale modifica normativa, sulla base di una presunta frode alla legge riferita ad una norma di cui scientemente si è posticipata l’entrata in vigore.

Sarebbe stato più coerente da parte del Legislatore anticipare gli effetti della nuova disciplina o quantomeno imporre delle condizioni specifiche o più restrittive. Ad esempio condizionando la proroga anticipata alla sussistenza di ragioni oggettive, senza necessariamente richiamare le causali di cui al riscritto articolo 19 del D.lgs n. 81/2015.

Se niente di tutto ciò risulta o emerge dal dettato normativo, c’è da chiedersi se vale ancora il brocardo latino Ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit.

  1. Il contratto in frode alla legge

Altre considerazioni nascono dall’esame di una delle tante definizioni del contratto in frode alla legge che troviamo nella giurisprudenza di legittimità.

È noto che nel contratto in frode alla legge di cui all’art. 1344 c.c., gli stipulanti raggiungono attraverso gli accordi contrattuali il medesimo risultato vietato dalla legge, con la conseguenza che, nonostante il mezzo impiegato sia in thesi lecito, è illecito il risultato che attraverso l’abuso del mezzo e la distorsione della sua funzione ordinaria si vuole in concreto realizzare. Dunque, presupposto indefettibile perché si possa parlare di contratto in frode alla legge è che il negozio posto in essere non realizzi quella che è una causa tipica – o comunque meritevole di tutela ex art. 1322, secondo comma, c.c. -, bensì una causa illecita in quanto appunto finalizzata alla violazione della legge. (Cass. 6 aprile 2018, n. 8499).

Da questa e da altre sentenze pare emergere un dato comune: il configurarsi di un negozio in frode alla legge necessita che l’aggiramento operato delle parti del divieto imposto dalla legge – per forza vigente quando questo si realizza – venga ottenuto ricorrendo ad un diverso negozio giuridico (o più negozi combinati tra loro) che consente ugualmente di raggiungere l’effetto giuridico vietato.

  1. La legittimità della proroga anticipata

Da quanto sopra possiamo ricavare alcune considerazioni circa il ricorso ad una proroga anticipata del contratto a termine la cui scadenza è prevista anche a distanza di molto tempo dopo:

  1. a) il comportamento adottato è coerente e rispettoso della normativa vigente. Viene infatti disposta una proroga utilizzando la vigente disciplina giuridica della proroga del contratto a tempo determinato. Non vi è alcun ricorso a schemi contrattuali diversi dato che quello utilizzato è esattamente lo schema tipico previsto per ottenere gli effetti desiderati. Si dichiara di voler predisporre una proroga perché si vuole prorogare il contratto a termine. Né più né meno, senza sotterfugi.
  2. b) la norma imperativa di cui si denuncia la violazione fraudolenta non è norma vigente. Non può essere violata una norma che non esiste nell’ordinamento giuridico attuale ma solo in quello futuro. Per contestare la fattispecie del negozio in frode alla legge si dovrebbe infatti fare riferimento a delle limitazioni previste però da una norma giuridica che entrerà successivamente in vigore per esplicita volontà del Legislatore, che ha, per l’appunto, previsto una disciplina transitoria.

Considerazioni finali

L’osservazione conclusiva riguarda anche il risultato illegittimo che la fattispecie del contratto in frode alla legge richiede debba essere ottenuto. Un beneficio, spesso economico, che per essere tale dovrebbe avere quantomeno un danneggiato.

Non sembra possa essere lo Stato che sul contratto a termine incassa contributi più alti e per un periodo lavorativo più lungo grazie all’accordo delle parti di posticiparne, da subito, la scadenza.

E non si ravvisa alcun danno anche per il lavoratore che ottiene ante tempus la formalizzazione della sua permanenza al lavoro, seppur a termine (del resto nessuno può garantire che l’alternativa sarebbe stata un contratto a tempo indeterminato e non la disoccupazione), per un periodo che può arrivare sino a 24 mesi. Si pensi infatti al datore di lavoro che, durante il periodo transitorio, abbia proposto la proroga di un contratto a termine prossimo ai 12 mesi, fissandone la nuova scadenza al raggiungimento dei 36 mesi complessivi.

Si consideri peraltro che un contratto a tempo determinato rappresenta un sicuro introito economico per il lavoratore, dato che un eventuale recesso datoriale prima della scadenza comporta, salva la sussistenza della cosiddetta giusta causa, il risarcimento del danno pari all’ammontare delle retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito ove il contratto si fosse concluso alla scadenza prefissata.

Non pare quindi ravvisabile alcun sfruttamento del lavoratore, casomai l’accettazione da parte di costui di una proposta datoriale considerando la saggezza popolare del meglio

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Il “Decreto Dignità” e le delocalizzazioni: profili giuslavoristici

di Armando Tursi, Ordinario di diritto del lavoro nell’Università degli Studi di Milano, Avvocato in Milano

La disciplina restrittiva delle delocalizzazioni e delle riduzioni di personale operate da imprese beneficiarie di aiuti di Stato, introdotta dal “Decreto Dignità”, merita una specifica attenzione da parte di giuslavoristi, sotto almeno due profili

1.se la Cassa Integrazione Guadagni (CIGS) possa considerarsi “aiuto di Stato” che rende applicabili le restrizioni introdotte dal “Decreto Dignità”

2.quali tipologie di licenziamento siano riconducibili a quelli intimati per “giustificato motivo oggettivo”, e dunque esclusi dall’applicazione delle predette restrizioni.

  1. L’art. 5, co. 1, del D.l. n. 87/2018, convertito con modificazioni nella legge n. 96/2018, – recante “Limiti alla delocalizzazione delle imprese beneficiarie di aiuti”, stabilisce che “… le imprese italiane ed estere, operanti nel territorio nazionale, che abbiano beneficiato di un aiuto di Stato che prevede l’effettuazione di investimenti produttivi ai fini dell’attribuzione del beneficio, decadono dal beneficio medesimo qualora l’attività economica interessata dallo stesso o una sua parte venga delocalizzata in Stati non appartenenti all’Unione europea …, entro cinque anni dalla data di conclusione dell’ iniziativa agevolata”.

    Una prima considerazione ci sembra pacifica: le norme suddette non possono riferirsi a interventi di CIGS  che non contemplano la necessità o la possibilità di investimenti produttivi e quindi sono, in via di principio, riferibili solo alla CIGS per riorganizzazione aziendale.

    Così delimitato il perimetro dell’analisi, ci si deve interrogare sulla riconducibilità dell’istituto della CIGS alla nozione di “aiuto di Stato”: nozione con la quale, ai sensi dell’art. 107 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), si intendono “gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza”.

    – Sul piano dell’esegesi letterale, si potrebbe sostenere che, affinché un provvedimento statale sia annoverabile tra gli aiuti di Stato, esso debba estrinsecarsi in vantaggi procurati alle imprese, quali sovvenzioni, prestiti agevolati, esenzioni fiscali, esoneri contributivi, riduzioni degli oneri sociali a carico del datore di lavoro, esonero dal pagamento di alcune imposte o tasse; mentre le integrazioni salariali, in quanto sostitutive di una retribuzione non dovuta a lavoratori sospesi dal lavoro o lavoranti a orario ridotto, costituiscono un beneficio per i lavoratori.

    Si potrebbe però obiettare che, salvo i casi di impossibilità oggettiva della prosecuzione dell’attività d’impresa, in caso di sospensione o riduzione dell’orario di lavoro per ragioni economiche, il datore di lavoro sarebbe tenuto a corrispondere ugualmente la retribuzione, e quindi l’integrazione salariale sarebbe a vantaggio suo e non del lavoratore. Peraltro, secondo la Commissione e la giurisprudenza della Corte di Giustizia, la nozione di “aiuti di Stato” è idonea a ricomprendere qualsiasi misura pubblica in grado di conferire alle imprese beneficiarie, grazie ad un provvedimento di carattere specifico o selettivo,un vantaggio sulle loro concorrenti in grado di falsare la concorrenza nel mercato unico.

    – Un secondo argomento utile all’esclusione degli interventi della Cassa Integrazione Guadagni può essere, allora, quello della natura generale e non selettiva di tali interventi che sono erogati secondo parametri oggettivi a tutte le imprese che dimostrino la sussistenza delle c.d. “causali” di intervento. Ciò è tanto vero, che si è dubitato, in dottrina, della natura di aiuto di Stato, non già con riferimento alla Cassa Integrazione Guadagni in generale, ma con specifico riferimento alla c.d. “Cassa integrazione in deroga”, erogata con criteri sostanzialmente discrezionali.

    – La Commissione, nel qualificare una misura come “aiuto di Stato” ai sensi dell’(allora) art. 87, § 1, del Trattato CE, delinea un’importante distinzione tra aiuti che mirano semplicemente a conservare lo status quo, e aiuti che sono diretti a consentire i necessari adattamenti agli sviluppi del mercato, contenendo gli effetti negativi sull’occupazione ovvero contribuendo alla creazione di nuovi posti di lavoro. Mentre nei confronti di questi ultimi la Commissione mostra un atteggiamento favorevole, diverso è l’atteggiamento verso gli aiuti conservativi, in linea di principio incompatibili con il Trattato in quanto implicherebbero i maggiori rischi di trasferimento della disoccupazione e delle difficoltà industriali da uno Stato membro all’altro.

    Ciò confermerebbe, aliunde, l’esclusione della CIGS per cessazione di attività (reintrodotta dall’art. 44 del D.l. n. 109/2018), se non, tout court, quella per crisi aziendale.

    – La considerazione che però ci sembra decisiva per escludere che la CIGS rientri nella nozione di aiuto di Stato cui fa riferimento l’articolo 5 della legge n. n. 96/2018, è che essa si riferisce ad aiuti di Stato che prevedano l’effettuazione di investimenti produttivi; ovvero che prevedano una valutazione dell’impatto occupazionale.

    In primo luogo, il riferimento a un “aiuto di Stato che prevede l’effettuazione di investimenti produttivi ai fini dell’attribuzione del beneficio” implica che debba trattarsi di misure che abbiano come finalità quella di favorire gli investimenti produttivi, e non invece di misure in cui l’investimento produttivo sia il presupposto affinché la misura venga erogata.

    In altre parole: negli aiuti di Stato di cui alla legge n. 96/2018, gli investimenti produttivi sono il fine dell’aiuto, e l’aiuto è la condizione dell’investimento; all’opposto, nella CIGS il presunto “aiuto” (l’intervento della CIGS) è il fine dell’investimento, e l’investimento è la condizione dell’“aiuto”.

    Analoga considerazione vale per gli investimenti che prevedano una valutazione dell’impatto occupazionale: anche da tale nozione ci pare esorbitino gli investimenti propri del programma di CIGS (per riorganizzazione), poiché anche in questo caso l’“aiuto” statale cui si allude mira a incentivare l’effettuazione di un investimento produttivo che incorpora un effetto occupazionale; mentre il presunto “aiuto” consistente nell’ammissione al trattamento di CIGS, lungi dal mirare all’incentivazione di un investimento che incorpora un effetto occupazionale, semplicemente presuppone l’effettuazione di investimenti produttivi da parte dell’imprenditore che richiede l’intervento. E quanto all’effetto occupazionale, esso, nel caso dell’“aiuto di Stato” è un effetto necessario e diretto dell’investimento, mentre nel caso della CIGS è l’effetto della stessa CIGS (la salvaguardia dei posti di lavoro è resa possibile dalla CIGS, e non – almeno direttamente e nell’immediato – dall’investimento produttivo).

    1. L’art. 6, co. 1, del “Decreto Dignità” – recante “Tutela dell’occupazione nelle imprese beneficiarie di aiuti”-, stabilisce che “Qualora una impresa italiana o estera, operante nel territorio nazionale, che beneficia di misure di aiuto di Stato che prevedono la valutazione dell’impatto occupazionale, fuori dei casi riconducibili a giustificato motivo oggettivo, riduca in misura superiore al 50 per cento i livelli occupazionali degli addetti all’unità produttiva o all’attività interessata dal beneficio nei cinque anni successivi alla data di completamento dell’investimento, decade dal beneficio; qualora la riduzione di tali livelli sia superiore al 10 per cento, il beneficio è ridotto in misura proporzionale alla riduzione del livello occupazionale”.

    Pur consapevoli dell’esistenza di opinioni contrarie e nell’assenza, ad oggi, di chiarimenti ministeriali, riteniamo che:

    i licenziamenti collettivi, ai sensi dell’articolo 24 della legge n. 223/1991, non siano inclusi tra “i casi di giustificato motivo oggettivo”che, ai sensi del comma 1 del citato articolo 6, non determinano la decadenza dal beneficio: essi, pertanto, sono incompatibili col mantenimento del beneficio;

    i licenziamenti per giustificato motivo soggettivo, pur non espressamente contemplati, siano invece compatibili col mantenimento dei benefici.

    In primo luogo va osservato che l’obiettivo esplicito del predetto art. 6 è quello di favorire investimenti produttivi da parte di imprenditori che si obblighino a produrre determinati effetti occupazionali positivi.

    Non si vede, allora, come possa perseguirsi tale obiettivo, consentendo proprio i licenziamenti che per definizione impattano sui livelli occupazionali, quali i licenziamenti collettivi per riduzione del personale.

    Né si comprende che senso possa avere l’inibizione dei licenziamenti per giustificato motivo soggettivo, i quali, oltre a non produrre effetti occupazionali sono, in un certo senso, “obbligati”, perché determinati da gravi violazioni contrattuali (disciplinari) o da superamento del periodo di comporto.

    Ciò è confermato dal Regolamento UE n. 651/2014 – recante norme su “categorie di aiuti compatibili con il mercato interno in applicazione degli articoli 107 e 108 del trattato” -, il quale prevede che, in caso di decremento occupazionale dovuto a licenziamenti per motivi oggettivi – con esclusione quindi dei “disciplinari” e delle dimissioni -, l’agevolazione non si consolidi.

    Ritenere che i licenziamenti collettivi siano inclusi nei casi di (licenziamento per) “giustificato motivo oggettivo” contemplati dal comma 1 del citato articolo 6 e che, invece, costituiscano causa di perdita del beneficio i licenziamenti disciplinari, sarebbe, oltre che assurdo, in contrasto con la normativa europea,e porterebbe a ritenere che il Legislatore abbia voluto espressamente escludere ciò che il Regolamento europeo invece espressamente prevede.

    Sul piano strettamente giuridico poi, la menzione espressa del giustificato motivo oggettivo di licenziamento rimanda all’art. 3 della legge n. 604/1966 che, come noto, si riferisce ai licenziamenti “ individuali”, intimati per ragioni attinenti “all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento della stessa”.

    Ciò, in contrapposizione con i “licenziamenti collettivi per riduzione di personale” la cui “materia”, per dettato espresso dell’art. 11 della stessa legge n. 604/1966, “ è esclusa dalle disposizioni della presente legge”.

    Detta“materia”, infatti, come pure noto, è regolata da autonomo e diverso corpo normativo, che si incardina sulla nozione di “riduzione o trasformazione dell’attività o di lavoro” (art. 24 della legge n. 223/1991), a sua volta basata su una specifica procedura a rilevanza collettivo-sindacale, che esula del tutto dal licenziamento per g.m.o. di cui all’art. 3 della legge n. 604/1966.

    Quanto ai licenziamenti disciplinari (e per scadenza del periodo di comporto): riteniamo che la mancata menzione di tali ipotesi risolutive si spieghi con la loro oggettiva, strutturale estraneità alla valutazione in termini di “impatto occupazionale”, presa in considerazione dall’art. 6 della legge n. 96/2018;

    e ciò, anche per la necessaria coerenza con la vincolante normativa regolamentare euro-unitaria.

    Per concludere sinteticamente sulla seconda questione, riteniamo che il riferimento al (licenziamento per) “giustificato motivo oggettivo”, operato dall’art. 6 della legge n. 96/2018, vada letto in contrapposizione ai licenziamenti collettivi (che dunque risultano inibiti e non ammessi, ai fini della conservazione del beneficio), e non ai licenziamenti per motivo soggettivo (disciplinari); e che, quindi, i licenziamenti collettivi per riduzione di personale, lungi dall’essere esclusi dalle cause di decadenza, costituiscano la causa tipica di decadenza dal beneficio.

 

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Senza filtro – Maledette circolari

Andrea Asnaghi, Consulente del lavoro in Paderno Dugnano

 

Ci risiamo. Di nuovo. Forse, come sempre.

Senza alcun dolcetto, lo scherzetto del 31 ottobre 2018 prende la forma di una circolare, la n. 17/2018 del Ministero del lavoro, in commento al D.l. n. 87/2018, che ha assunto il nome di Decreto Dignità in forza della pretesa (tutta da dimostrare) degli estensori di aver fatto qualcosa di buono e di utile.

La circolare, che tutti attendevano e che è arrivata assurdamente l’ultimo giorno del periodo transitorio, contiene una serie di affermazioni che lasciano, per così dire, perplessi.

Ma non di questo ennesimo parto (podalico?) della nostra burocrazia vogliamo parlare, quanto più in generale della sua smania “circolatoria” di cui la circolare n. 17/2018 non è che l’ultimo, fulgido (e forse nemmeno il peggiore) esempio. Tuttavia sarebbe davvero ingiusto attribuire all’estensore una colpa che è invece diffusa e caratterizza i nostri organismi pubblici da diversi lustri.

Vogliamo così sorprendere alcune caratteristiche perverse del motus circolatorius che non possono che lasciare basiti gli operatori per la loro pervicace e costante ripetizione nel tempo, quasi una maledizione, sicuramente una iattura. Ed è simbolico, forse, che la circolare da cui prendono il via e lo spunto queste riflessioni sia stata emanata proprio il giorno di Halloween: probabilmente è una strega cattiva, uno spirito malvagio, un’entità maligna, quella che si impossessa degli estensori di questi capolavori di inutilità, queste cattedrali di insipienza, questi gotici pinnacoli di invenzioni fantastiche, o meglio orrorifiche.

La prima caratteristica che desta perplessità è la parafrasi. Ve la ricordate la parafrasi a scuola, quell’esercizio di tradurre l’espressione poetica con parole tue, per dimostrare che avevi capito il testo? Io me la ricordo rispetto a Dante, e d’altronde il Sommo Poeta era uno che, anche per esigenze di metrica, ci dava dentro, uno che per dire “all’alba” scriveva: “Ne l’ora che non può ‘l calor diurno/ intepidar più ‘l freddo de la luna,/ vinto da terra, e talor da Saturno” (Purgatorio canto XIX).

Però, che bisogno c’è, in una circolare, di parafrasare una legge, cioè di ripetere con parole (leggermente) diverse ciò che ha già detto il Legislatore magari con il rischio – e talvolta succede – di confonderne o alterarne l’espressione?

È pur vero che qui si dovrebbe spostare il mirino sul Legislatore, ma ne parleremo dopo.

Piccola notazione fuori tema: se la parafrasi delle circolari è fastidiosa, perchè sostanzialmente inutile e ridondante, ancor più fastidiosi, al limite dell’irritazione, sono certi articoli di commento alle circolari che fanno la … parafrasi alla parafrasi (senza alcun senso critico o analitico), aggiungendo inutilità ad inutilità.

La seconda fastidiosa caratteristica, che ha qualche parentela con quella precedente, è la citazione: circolari che diventano chilometriche perché vengono riportati interi pezzi, anche molto lunghi, della legge che si sta commentando. Possibile che l’estensore supponga che chi legge, che sarà probabilmente interessato al tema, non abbia già a disposizione e letto la norma? Quando poi si sommano citazione e parafrasi, si allunga il minestrone in maniera davvero insopportabile.

Se, a onor del vero, la circolare n. 17 – da cui ha preso lo spunto questo articolo, ma che, ripetiamo, sarebbe ingiusto ne fosse l’unico o principale bersaglio – sulle due peculiarità precedenti ha evidenziato ampli miglioramenti, sicuramente è caduta nel terzo elemento distintivo delle maledette circolari, l’intempestività. Una circolare che interviene dopo quasi tre mesi a chiarire cosa accade in un periodo transitorio che finisce il giorno di diffusione della circolare sembra davvero una presa in giro. Ma sotto questo profilo altrettanto gravi, se non di più, sono le circolari dell’Inps che, fatta una legge (ad esempio su un’agevolazione) ci mettono semestri prima di emanare un paio di codici alfanumerici che permettono la fruizione concreta di tali sgravi. Secondo qualcuno lo fanno apposta. A Roma dicono che “o ci sei o ci fai”. A chi dei “circolatori seriali” legge queste righe, lasciamo la possibilità di scegliere dove piazzarsi fra l’insulsaggine e la malizia.

Nel proseguire l’esame delle prerogative perverse delle circolari, un posto di rilievo ha sicuramente l’interpretazione. Attività non richiesta e di sicuro poco pregio dal punto di vista giuridico (pare che se un avvocato in un ricorso si azzardasse a citare a sostegno delle proprie tesi una circolare, rischierebbe di essere oggetto di scherno e dileggio da parte del giudice e dei colleghi), è qui che il circolatore seriale raggiunge picchi di inusitata volontà di potenza (“le leggi sono scritte male? Ci penso io!”). In alcuni corridoi ministeriali (e di qualche Ente) si sussurra anzi che di fronte ad una norma scritta benino, in modo chiaro e comprensibile (lo so, succede davvero molto raramente …), il circolatore seriale – o “presticircolatore”, per le sue velleità magico-esoteriche – ci resti male e si senta, come dire, defraudato del sacro compito di interprete qualificato, quasi un ruolo sacerdotale (ruolo non richiesto e che ovviamente si è auto-attribuito).

Strettamente collegata all’interpretazione è l’invenzione; perché anche quando un concetto è abbastanza chiaro, il circolatore seriale ci mette del suo e partorisce concetti strampalati che non stanno né in cielo né in terra. Così, nell’ultimo sforzo da cui han preso spunto queste riflessioni, scopriamo che se un tempo determinato viene prorogato con una motivazione differente da quella originaria, non di proroga bensì di rinnovo si tratta. Ora, tempo addietro se qualcuno se ne usciva con un’assurdità gli si chiedeva, a mo’ di battuta: “E questa dove l’hai letta? Su Topolino?”. Ma qui nemmeno il più maldestro Paperoga potrebbe assurgere a codesti livelli di pura assurdità; nemmeno in Archimede Pitagorico potrebbe evidenziarsi l’ardita creatività di tali concetti. Ho l’impressione che dovremmo aggiornare la vecchia battuta, cambiandola in tal modo: “E questa dove l’hai letta? Su una circolare?”.

E che dire dell’incongruenza? Siccome gli emittenti (di circolari) sono molteplici, capita spesso che dicano cose in contraddizione fra loro. Ricordate, ma è solo un piccolo esempio fra tanti, la diatriba fra “anno civile” ed “anno solare” con cui rispettivamente Ministero del lavoro ed Inps davano informazioni diverse sul computo temporale dei limiti economici del lavoro accessorio? Senza nemmeno consultarsi. Anzi, a volte si consultano (avete presenti i vari “sentito questo”, “acquisito il parere da quello”) e arrivano comunque a risultati da disperazione. Io me le figuro, queste consultazioni, come un gruppo di streghe intorno ad un pentolone di pozione incantata (abbiamo cominciato con Halloween, andiamo avanti sulla falsariga…), ciascuno butta qualche ingrediente, si mescola il tutto. Il filtro magico che ne esce però lo beviamo noi, e quasi sempre è velenoso.

Ma dove il serial circulator dà prova di tutta la sua potenza immaginifica è nella motivazione. Ci sono leggi di cui non si capisce la ragione e che sono palesemente errate. Perché – quale tragica excusatio non petita – il presticircolatore si sente in dovere di cercare ed offrire una spiegazione che, come la norma che vorrebbe motivare, non sta né in cielo né in terra? Noi consulenti lo sappiamo benissimo, di fronte agli occhi sgranati del cliente di turno, che se cercassimo di dare un significato a certe disposizioni verremmo trascinati via in ambulanza costretti in una camicia di forza oppure sottoposti ad una serie di esami neurologici (o, se ci va bene, perderemmo la stima del cliente). Ma il circolatore no. Lui vuole penetrare la ratio. Lo fa, probabilmente, canticchiando Vasco Rossi: “Voglio dare un senso a questa storia, anche se questa storia un senso non ce l’ha”.

C’è una sola, molto molto parziale, attenuante a tutto ciò: il circolatore seriale o presticircolatore subisce il negativo influsso del prestilegislatore (per chi ancora non conoscesse il prestilegislatore, rimandiamo al “Senza Filtro” su Sintesi, aprile 2017). Di fronte a leggi scritte male, ma così male che peggio non si può, con una catastrofica distanza sia dalla logica sia dal mondo reale, il presticircolatore verrebbe colto da una sorta di horror vacui, gettandosi di conseguenza a capofitto nella stesura di pagine e pagine di efferata insensatezza. Vittima predestinata dei due soggetti suddetti è il “gioconsulente”, una via di mezzo fra il consulente ed il giocoliere, costretto a fare il saltimbanco fra norme incomprensibili e circolari che le complicano, dovendo ovviamente applicarle. Tanto che qualcuno sostiene che il gioconsulente i birilli con cui compie i quotidiani esercizi funambolici saprebbe esattamente a chi tirarli. Ma il povero gioconsulente,  evidentemente affetto dalla sindrome di Stoccolma, di fronte all’ennesima norma insulsa e confusa non solo non si ribella ma in tono speranzoso pensa, dice e (talvolta anche) scrive: “aspettiamo futuri chiarimenti”. Ovvero la prossima inutile, pretenziosa, inconcludente, maledetta circolare.


Chi legge questa rubrica, sa che talvolta è un misto di serietà e passione, ma anche ironia e divertissement. Ed in ossequio a quest’ultima caratteristica, proponiamo la rivisitazione di un classico della musica leggera italiana. Ricordate la splendida ed irraggiungibile Mina (in “Parole, parole”) cantare sul parlato di un Alberto Lupo nella parte di un marpione ciarlatano ed inconcludente? Ed ecco a voi una versione ove al posto di Mina abbiamo un gioconsulente ed al posto di Alberto Lupo il circolatore seriale (il parlato è quello fra parentesi in corsivo). Provate a cantarla nei vostri studi, vi sentirete un po’ meglio (fino alla prossima circolare). E chissà che Mina, che oltre che di un’inarrivabile voce è anche dotata di grande humor e simpatia, non ce ne regali una versione, magari da ascoltare in rete o, perché no, al prossimo Festival del Lavoro…

 

Parole, Parole

 

(Cosa mi succede oggi, sento come un bisogno interiore)

Che cosa fai, che cosa fai, che cosa fai

(sto per scrivere una circolare)

Cosa fai

(lo faccio ancora, lo so, non ho giustificazioni..)
Non cambi mai, non cambi mai, non cambi mai

(il nostro Ente sta cambiando, vuole progredire nei servizi all’utenza)

Proprio mai

(ma sicuramente servizi telematici)
Adesso ormai ci puoi provare

(ma dottore…)

chiamami “dottore” dai, già che ci sei

(guardi che il comma 2/bis non l’ho compreso neanch’io…)

Circolari non ne voglio più

(Certe volte non la capisco, dottore)

Le interpretazioni questa volta sciorinale a un altro,

le tue invenzioni mi fanno arrabbiare

voglio la norma più chiara che c’è

ma così chiara che

capisci pure te

 

(Una parola ancora…)

 

Parole, che brutte parole

(Mi ascolti…)

Parole, che vuote parole

(La prego…)

Parole, insipienti parole

(Ma il mio ruolo mi impone…)

Parole, parole, parole, parole parole soltanto parole, parole da te.

 

 

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Il Ministero stecca ancora su proroghe e rinnovi dei rapporti a tempo determinato

a cura di Alberto Borella, Consulente del lavoro in Chiavenna

 

Lo avevamo intuito da subito. L’applicazione sul campo del Decreto Dignità ci avrebbe riservato delle spiacevoli sorprese.

La tecnica legislativa approssimativa non lasciava del resto presagire nulla di buono. Lo stesso Ministero, resosi probabilmente conto delle moltissime carenze ed incertezze create dal provvedimento, aveva cercato di rasserenare tutti promettendo, immediatamente dopo l’entrata in vigore del decreto, alcuni solleciti chiarimenti.

Adesso che i chiarimenti sono arrivati – con quella serafica calma (ovvia l’ironia) che l’urgenza di restituire la dignità al lavoro richiede – non possiamo dire di essere più tranquilli di prima.

La Circolare n. 17 del 31 ottobre 2018 del Ministero del lavoro

Uno dei dubbi emersi da subito ha riguardato l’esatta definizione di proroghe e rinnovi, dato che il decreto non ne fornisce una esplicita definizione.

Volendo semplificare si era sostenuto che la proroga consistesse nella prosecuzione senza soluzione di continuità del contratto. Il rinnovo invece sarebbe consistito nella sottoscrizione di un nuovo contratto dopo l’avvenuta cessazione del precedente.

Ma è tutto così semplice? Assolutamente no. Non lo sembrava prima, non lo è ora dopo l’interpretazione datane dalla circolare ministeriale.

Le proroghe al contratto a termine secondo il Ministero

Il Dicastero di Via Vittorio Veneto, dopo averci ricordato che la proroga sottoscritta entro il primo anno di rapporto non necessita di motivazione, si spinge in una interpretazione rigida, potremmo dire fantasiosa, asserendo che dopo il superamento del predetto termine (complessivo) di 12 mesi

la proroga presuppone che restino invariate le ragioni che avevano giustificato inizialmente l’assunzione a termine, fatta eccezione per la necessità di prorogarne la durata entro il termine di scadenza.

La questione andrebbe, a detta di chi scrive, probabilmente posta in termini diversi, rammentando in primis che la disposizione di legge parla di un “contratto (che) può essere prorogato liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente, solo in presenza delle condizioni di cui all’articolo 19, comma 1” e chiedendoci se per proroga si voglia intendere il mero spostamento del termine finale, prescindendo quindi dalle motivazioni sottostanti le singole proroghe, oppure se la modifica del termine in corso di contratto debba, trascorsi i primi 12 mesi, essere supportata da una motivazione, la quale ove diversa modificherebbe la volontà delle parti, da prorogare il contratto a quella di rinnovarlo.

Possiamo subito notare che l’articolo 21, con il neo introdotto comma 01, non stabilisce che vi debba essere l’esatta coincidenza tra le eventuali causali indicate, ma al contrario che vengano rispettate le “condizioni di cui all’art. 19, comma 1” senza però richiamare espressamente la disciplina dello stop&go, peraltro prevista al successivo articolo 21, comma 2, ma soprattutto per la sola ipotesi di “riassunzione” o per meglio dire di rinnovo.

Ciò che viene richiesto, almeno così pare a chi scrive, è che sia esplicitata una delle motivazioni richiamate ma non necessariamente che questa rimanga immutata per tutto il rapporto lavorativo.

Ma il Ministero va dritto per la sua strada. Ritenuto che una proroga sia di fatto un rinnovo ove le parti richiamino in contratto una causale diversa, sembra altresì implicitamente sostenere che i motivi della prosecuzione del rapporto – che abbiamo visto essere irrilevanti nel primo anno – assurgano ad elemento di validità del contratto a termine una volta entrati nel secondo anno di rapporto.

Ecco allora l’inevitabile conclusione, ovvero che

non è possibile prorogare un contratto a tempo determinato modificandone la motivazione, in quanto ciò darebbe luogo ad un nuovo contratto a termine ricadente nella disciplina del rinnovo, anche se ciò avviene senza soluzione di continuità con il precedente rapporto.

Si noti anche che è lo stesso Ministero a riconoscere implicitamente che la soluzione di continuità è, di norma, il requisito identificativo della fattispecie “rinnovo”, facendo eccezionalmente rientrare in questa figura quelle proroghe per le quali venga successivamente a modificarsi la causale indicata in fase di assunzione o successivamente.

Resta il fatto che chiunque si fosse organizzato pensando di poter legittimamente prorogare, dopo il 1° novembre, un contratto che aveva già superato complessivamente i 12 mesi, citando una motivazione diversa dalla precedente, avrebbe dovuto, circolare n. 17/2018 alla mano, rivedere i propri programmi, probabilmente imponendo al lavoratore uno stop&go.

E se l’avesse fatto senza leggere le, ahimè, tardive precisazioni ministeriali si troverebbe oggi con la classica spada di Damocle sulla testa.

Il rinnovo del contratto a termine secondo il Ministero

Sul rinnovo, l’esordio del Ministero parrebbe a prima vista allineato alle conclusioni della stampa specializzata, affermando che

Si ricade altresì nell’ipotesi del rinnovo qualora un nuovo contratto a termine decorra dopo la scadenza del precedente contratto.

La definizione, in evidente contrapposizione al concetto di proroga, individua in un precedente rapporto di lavoro già cessato il presupposto perché vi sia un rinnovo del contratto.

La soluzione di continuità pare assurgere – ma vedremo oltre, parlando della somministrazione, che così non è – a requisito che distingue il rinnovo dalla proroga.

Purtroppo il chiarimento ministeriale si ferma qui. Coloro che avevano ritenuto che il rinnovo si realizzi – citando una delle tante definizioni tratte dalle enciclopedie online – al “verificarsi di nuovo, ripetersi” di una determinata situazione, rimangono ancora senza risposta.

Chi, come chi scrive, aveva ipotizzato di considerare rinnovi i soli contratti che riproponessero gli elementi essenziali del precedente contratto quali individuati dall’art. 1325 c.c. – ovvero l’accordo delle parti, l’oggetto, la forma ove prescritta dalla legge a pena di nullità e la causa intesa come lo scopo economico sociale del negozio giuridico – dovrà attendere le prime sentenze della magistratura.

Nelle more sarà opportuno fare attenzione a non modificare nessuno degli elementi del contratto che si intende prorogare poiché anche una piccola modifica delle condizioni contrattuali – pensiamo al mero cambio di livello mantenendo sostanzialmente le medesime mansioni – potrebbe essere considerata da qualche giudice non una proroga bensì un rinnovo, con ciò che ne consegue in termini di mancato rispetto dello stop&go e del mancato pagamento del contributo addizionale dello 0,50%.

Tutto ciò evidentemente non aiuta né le imprese, che per evitare problemi opteranno per il turnover, né di conseguenza i lavoratori che della dignità senza il lavoro se ne fanno ben poco.

E per fortuna che il Ministero aveva esordito nella sua circolare parlando di indicazioni operative che hanno considerato le “richieste di chiarimento finora pervenute”. Come dire che nessuno ha mai chiesto cosa debba intendersi per rinnovo.

Resta evidente un fatto: l’averlo ripetutamente scritto sulle riviste e sui quotidiani specializzati non vale. Del resto, date le note ristrettezze economiche in cui opera la P.A., mica si può pretendere che il Ministero faccia l’abbonamento a Il Sole 24 Ore o a Italia Oggi, e tanto meno alle riviste di Euroconference o di Ipsoa!

Anche se, a pensarci bene, Sintesi è gratuita.

Proroghe e rinnovi nei contratti di somministrazione

Il Ministero prende atto che, stando al decreto-legge n. 87/2018, anche i contratti di somministrazione a termine necessitano, sia se di durata superiore a 12 mesi che in ogni caso di loro rinnovo, l’esplicitazione dei motivi, che comunque, viene sottolineato, riguardano il solo utilizzatore.

Il Ministero, bontà sua, rammenta altresì che per la verifica di tale limite temporale sono cumulabili i soli periodi svolti presso il medesimo utilizzatore, restando irrilevanti quelli prestati presso altre e diverse imprese.

E qui il Ministero parte con l’ennesima interpretazione che non convince affatto chi, oggi, qui la commenta. Vediamo esattamente cosa si dice.

In proposito, si evidenzia che l’obbligo di specificare le motivazioni del ricorso alla somministrazione di lavoratori a termine sorge non solo quando i periodi siano riferiti al medesimo utilizzatore nello svolgimento di una missione di durata superiore a 12 mesi, ma anche qualora lo stesso utilizzatore aveva instaurato un precedente contratto di lavoro a termine con il medesimo lavoratore per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria.

Semplicemente imbarazzante. Il Ministero fa di tutta l’erba un fascio arrivando a ritenere che si rinnovi un accordo anche quando il precedente rapporto lavorativo si sia basato su un diverso contratto civilistico. Si scordano, evidentemente, i tecnici ministeriali, che nella somministrazione l’utilizzatore non stipula alcun contratto con il lavoratore. Il contratto di lavoro il lavoratore lo sigla con l’Agenzia, la quale a sua volta formalizza un contratto commerciale con l’utilizzatore.

Forse il Ministero si confonde pensando alla disposizione di cui al comma 2 dell’articolo 19 che assimila esplicitamente – ma, attenzione, ai soli fini del computo del periodo massimo di 24 mesi – tutti i periodi svolti con contratto a termine, comprendendovi quindi anche quelli con contratto di somministrazione a termine, per lo svolgimento di mansioni dello stesso livello e categoria legale.

Che volete che sia tutto ciò. Facezie. L’importante, sembra, è porre più paletti possibili all’utilizzo di contratti a tempo determinato.

Il Ministero quindi procede spedito e ne trae le inevitabili conseguenze citando alcuni esempi che vorrebbero chiarire le condizioni per la legittima successione di una missione in somministrazione dopo un contratto subordinato a termine, fornendo questa precisazione

– in caso di precedente rapporto di lavoro a termine di durata inferiore a 12 mesi, un eventuale periodo successivo di missione presso lo stesso soggetto richiede sempre l’indicazione delle motivazioni in quanto tale fattispecie è assimilabile ad un rinnovo;

Ma ovviamente non ci si ferma qui. Giammai. Il ragionamento vale anche per il caso opposto, ovvero di un contratto a tempo determinato che venga stipulato dopo uno in somministrazione.

– in caso di un periodo di missione in somministrazione a termine fino a 12 mesi, è possibile per l’utilizzatore assumere il medesimo lavoratore direttamente con un contratto a tempo determinato per una durata massima di 12 mesi indicando la relativa motivazione.

Il ragionamento del Ministero appare decisamente contorto e purtroppo deve darsi atto che anche la Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro risulta avvallare l’interpretazione ministeriale riproponendone in toto i contenuti nel proprio approfondimento dello scorso 5 novembre 2018.

Vediamo in cosa risulta fallace – secondo il modesto parere di chi scrive – questo ragionamento. Va detto che secondo il disposto dell’articolo 34 del D.lgs. n. 81/2015 “in caso di assunzione a tempo determinato il rapporto di lavoro tra somministratore e lavoratore è soggetto alla disciplina di cui al capo III, con esclusione delle disposizioni di cui agli articoli 21, comma 2, 23 e 24”.

Nella sostanza potremmo semplificare dicendo che nel Capo IV dedicato alla Somministrazione di lavoro sono stati inseriti, paro paro, gli articoli 19, 20, 22, 25 e seguenti, mentre l’articolo 21 solo limitatamente ai commi 01, 1 e 3.

Sottolineiamo subito che l’articolo 21 – il cui comma 01 dispone che “il contratto può essere rinnovato” e che “il contratto può essere prorogato” – risulta inserito nel Capo III che disciplina il “Lavoro a tempo determinato”. Di conseguenza il termine generico di “contratto” deve, contestualizzandolo, intendersi riferito a questa e solo a questa tipologia di rapporto.

Se quindi rileggiamo il citato comma 34 ove si dispone che anche al “rapporto di lavoro tra somministratore e lavoratore” si applica la disciplina dei rinnovi e delle proroghe ex comma 01 e 1 dell’articolo 21, dovremmo dedurre che il “contratto” qui citato sia in questo caso da riferire a quello di somministrazione e solo a questo.

Insomma, qualche dubbio sulla correttezza della lettura ministeriale appare più che fondato.

Spiace ad ogni buon conto dover sottolineare che il chiarimento venga dato nella sezione della circolare dedicata alle “Condizioni” della somministrazione di lavoro e non in quella dedicata al tempo determinato.

Chissà a quanti datori di lavoro, soprattutto quelli che non ricorrendo alle agenzie interinali non si sono soffermati a leggere la parte finale della circolare dedicata alla somministrazione, sarà sfuggito questo piccolo dettaglio.

Resta il fatto che il Ministero non vacilla: l’aver utilizzato un lavoratore con assunzione diretta a termine o in somministrazione è la stessa cosa, il che fa sì che in caso di nuovo utilizzo del medesimo soggetto, sia a termine che in somministrazione, si configuri sempre un rinnovo e quindi l’obbligo del richiamo alle causali.

Conclusioni

Emerge con chiarezza come l’interpretazione ministeriale risulti assolutamente allineata alla ratio del provvedimento ovvero operare una massiccia limitazione all’utilizzo del contratto a termine, il male assoluto alla stabilizzazione dei rapporti di lavoro che, debellato, restituirà la dignità a lavoratori e pure, ma non si capisce come, alle imprese.

Si giunge così ad assecondare la convinzione del Legislatore che negare il più possibile il ricorso ai rapporti a scadenza possa avere l’effetto di costringere i datori di lavoro ad assumere a tempo indeterminato il lavoratore (l’individuazione fumosa delle causali rientra in questa strategia). E questo anche rischiando sulla pelle di coloro che siano già stati alle dipendenze di un datore di lavoro o che abbiano svolto presso costui un qualsiasi, anche brevissimo, periodo in somministrazione.

La cecità di tale visione è presto dimostrata ipotizzando un lavoratore che sia stato inviato in missione presso un datore di lavoro per un paio di giorni. Se, come sostiene il Ministero, la successiva assunzione, anche a distanza di anni, di un lavoratore già utilizzato in somministrazione dovesse considerarsi giuridicamente un rinnovo, veramente esiste qualcuno convinto che costui, dato l’obbligo di ricorso alle causali, abbia una qualche possibilità di essere assunto a termine o addirittura a tempo indeterminato? Sarà. Chi scrive qualche dubbio lo nutre.

Già ingenti si ritengono i danni che farà la disciplina legale del rinnovo, ovvero la riassunzione del lavoratore dopo un precedente, anche ridotto, rapporto di lavoro subordinato, imponendo il ricorso alle causali. C’era davvero il bisogno di ampliare, peraltro mediante una opinabilissima indicazione di prassi, questo vincolo anche a coloro che nell’impresa ci sono entrati come somministrati convinti che il poterci lavorare un paio di giorni rappresentasse una opportunità per farsi conoscere da un possibile futuro datore di lavoro?

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Decreto dignità: più della Legge poté la Circolare

di Andrea Morzenti – Curatore e autore di intornoallavoro.com

Negli ambienti frequentati dagli addetti ai lavori, si dice, si mormora, di grandi e importanti aziende che avrebbero chiesto ai loro grandi e importanti studi legali, un parere legale, una interpretazione, della Circolare del Ministero del Lavoro n. 17 del 31 ottobre 2018 con cui il Ministero avrebbe “fornito le prime indicazioni interpretative in materia di contratto di lavoro a tempo determinato e somministrazione di lavoro dopo le modifiche introdotte” dal Decreto cosiddetto Dignità (che, di seguito, chiamerò DD).

Ora, capite, che se sono necessari pareri ed interpretazioni su un atto amministrativo interpretativo di una norma di legge, ecco, c’è qualcosa che non va. Forse, aveva ragione un amico, un ottimo avvocato, quando mi diceva “fidati, è meglio se il Ministero non la scrive la Circolare”. Ma tant’è, la Circolare c’è e ora occorre prenderne in qualche modo atto.

Con una doverosa premessa. E cioè che le circolari «[…] non producono alcun “diritto vivente” che vincoli nella interpretazione delle norme» (C. Cost., n. 188/1998; Cass., n. 12911/2017). Detto ciò, partiamo.

Il Ministero del Lavoro ha quindi lasciato trascorrere tutto quanto il regime transitorio e ha pubblicato la sua Circolare. Sul transitorio, forse, non sapeva proprio cosa scrivere, non sapeva come interpretare una delle tante norme di difficile lettura del DD, e si è quindi limitato solo a scrivere che il regime transitorio ha trovato “applicazione anche con riferimento alla somministrazione di lavoro a tempo determinato”. Un’interpretazione ovvia ai più, anche se alcune voci in contrasto con questa lettura vi erano state (cfr., in particolare, Circolare Fondazione Studi Consulenti del Lavoro n. 16/2018).

Qui mi soffermerò su tre dei tanti punti trattati nella Circolare del Ministero: i) somministrazione di lavoro, ii) periodo massimo di occupazione e iii) condizioni.

Somministrazione di lavoro

Il Ministero precisa che “nessuna limitazione è stata introdotta per l’invio in missione di lavoratori assunti a tempo indeterminato dal somministratore. Pertanto, in questo caso, ai sensi dell’articolo 31 del citato decreto legislativo n. 81, tali lavoratori possono essere inviati in missione sia a tempo indeterminato che a termine presso gli utilizzatori senza obbligo di causale o limiti di durata, rispettando i limiti percentuali stabiliti dalla medesima disposizione”.

Si giunge a questa importante conclusione in quanto le novità del DD hanno riguardato il solo contratto di lavoro a termine (anche) delle agenzie e non il contratto commerciale di somministrazione. Quindi, se l’agenzia assume a tempo indeterminato non è mai richiesta la causale anche in caso di somministrazione a tempo determinato.

E, scrive il Ministero, non vi sono neppure “limiti di durata” all’invio in missione. Ora, su questo aspetto, se è pacifico che non vi sono dubbi in caso di somministrazione a tempo indeterminato, qualche riflessione in più va fatta in caso di somministrazione a tempo determinato. Perché, se è vero che l’invio in missione da parte dell’agenzia non ha limiti, residuano dubbi lato utilizzatore, in quanto quest’ultimo riceverebbe attività lavorativa (missione) sempre con contratto di somministrazione a tempo determinato (cfr. art. 19, co. 2, D.lgs. n. 81/2015, salvo diverse disposizioni dei contratti collettivi anche aziendali). E, aderendo alla tesi più estensiva, verrebbero meno tutte le differenze tra somministrazione a tempo determinato e quella a tempo indeterminato (salvo i diversi limiti percentuali).

Periodo massimo di occupazione

Qui il Ministero, nel titolo (non è mio, è proprio della Circolare), supera la fantasia e le peggiori letture negative del DD. Non dice di “occupazione a tempo determinato”, ma di “occupazione” punto. Quasi a voler dire, inconsciamente, che decorsi gli n mesi (vedremo poi quanti) l’occupazione viene meno…

Detto ciò, titolo a parte, è questo sicuramente il paragrafo meno chiaro di tutta la Circolare, che sconta la difficoltà (e la poca conoscenza/dimestichezza) nel comprendere appieno le differenze tra contratto di lavoro “a scopo di somministrazione” e contratto commerciale “di somministrazione”. Che vedo esserci anche a Roma, in Via Veneto.

Si parte con un “In proposito occorre anche considerare che per effetto della riforma l’articolo 19, comma 2, del d.lgs. n. 81/2015 è adesso applicabile anche alla somministrazione di lavoro a tempo determinato”, che non è vero. Perché la somministrazione di lavoro a tempo determinato c’è da sempre nel comma citato (anzi c’è dal 2012, Riforma Fornero, altro comma, altro decreto, ma sostanzialmente stessi contenuti). Forse il Ministero voleva dire “contratti a termine a scopo di somministrazione”, cioè i contratti di lavoro a termine stipulati dalle agenzie? Forse, chissà…

E si continua con un “il suddetto limite temporale di 24 mesi opera tanto in caso di ricorso a contratti a tempo determinato quanto nell’ipotesi di utilizzo mediante contratti di somministrazione a termine. Ne consegue che, raggiunto tale limite, il datore di lavoro non potrà più ricorrere alla somministrazione di lavoro a tempo determinato con lo stesso lavoratore per svolgere mansioni di pari livello e della medesima categoria legale”. Cosa vorrà dire qui il Ministero? Smentisce e contraddice sé stesso quando nel 2012 disse che “il periodo massimo costituisce solo un limite alla stipulazione di contratti a tempo determinato e non – invece – al ricorso alla somministrazione di lavoro. Ne deriva che, una volta raggiunti i trentasei mesi, il datore di lavoro potrà ricorrere alla somministrazione a tempo determinato con lo stesso lavoratore” (cfr. Circolare n. 18 e Interpello n. 32)? Oppure vuol dirci altro con la locuzione “il datore di lavoro non potrà”? Perché nella somministrazione il datore di lavoro è l’agenzia (somministratore), non l’azienda (utilizzatore).

E si finisce con “si chiarisce che il computo dei 24 mesi di lavoro deve tenere conto di tutti i rapporti di lavoro a termine a scopo di somministrazione intercorsi tra le parti, ivi compresi quelli antecedenti alla data di entrata in vigore della riforma”. E qui, mi chiedo: a chi si riferisce il Ministero? All’utilizzatore, ricordando che deve computare i contratti di somministrazione a tempo determinato anche prima del 14 luglio 2018 (in particolare, aggiungo io, solo quelli dal 18 luglio 2012, data di entrata in vigore delle Riforma Fornero)? O al somministratore?

Perché, se all’utilizzatore, la locuzione “rapporti di lavoro a termine a scopo di somministrazione” potrebbe anche validare la tesi per cui la somministrazione a tempo determinato eseguita con rapporti di lavoro a tempo indeterminato non avrebbe limiti di durata.

Se, invece, il riferimento è al somministratore, lascia quantomeno dubbiosi, in quanto al somministratore l’art. 19, co. 2 non si è mai applicato prima del 14 luglio 2018. E, non essendoci nel DD alcuna norma di “computo a ritroso” (cfr., a contrario, art. 5, co. 4-bis, del D.lgs. n. 368/2001, introdotto dalla L. n. 247/2007) non si capisce il perché, e la legittimità, di una norma con effetti sostanzialmente retroattivi.

Condizioni

Su questo mi limito a riportare le posizioni del Ministero e un, permettetemi, errore di sbaglio (forse un copia/incolla andato un po’ lungo).

Partiamo dalle posizioni. Molto semplicemente il Ministero dice che, quale conseguenza del comma 1-ter dell’articolo 2 del DD (introdotto dalla legge di conversione, l’oscuro comma come lo chiamo io), tutti i “passaggi” dello stesso lavoratore da contratto di somministrazione a contratto a termine (e viceversa), con lo stesso datore/utilizzatore, necessitano sempre e comunque di causale. In sostanza, sono sempre dei rinnovi. Io condivido solo in parte queste conclusioni, come ho provato a spiegare in modo più compiuto possibile nel mio articolo su questa stessa Rivista n. 10 di ottobre 2018. Altra conseguenza, questa invece assolutamente condivisibile, è che per il somministratore la causale risulta necessaria (oltre che, ovviamente, in caso di contratto di durata iniziale o prorogata superiore ai dodici mesi) in caso di rinnovo, solo se con lo stesso utilizzatore.

E veniamo a quello che ho chiamato “errore di sbaglio”. Il Ministero scrive “si evidenzia che l’obbligo di specificare le motivazioni del ricorso alla somministrazione di lavoratori a termine sorge non solo quando i periodi siano riferiti al medesimo utilizzatore nello svolgimento di una missione di durata superiore a 12 mesi, ma anche qualora lo stesso utilizzatore aveva instaurato un precedente contratto di lavoro a termine con il medesimo lavoratore per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria”. Ecco, qui, il copia/incolla, come dicevo, è andato un po’ lungo. Perché l’obbligo di causale sorge, in caso di rinnovo, indipendentemente da “mansioni di pari livello e categoria”, requisito questo richiesto solo per il contatore dei 24 mesi (art. 19, co. 2, D.lgs. n. 81/2015) e non, appunto, in caso di rinnovo con causale (art. 19, co. 1 e art. 21, co. 01, D.lgs. n. 81/2015).

Insomma, in conclusione, riparto dalle premesse. Vero è che la Circolare non produce effetti vincolanti nell’interpretazione del DD. Per gli Ispettori del Lavoro sì, ma per altri interpreti no; tantomeno per un Giudice, soggetto solo alla Legge. Ma certamente fissa paletti, che potranno influenzare le policies delle aziende e delle agenzie. Le varie domande che ho posto (a cui chissà quante altre se ne possono – e se ne sono già – aggiunte) credo spieghino il perché grandi aziende han dovuto chiedere interpretazioni della Circolare ai loro legali.

In estrema sintesi, possiamo dire che più della Legge poté la Circolare.

 

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Lavoro a termine, il Ministero spiega il Decreto Dignità

a cura di Potito di Nunzio, Presidente dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro di Milano e provincia

Il Ministero del Lavoro fornisce le prime note interpretative in materia di contratto di lavoro a tempo determinato e somministrazione di lavoro dopo le modifiche introdotte dal Decreto Dignità[1]

Allo scadere del periodo transitorio, il Ministero del Lavoro con la circolare n. 17 del 31 ottobre 2018 fa conoscere il proprio pensiero sul c.d. Decreto Dignità e in particolare sulle modifiche apportate in materia di contratto a termine e di somministrazione di manodopera. Il 31 ottobre 2018 è infatti scaduto il periodo entro il quale si potevano applicare le vecchie normative senza incorrere nelle restrizioni introdotte dallo stesso decreto.

Al periodo transitorio il Ministero, però, dedica poche righe ricordando che in tale periodo le proroghe e i rinnovi restano disciplinati dalle disposizioni del D.lgs. n. 81/2015 nella formulazione antecedente al n. 87/2018, mentre dalla data del 1° novembre 2018 trovano piena applicazione tutte le disposizioni introdotte con la riforma, compreso l’obbligo di indicare le condizioni in caso di rinnovi (sempre) e di proroghe (dopo i 12 mesi).

Il Ministero, inoltre, in base ad una lettura sistematica, ritiene che tale periodo transitorio trovi applicazione anche con riferimento alla somministrazione di lavoro a tempo determinato, risolvendo così il dubbio che alcuni interpreti (pochi, a dire il vero) si erano posti. È infatti ragionevole concludere, continua il Ministero, che i più stringenti limiti introdotti rispetto alla disciplina previgente operino gradualmente, sia nei confronti dei rapporti di lavoro a termine che nei confronti dei rapporti di somministrazione a termine.

Il Ministero nella circolare in commento ripropone le varie novelle introdotte dal Legislatore dando la propria interpretazione su alcuni dubbi sollevati dagli in-terpreti e portati all’attenzione dello stesso Ministero.

Contratto a tempo determinato

Circa il contratto a tempo determinato, ricorda il Ministero, le novità riguardano in primo luogo la riduzione da 36 a 24 mesi della durata massima del contratto a tempo determinato, con riferimento ai rapporti stipulati tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, anche per effetto di una successione di contratti, o di periodi di missione in somministrazione a tempo determinato, conclusi per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale, indipendentemente dai periodi di interruzione.

Più precisamente, le parti possono stipulare liberamente un contratto di lavoro a termine di durata non superiore a 12 mesi, mentre in caso di durata superiore tale possibilità è riconosciuta esclusivamente in presenza di specifiche ragioni che giustifichino un’assunzione a termine. Tali condizioni sono rappresentate esclusivamente da:

  • esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività;
  • esigenze di sostituzione di altri lavoratori;
  • esigenze connesse a incrementi temporanei, significativie non programmabili, dell’attività ordin
  • Per stabilire se ci si trovi in presenza di tale obbligo si deve tener conto della durata complessiva dei rapporti di lavoro a termine intercorsi tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, considerando sia la durata di quelli già conclusi, sia la durata di quello che si intende eventualmente p Il Ministero fa l’esempio di un primo rapporto a termine della durata di 10 mesi che si intenda prorogare di ulteriori 6 mesi. In tale caso, anche se la proroga interviene quando il rapporto non ha ancora superato i 12 mesi, sarà comunque necessario indicare le esigenze innanzi richiamate in quanto complessivamente il rapporto di lavoro avrà una durata superiore a tale limite.

Il Ministero sottolinea la necessità di indicare le causali anche nelle ipotesi in cui non è richiesto (contratti fino a 12 mesi) e ciò al fine di poter fruire dei benefici previsti da altre disposizioni di legge (ad esempio per gli sgravi contributivi di cui all’art. 4, co. 3 e 4, del D.Lgs. n. 151/2001, riconosciuti ai datori di lavoro che assumono a tempo determinato in sostituzione di lavoratrici e lavoratori in congedo).

Proroghe e rinnovi

Anche il regime delle proroghe e dei rinnovi del contratto a termine, ricorda il Ministero, è stato modificato sia in ordine alla durata massima sia alle condizioni coerentemente con le finalità perseguite dalla riforma. È pertanto possibile prorogare liberamente un contratto a tempo determinato entro i 12 mesi, mentre per il rinnovo è sempre richiesta l’indicazione della causale. La proroga presuppone che restino invariate le ragioni che avevano giustificato inizialmente l’assunzione a termine, fatta eccezione per la necessità di prorogarne la durata entro il termine di scadenza. Pertanto, non è possibile prorogare un contratto a tempo determinato modificandone la motivazione, in quanto ciò darebbe luogo ad un nuovo contratto a termine ricadente nella disciplina del rinnovo, anche se ciò avvenisse senza soluzione di continuità con il precedente rapporto.

Questa interpretazione, a parere di chi scrive, sembra corretta e coerente con le finalità del Decreto. In altri termini il Ministero ci sta dicendo che se il rapporto sorge senza causali, può essere prorogato fino a 12 mesi sempre senza causali. Ma se il contratto a termine è già stato stipulato con l’obbligo delle motivazioni, queste ultime devono permanere in caso di proroga del contratto.

Il Ministero ricorda che il numero massimo di proroghe non può essere superiore a 4, entro i limiti di durata massima del contratto e a prescindere dal numero dei contratti e con esclusione dei contratti instaurati per lo svolgimento di attività stagionali.

 

Il ruolo della contrattazione collettiva

Per quanto riguarda il rinvio alla contrattazione collettiva, il Ministero ritiene valide le pregresse pattuizioni collettive risolvendo chiaramente i dubbi sorti sulla validità delle deroghe alla durata del contratto a termine previste dalla contrattazione collettiva anche se riferite a precedenti normative legislative. Ricorda innanzitutto la facoltà dei contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, di prevedere una durata diversa, anche superiore, rispetto al nuovo limite massimo dei 24 mesi. In merito alle previsioni contenute nei contratti collettivi stipulati prima del 14 luglio 2018, che

– facendo riferimento al previgente quadro normativo – abbiano previsto una durata massima dei contratti a termine pari o superiore ai 36 mesi, le stesse, afferma il Ministero, mantengono la loro validità fino alla naturale scadenza dell’accordo collettivo.

Nessuna deroga, invece, è stata attribuita alla contrattazione collettiva in merito al nuovo regime delle condizioni.

Forma scritta del termine

Sulla forma scritta del termine, secondo il Ministero, con l’eliminazione del riferimento alla possibilità che il termine debba risultare direttamente o indirettamente da atto scritto, si è inteso offrire maggiore certezza in merito alla sussistenza di tale requisito.

Viene quindi esclusa la possibilità di desumere da elementi esterni al contratto la data di scadenza, ferma restando la possibilità che, in alcune situazioni, il termine del rapporto di lavoro continui a desumersi indirettamente in funzione della specifica motivazione che ha dato luogo all’assunzione, come in caso di sostituzione della lavoratrice in maternità di cui non è possibile conoscere ex ante l’esatta data di rientro al lavoro, sempre nel rispetto del termine massimo di 24 mesi.

In definitiva, per fare qualche esempio, non sarà più possibile legare il contratto a termine alla conclusione di una determinata commessa o fase di lavoro essendo sempre necessario inserire una data di scadenza del contratto di lavoro.

Contributo addizionale

Sul contributo addizionale a carico del datore di lavoro, anche secondo il Ministero la maggiorazione diventa incrementale, quindi il contributo addizionale a carico del datore di lavoro pari all’1,4% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali è incrementato dello 0,5% in occasione di ciascun rinnovo del contratto a tempo determinato, anche in somministrazione.

Ne consegue che al primo rinnovo la misura ordinaria dell’1,4% andrà incrementata dello 0,5%. In tal modo verrà determinata la nuova misura del contributo addizionale cui aggiungere nuovamente l’incremento dello 0,5% in caso di ulteriore rinnovo. Analogo criterio di calcolo dovrà essere utilizzato per eventuali rinnovi successivi, avuto riguardo all’ultimo valore base che si sarà venuto a determinare per effetto delle maggiorazioni applicate in occasione di precedenti rinnovi.

La maggiorazione dello 0,5% non si applica in caso di proroga del contratto, in quanto la disposizione prevede che il contributo addizionale sia aumentato solo in occasione del rinnovo.

Non si osa immaginare la difficoltà applicativa di tale norma, a parte i costi che appaiono davvero penalizzanti per le aziende. Si pensi a un contratto che viene rinnovato, rispettando i limiti di 24 mesi, per 10 volte: il contributo addizionale diventa progressivamente dell’1,9% dal secondo contratto per poi diventare del 2,4% dal terzo contratto e infine, tralasciando gli step intermedi, del 6,4% all’ultimo rinnovo (in totale sono 11 contratti a termine). Se si considera poi che i contratti possono essere stipulati in un arco di tempo pressoché illimitato (unico limite è la morte del lavoratore) e che probabilmente si farà fatica a mantenere in archivio, sia pure elettronico, dati così vecchi, si comprenderà bene le difficoltà alle quali andranno incontro le aziende e chi per loro deve garantire la correttezza contributiva. E magari un errore nel calcolo del contributo addizionale potrà provocare anche il mancato rilascio del Durc con relativa perdita dei benefici contributivi. Tutto questo pare una vera assurdità non tanto per il costo, anche se oneroso, quanto per le complicazioni che tale maggiorazione può comportare sia in termini amministrativi che di potenziali rischi sanzionatori.

Somministrazione di lavoro

In materia di somministrazione di lavoro, il decreto ha esteso la disciplina del lavoro a termine alla somministrazione di lavoro a termine con la sola eccezione delle previsioni contenute agli artt. 21, co. 2 (pause tra un contratto e il successivo, c.d. stop and go), 23 (limiti quantitativi al numero dei contratti a tempo determinato che può stipulare ogni datore di lavoro) e 24 (diritto di precedenza). Il Ministero tuttavia precisa, e questa è una interpretazione abbastanza audace – ma che fa estremamente piacere – sperando che non venga smentita giudizialmente, che nessuna limitazione è stata introdotta per l’invio in missione di lavoratori assunti a tempo indeterminato dal somministratore. Pertanto in questo caso tali lavoratori possono essere inviati in missione sia a tempo indeterminato che a termine presso gli utilizzatori senza obbligo di causale o limiti di durata, rispettando i limiti percentuali stabiliti dalla medesima disposizione. Quindi, secondo questa interpretazione, un’azienda può assumere con contratto di somministrazione a termine per una durata di 40 mesi e senza dover prevedere alcuna causale superando abbondantemente i limiti di durata previsti dalla legge. L’unica condizione è che si tratti di un lavoratore assunto a tempo indeterminato dal somministratore. Qualche dubbio però rimane. Che il datore di lavoro potesse ricorrere allo staff leasing non avevamo dubbi, però si trattava (e si tratta) di un contratto a tempo indeterminato tra utilizzatore e somministratore (anche se le parti potevano risolvere il contratto mediante preavviso). Ora addirittura, secondo il Ministero, si può far ricorso alla somministrazione a termine a prescindere da qualsiasi condizione sia di motivazione che di tempo; basta che il lavoratore sia assunto a tempo indeterminato dall’agenzia. Se così fosse sarebbe un vero regalo alle società di somministrazione che, in realtà, sono state le più penalizzate dal Decreto Dignità (vedi, ad esempio, l’applicabilità del limite massimo di durata di 24 mesi per le assunzioni a termine presso la stessa agenzia di cui si dirà in prosieguo).

A questo punto, se non ci fossero problemi di costi, relativi alla fee da riconoscere alle società di somministrazione, verrebbe da dire che per i contratti a termine non esiste più alcun problema. Perché l’azienda dovrebbe stipulare contratti direttamente con i lavoratori infilandosi nel ginepraio dei rinnovi, proroghe, prolungamenti e causali? Basterebbe sempre rivolgersi alle società di somministrazione che somministrano loro personale assunto a tempo indeterminato.

Periodo di massima occupazione

Per il periodo massimo di occupazione occorre considerare che per effetto della riforma è adesso applicabile anche alla somministrazione di lavoro a tempo determinato.

Ne consegue che il rispetto del limite massimo di 24 mesi ovvero quello diverso fissato dalla contrattazione collettiva entro cui è possibile fare ricorso ad uno o più contratti a termine o di somministrazione a termine, deve essere valutato con riferimento non solo al rapporto di lavoro che il lavoratore ha avuto con il somministratore, ma anche ai rapporti con il singolo utilizzatore, dovendosi a tal fine considerare sia i periodi svolti con contratto a termine, sia quelli in cui sia stato impiegato in missione con contratto di somministrazione a termine, per lo svolgimento di mansioni dello stesso livello e categoria legale.

Pertanto, il suddetto limite temporale di 24 mesi opera tanto in caso di ricorso a contratti a tempo determinato quanto nell’ipotesi di utilizzo mediante contratti di somministrazione a termine. Ne consegue che, raggiunto tale limite, il datore di lavoro (utilizzatore) non potrà più ricorrere alla somministrazione di lavoro a tempo determinato con lo stesso lavoratore per svolgere mansioni di pari livello e della medesima categoria legale.

Inoltre, si chiarisce che il computo dei 24 mesi di lavoro deve tenere conto di tutti i rapporti di lavoro a termine a scopo di somministrazione intercorsi tra le parti, ivi compresi quelli antecedenti alla data di entrata in vigore della riforma.

Le condizioni della somministrazione a termine

Le novità introdotte dal decreto riguardano anche le condizioni che giustificano il ricorso alla somministrazione a termine in caso dei contratti di durata superiore a 12 mesi e dei relativi rinnovi. In proposito, occorre considerare che le condizioni introdotte (motivazioni) si applicano esclusivamente con riferimento all’utilizzatore. Pertanto, in caso di durata della somministrazione a termine per un periodo superiore a 12 mesi presso lo stesso utilizzatore, o di rinnovo della missione (anche in tal caso presso lo stesso utilizzatore), il contratto di lavoro stipulato dal somministratore con il lavoratore dovrà indicare una motivazione riferita alle esigenze dell’utilizzatore medesimo. A questo proposito il Ministero precisa che, invece, non sono cumulabili a tale fine i periodi svolti presso diversi utilizzatori, fermo restando il limite massimo di durata di 24 mesi del rapporto (o la diversa soglia individuata dalla contrattazione collettiva) con la stessa agenzia di somministrazione.

In proposito, si evidenzia che l’obbligo di specificare le motivazioni del ricorso alla somministrazione di lavoratori a termine sorge non solo quando i periodi siano riferiti al medesimo utilizzatore nello svolgimento di una missione di durata superiore a 12 mesi, ma anche qualora lo stesso utilizzatore aveva instaurato un precedente contratto di lavoro a termine con il medesimo lavoratore per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria.

Pertanto, specifica il Ministero:

  • in caso di precedente rapporto di lavoro a termine di durata inferiore a 12 mesi, un eventuale periodo successivo di missione presso lo stesso soggetto richiede sempre l’indicazione delle motivazioni in quanto tale fattispecie è assimilabile ad un rinnovo;  ➛
  • in caso di precedente rapporto di lavoro a termine di durata pari a 12 mesi, è possibile svolgere per il restante periodo e tra i medesimi soggetti una missione in somministrazione a termine, specificando una delle condizioni previste dalla legge;
  • in caso di un periodo di missione in somministrazione a termine fino a 12 mesi, è possibile per l’utilizzatore assumere il medesimo lavoratore direttamente con un contratto a tempo determinato per una durata massima di 12 mesi indicando la relativa motivazione.

Limite all’utilizzo dei lavoratori somministrati a termine

Infine, la legge di conversione del decreto ha, per la prima volta, introdotto un limite all’utilizzo dei lavoratori somministrati a termine. Infatti, si prevede la necessità di rispettare una proporzione tra lavoratori stabili e a termine presenti in azienda, ancorché derogabile dalla contrattazione collettiva applicata dall’utilizzatore. Ferma restando la percentuale massima del 20% di contratti a termine, possono essere presenti nell’impresa utilizzatrice lavoratori assunti a tempo determinato e lavoratori inviati in missione per somministrazione a termine, entro la percentuale massima complessiva del 30% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l’utilizzatore.

Anche in questo caso resta ferma la facoltà per la contrattazione collettiva di individuare percentuali diverse, per tenere conto delle esigenze dei diversi settori produttivi. In tal senso si può ritenere che i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale mantengono la loro validità fino alla naturale scadenza del contratto collettivo, sia con riferimento ai limiti quantitativi eventualmente fissati per il ricorso al contratto a tempo determinato sia a quelli fissati per il ricorso alla somministrazione a termine.

Il limite percentuale del 30% trova applicazione per ogni nuova assunzione a termine o in somministrazione avvenuta a partire dal 12 agosto 2018. Pertanto, qualora presso l’utilizzatore sia presente una percentuale di lavoratori, a termine e somministrati a termine con contratti stipulati in data antecedente alla data del 12 agosto 2018, superiore a quello fissato dalla legge, i rapporti in corso potranno continuare fino alla loro iniziale scadenza. In tal caso, pertanto, non sarà possibile effettuare nuove assunzioni né proroghe per i rapporti in corso fino a quando il datore di lavoro o l’utilizzatore non rientri entro i nuovi limiti.

Continuano a rimanere esclusi dall’applicazione dei predetti limiti quantitativi i lavoratori somministrati a tempo determinato che rientrino nelle categorie richiamate all’art. 31, co. 2 del D.lgs. n. 81/2015 (quali, a puro titolo di esempio, disoccupati che fruiscono da almeno 6 mesi di trattamenti di disoccupazione non agricola o di ammortizzatori sociali, soggetti svantaggiati o molto svantaggiati).

[1] Articolo pubblicato sulla Rivista Guida al Lavoro, Il Sole 24 ore, n. 44, pagg. 12-19.

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Decreto dignità: un comma, un comma e mezzo che han cambiato la somministrazione di lavoro. Proviamo a capire come

di Andrea Morzenti – Curatore e autore di intornoallavoro.com

Una modifica a un solo periodo di un comma. E poi, un altro comma impazzito nella legge di conversione. Ecco, questa, in due frasi, in un tweet, la somministrazione di lavoro dopo il decreto cosiddetto dignità (decreto legge n. 87 del 2018 convertito con modificazioni dalla Legge n. 96 del 2018, che qui chiamerò DD).

Il DD è una norma complessa. Una norma che porta a diverse interpretazioni, anche ad opera dello stesso interprete, in base al percorso logico-giuridico che di volta in volta l’interprete intende seguire. Non c’è – ad oggi – una interpretazione univoca. E questo, indipendentemente dal giudizio nel merito che ognuno di noi naturalmente può avere, è il difetto principale del DD: la totale assenza di certezza.

Ma perché è una norma così complessa? A mio parere per due ordini di motivi. Innanzitutto, perché scritta male, anche in italiano (e il comma impazzito, vedremo poi, è l’esempio più evidente). Ma poi, soprattutto, perché il DD, che non vive di vita propria, si innesta in una norma del jobs act, il decreto legislativo n. 81 del 2015, che andava in direzione diametralmente opposta (limiti oggettivi: la causale che cedeva il passo a durate e a limiti percentuali), sostituendone singole parole qua e là, modificandone pochi commi e rispolverando e introducendone il comma 01, caratteristica –  credo – tutta italica di cui nessuno sentiva la mancanza.

E questo innesto così innaturale genera difficoltà interpretative di difficile soluzione. Ma una interpretazione va data. Allora proviamoci.

Tralasciando in questa sede la nuova disposizione in tema di limiti quantitativi (il 30% alla flessibilità di breve periodo, come tetto massimo all’utilizzo del contratto a termine – limitato a sua volta al 20% – cumulato alla somministrazione a termine) e la reintroduzione del reato di somministrazione fraudolenta (che il jobs act in un impeto abrogazionista aveva eliminato), come scrivo in apertura di questo articolo, le novità in tema di somministrazione di lavoro sono prevalentemente due. La prima è la riscrittura del (solo) primo periodo dell’art. 34, co. 2, del decreto legislativo n. 81/2015. La seconda è l’introduzione, con la legge di conversione, del comma 1-ter all’articolo 2 del testo originario del DD.

Ma andiamo con ordine.

La prima novità (art. 34, co. 2, primo periodo, decreto legislativo n. 81/2015) punta ad equiparare i contratti di lavoro a termine (a scopo di somministrazione) stipulati dalle agenzie per il lavoro, ai contratti a termine ordinari. Si tratta di una scelta consapevole e voluta, quella operata dal Governo Conte, e non un errore, come alcuni commentatori inizialmente avevano sostenuto.

Non c’è, infatti, nel DD, alcun intervento sul contratto commerciale di somministrazione. Le novità, le modifiche, sono tutte sul contratto di lavoro.

Le (impraticabili) causali di cui al nuovo art. 19, co. 1, del decreto legislativo n. 81/2015 e la durata massima di 24 mesi, quale limite alla successione di contratti a termine, di cui al successivo comma 2, sono applicabili, dal 14 luglio 2018, anche ai contratti di lavoro a termine delle agenzie.

Restano alcune esclusioni (il limite quantitativo del 20%, lo stop&go, il diritto di precedenza) e resta la diversa disciplina delle proroghe (il secondo periodo del comma 2 dell’art. 34 è rimasto, infatti, immutato e quindi sopravvive la disciplina delle proroghe contenuta nel CCNL delle agenzie) ma, considerando anche la soppressione dell’inciso “in quanto compatibili”, risulta palese la volontà di parificare contratti a termine diretti e contratti a termine a scopo di somministrazione.

Scelta questa, a mio parere, in contrasto con (e in violazione di?) le diverse direttive comunitarie di riferimento. Innanzitutto, perché la direttiva sul contratto a termine (Direttiva 1999/70/CE), che chiede sì agli Stati membri l’introduzione di una o più misure volte a limitare l’abuso derivante dalla successione di più contratti, non si applica al contratto a termine tramite agenzia. E, soprattutto, perché il lavoro tramite agenzia è normato da un’altra direttiva (Direttiva 2008/104/CE), che chiede agli Stati membri di eliminare o ridurre divieti e ostacoli al lavoro tramite agenzia, strumento volto a favorire occupazione e rioccupazione nel mercato del lavoro.

E veniamo alla seconda novità, al comma 1-ter, articolo 2 della legge di conversione del DD.

Io lo definisco il comma più oscuro di tutto il diritto del lavoro contemporaneo. Oltretutto, una sorta di scheggia impazzita che resta nella legge di conversione e non trova cittadinanza nel decreto legislativo n. 81/2015, situazione questa che potrebbe creare ulteriori problemi agli interpreti negli anni a venire.

L’oscuro comma dispone che le condizioni di cui all’art. 19, comma 1 (le causali), in caso di ricorso al contratto di somministrazione, si applicano esclusivamente all’utilizzatore.

Tanti sono stati, fin da subito, i dubbi e gli interrogativi derivanti da questa disposizione che, anche in italiano, risulta di difficile comprensione. Provo ad elencarli, dando la mia lettura, senza alcuna pretesa di esaustività.

Partiamo dal dato letterale. Qual è il significato da dare al termine “condizioni”? Sono solo le causali, cioè le esigenze (i. temporanee e oggettive, se estranee all’ordinaria attività; ii. di sostituzione di altri lavoratori; iii. connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, se riferite all’ordinaria attività) necessarie per contratti di durata – iniziale o prorogata – oltre i dodici mesi e per tutti i rinnovi, che l’utilizzatore deve applicare su sé stesso in caso di ricorso al contratto di somministrazione, o sono anche i presupposti che ne generano la necessità? Interrogativo non semplice ma fondamentale questo, da cui derivano poi diverse interpretazioni. È il percorso logico-giuridico dell’interprete, di cui parlo sopra.

A mio parere l’interpretazione più coerente è la seconda, quella cioè che restituisce una accezione più ampia al termine “condizioni”. L’oscuro comma, infatti, non dice semplicemente che le condizioni si riferiscono all’utilizzatore. Ma dice di una applicazione esclusiva (“si applicano esclusivamente”), spostando così tutte le disposizioni, in tema di causali, dal datore di lavoro formale (l’agenzia) al datore di lavoro sostanziale (l’utilizzatore).

Seguendo questo percorso logico-giuridico, che fa quindi prevalere il comma 1-ter, art. 2, legge di conversione del DD (norma speciale) sull’art. 34, co. 2, primo periodo, del decreto legislativo n. 81/2015 (norma generale) si giunge ad una serie di conclusioni che, capite, sarebbero di segno opposto qualora si seguisse il percorso logico-giuridico inverso.

La prima conclusione a cui si giunge abbastanza agevolmente riguarda il caso di una riassunzione con contratto a termine di durata sino a dodici mesi (stessa agenzia, stesso lavoratore) ma con somministrazione del lavoratore a favore di un diverso utilizzatore. In questo caso, pur trattandosi di un rinnovo, la causale non è richiesta visto che, per il secondo utilizzatore, si tratterebbe della prima applicazione su sé stesso del regime causale (salvo il caso in cui il lavoratore abbia già prestato attività lavorativa a termine – diretto o in somministrazione – a suo favore, come dirò dopo).

La seconda conclusione riguarda un tema oggi ancora molto controverso e dibattuto in dottrina e tra gli addetti ai lavori. Mi riferisco al caso dello stesso lavoratore, prima somministrato e poi assunto direttamente a termine dallo stesso datore/utilizzatore, e al caso inverso (prima assunto e poi somministrato).

Partiamo dal secondo caso. Ci si chiede cioè se sia possibile, per una agenzia, assumere a termine senza causale un lavoratore già assunto a termine in precedenza dallo stesso datore/utilizzatore. La risposta è negativa sulla base di due presupposti. Il primo deriva dalla applicazione del percorso logico-giuridico che sto seguendo. Ricorrendo al contratto di somministrazione, infatti, l’utilizzatore deve applicare su sé stesso il regime causale introdotto dal DD e, quindi, nei suoi confronti, siamo in presenza di un rinnovo sostanziale, con obbligo, appunto, di causale. Il secondo presupposto poggia sul concetto di frode alla legge. L’utilizzatore infatti “passerebbe” il lavoratore all’agenzia per eludere il proprio obbligo di causale, con il rischio ulteriore – aggiungo – che si configuri il reato di somministrazione fraudolenta (reato, come detto, reintrodotto dal DD).

E il caso inverso? Il contratto a termine con uno stesso lavoratore prima somministrato e poi assunto a termine necessita o meno di causale? In questo caso, una dottrina autorevole (primo fra tutti il Prof. Avv. Arturo Maresca) sostiene che il “passaggio” sia ammesso senza necessità di causale. Io, nel far mia questa conclusione, ne contesto però il presupposto da cui parte e provo a fornirne un altro.

Il presupposto infatti sarebbe quello di una sorta di avvicinamento all’azienda da parte del lavoratore, prima somministrato poi assunto, prima utilizzato in forza di un contratto commerciale poi in forza di un contratto di lavoro. Sembra quasi che il contratto di lavoro a scopo di somministrazione sia un contratto di serie B. Ecco, questo presupposto io contesto, non mi convince. Le assunzioni delle agenzie – anche se è vero che un obiettivo delle norme è favorire l’ingresso in azienda – sono assunzioni che devono essere poste sullo stesso piano giuridico, che hanno la stessa dignità (ops, mi ero ripromesso di non scrivere questa parola, ma qui ci sta), delle assunzioni a termine ordinarie.

Però, come detto, la conclusione mi convince, ma sulla base di un altro presupposto, che deriva dal contenuto dell’oscuro comma. Il quale prevede, per identificare il regime causale, non un cumulo, non una commistione, tra somministrazione e termine. Ma, e qui ci viene in soccorso la lettera della norma, dice di una applicazione delle causali esclusiva sull’utilizzatore “in caso di ricorso al contratto di somministrazione”. E nel ricorrere, per la prima volta al contratto di somministrazione, escluso innanzitutto ogni rischio di somministrazione fraudolenta, la causale (fino a dodici mesi ovviamente) non va apposta. Quando poi, l’assunzione è diretta, l’oscuro comma non rileva, non si applica, non entra in gioco, perché – in quel momento – non vi è alcun ricorso al contratto di somministrazione. E quindi l’assunzione a termine diventa una prima assunzione, senza obbligo di causale. Alcuni commentatori potranno eccepire di un contratto a termine in frode alla legge che io, però, non vedo.

Questa interpretazione si consoliderà? Ovviamente è presto per dirlo. Quello che è certo è che potrebbe diventare una strada (forse l’unica) per rapporti a termine di ventiquattro mesi, senza causale. Valutando così, con maggior serenità, la stabilizzazione o meno del lavoratore. Le aziende, in altre parole, potrebbero ragionare sull’anticipare i propri contratti a termine con un contratto di somministrazione, che diverrebbe così – sempre di più – il vero canale di ingresso nel mercato del lavoro. E così, qui, possiamo dire, il presupposto del prof. Maresca e il mio trovano una sintesi di sistema e giuridica.

Terza, e ultima, conclusione a cui provo a giungere seguendo il mio percorso logico-giuridico. Ed è sul possibile contenzioso.

Come scritto prima, la causale non è una condizione di legittimità del contratto commerciale di somministrazione (le agenzie, con ogni probabilità, chiederanno sia apposta anche su questo contratto ma con una funzione di comunicazione da parte dell’utilizzatore), ma è sempre, anche per le assunzioni delle agenzie, una condizione, quando richiesta, che legittima l’apposizione del termine al contratto di lavoro. Le agenzie, a seguito dell’oscuro comma, legittimeranno così le proprie assunzioni a termine (ripeto, non le somministrazioni) con un’esigenza che non è loro, ma che è di un soggetto terzo (l’utilizzatore). E già qui, ci sarebbe molto da dire.

Ma, ancora di più, c’è (e ahimè ci sarà) da dire in caso di contenzioso. Le norme del DD, in caso di assenza/genericità/non comprovabilità della causale, prevedono la trasformazione del contratto (non del rapporto) a tempo indeterminato. Trasformazione, non costituzione del rapporto in capo all’utilizzatore come nei casi di somministrazione irregolare. La mancanza, la irregolarità, è infatti sul contratto di lavoro (tra agenzia e lavoratore), non sul contratto commerciale (tra agenzie e utilizzatore). Ma come potrà l’agenzia difendersi in giudizio se l’esigenza, la causale, non si applica sulla propria organizzazione ma su quella dell’utilizzatore? Siamo in presenza di una possibile incostituzionalità della norma per violazione del diritto di difesa? Oppure, seguendo il percorso logico-giuridico che ho provato a seguire fin qua (applicazione esclusiva sull’utilizzatore del regime causale), la trasformazione a tempo indeterminato, con una forzatura della lettera della norma, sarà del rapporto (sostanziale) di lavoro, e non del contratto (formale) di lavoro? E quindi sull’utilizzatore e non sull’agenzia?

Tutte domande, queste ultime, ad oggi ovviamente senza risposta. Sarà la giurisprudenza a dirci. Una conclusione, ahimè, pare ovvia: il lavoratore, per non sapere né leggere né scrivere, impugnerà nei confronti sia dell’agenzia che dell’utilizzatore. E il contenzioso tornerà purtroppo a farla da padrone nei contratti a termine e nei contratti di somministrazione di lavoro.

Si potrebbe concludere, in estrema sintesi, che è tutto a posto e niente in ordine. Norma complessa, tante letture ed interpretazioni possibili, causali impraticabili che si aggiungono ai (e neppure sostituiscono i) limiti oggettivi in precedenza previsti dal jobs act. E una somministrazione di lavoro che il DD consegna alle conseguenze interpretative di due commi, anzi di un mezzo comma e di un comma intero.

Voglio però concludere in un altro modo, con un grado di certezza in più. Perché le agenzie per il lavoro possono assumere, e assumono, anche a tempo indeterminato. E, a parte l’applicabilità assurda del nuovo limite quantitativo del 30%, occorre ricordare che le novità del DD non sono applicabili alla somministrazione quando l’agenzia assume il lavoratore con un contratto di lavoro a tempo indeterminato. E questo sia nel caso di somministrazione con un contratto (commerciale) a tempo indeterminato (nulla quaestio), sia nel caso di somministrazione con contratto (commerciale) a termine.

E si giunge a questa, a mio parere ovvia, conclusione perché, come detto, il DD modifica l’assunzione a termine (anche) delle agenzie e non, invece, la somministrazione. Con la fondamentale e importante conseguenza che la causale non è mai un tema in caso di somministrazione, tanto a tempo indeterminato quanto a termine, se eseguita dall’agenzia con un lavoratore assunto a tempo indeterminato. Ed è anche su questo aspetto, che agenzie e aziende sono chiamate a riflettere per ridisegnare la flessibilità di medio e lungo periodo dopo l’entrata in vigore a regime del DD.

 

 

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Alcuni rimedi ai difetti del decreto dignita’

di Armando Tursi, Ordinario di diritto del lavoro nell’Università degli Studi di Milano, Avvocato

  1. Il c.d. “Decreto Dignità” (D.L. n. 87/2018, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 96/2018) non rivoluziona l’assetto normativo dei rapporti di lavoro, che anzi, al di là della polemica politica, resta confermato nelle sue linee strategiche: a) conferma della nuova centralità della “flessibilità funzionale” (controlli, mansioni) rispetto a quella “tipologica” o “in entrata” (tipologie contrattuali); b) marginalizzazione della “tutela reale” nei licenziamenti illegittimi.

La novità sta nella direzione di marcia che il decreto sembra avere imboccato rispetto all’idea che alla precarietà patologica del lavoro possa contrapporsi una flessibilità fisiologica o virtuosa; nonché nell’avere individuato la zona critica di tale coincidenza tra flessibilità e precarietà, nel lavoro a termine, diretto o somministrato che sia.

*

  1. In tema di lavoro (diretto) a tempo determinato, il decreto innesta una brusca retromarcia: back to 1962 e oltre, potrebbe dirsi.

Si torna, infatti, alla necessità della giustificazione dell’apposizione del termine, con elencazione tassativa di casi: con la differenza, però, che i casi non sono più 5 e ben definiti (come nel 1962), ma 3, e non altrettanto ben definiti.

Al ritorno della causale si aggiunge la durata massima di 24 mesi, che, mentre segna un inasprimento rispetto ai 36 mesi del Jobs Act, registra anche il ricorso cumulativo a tecniche di tutela che rispondono a logiche diverse: la tecnica della limitazione “causale”, coerente con la logica secondo cui la durata determinata sarebbe di per sé indesiderabile; e la tecnica della limitazione “temporale”, coerente con la logica secondo cui vanno evitati i rapporti a termine reiteratamente prorogati e rinnovati.

Ne scaturisce una sovra-attuazione della direttiva 1999/1970: mentre quest’ultima non contempla alcuna limitazione per il primo contratto a termine, e si propone solo di evitare gli “abusi” derivanti dalla reiterazione illimitata di contratti a termine, il “decreto dignità” pone un limite causale e un tetto massimo di durata che, salvi i primi 12 mesi di “a-causalità”, vale sia per il primo contratto che per le successive proroghe e rinnovi; questi limiti, a loro volta, si cumulano con la (inasprita) fissazione di un numero massimo di proroghe, con il c.d. “stop & go” tra contratti successivi, e con il c.d. “contingentamento” numerico dei rapporti a termine.

Questa disciplina neo-vincolistica solleva problemi interpretativi sotto diversi profili: se ne analizzano di seguito i più importanti, dedicandosi particolare attenzione a quelli derivanti dall’impatto della legge n. 96/2018 sulla contrattazione collettiva.

3.1. Il primo tema che si pone è quello della derogabilità delle causali legali da parte della contrattazione collettiva: ci si chiede se la contrattazione  possa quanto meno specificare meglio le causali per superarne le ambiguità.

3.1.1. Orbene, quanto alle “esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività”, si tratta di una causale specifica, suscettibile di esemplificazioni, ma non di deroga, specie sul punto della “straordinarietà” dell’esigenza aziendale: una specificazione contrattuale che contrastasse con tale requisito, sarebbe nulla.

Però sarebbe ammissibile, e anzi auspicabile, un intervento chiarificatore ed esemplificatore della contrattazione collettiva (specie aziendale), mirante a calare il concetto di “straordinarietà” nel contesto aziendale: per es., in caso di avvio di una nuova attività (peraltro già contemplato dall’art. 23, co. 2, lett. a) del D.lgs. n. 81/2015, ma al diverso fine di escludere i relativi contratti a termine dal contingentamento legale), il contratto aziendale potrebbe precisare che, trattandosi di attività mai svolta in precedenza, o svolta in maniera del tutto contingente, o molto tempo prima e poi cessata, la nuova attività debba considerarsi estranea all’attività ordinaria.

Non sarebbe invece ammissibile escludere contrattualmente la necessità della causale per le imprese start-up (si tratta di nuova impresa, non di nuova attività di impresa preesistente), per gli specifici spettacoli, e per tutte le causali “soggettive”, quali quelle basate su status soggettivo-occupazionali dei lavoratori.

3.1.2. Quanto alla “sostituzione di altri lavoratori”: si tratta di causale equivalente alle vecchie “esigenze sostitutive”, formulata in maniera tale da includere le assenze senza diritto alla conservazione del posto (es.: ferie), e quindi più ampia della stessa previsione del 1962. Qui il contratto potrebbe svolgere un ruolo rafforzativo di quanto già implicito nella norma (per es., precisando che le esigenze sostitutive possono riguardare anche la sostituzione di lavoratori in ferie, in permesso retribuito e non, in riposo compensativo, ecc..).

3.1.3. Quanto, infine, agli “incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria”: qui alla “ordinarietà” si aggiungono – oltre alla “temporaneità” – la significatività e la non programmabilità.

La “non programmabilità” lascia pochi spazi, e soprattutto, spazi contestabili dalla giurisprudenza; anche se non sono da escludersi previsioni specificative per casi particolari (es.: nuova commessa all’estero per un’impresa che in precedenza non aveva mai operato all’estero. Ma qui siamo al confine con la “nuova attività”, di cui si è già detto).

Più spazi per la contrattazione collettiva lascia il requisito della significatività: previsioni di tipo quantitativo (es.: % sul fatturato) sono, per un verso, assai auspicabili in chiave di certezza del diritto, e per l’altro, difficilmente contestabili dal giudice, ove non siano palesemente irragionevoli.

3.1.4. Particolarmente ingarbugliato è il tema dei c.dd. “contratti stagionali”.

Di per sé, le punte stagionali non programmabili – che, è bene ricordare, furono introdotte sul finire degli anni ’70 al fine di rendere possibili le assunzioni a termine necessitate da esigenze non riconducibili alla casistica dell’art. 1, co. 2, della legge n. 230/1962 – , non sono ammesse come cause giustificative dal decreto dignità.

Vero è che l’art. 21, co. 01, 4° periodo, del D.lgs. n. 81/2015, come novellato dal decreto dignità, prevede che i contratti a termine per attività stagionali siano rinnovabili e prorogabili anche in assenza di causale. Tuttavia tale possibilità – che si aggiunge a quella della rinnovabilità senza limite temporale e senza il rispetto del c.d. “stop & go” (art. 19, co. 2, e art. 21, co. 2, del novellato D.lgs. n. 81/2015) – , è  circoscritta alle proroghe e ai rinnovi, con esclusione – almeno letterale – del primo contratto.

Più che tramite contratto, il punto andrebbe chiarito in sede legislativa, o mediante circolare ministeriale, la cui tenuta giudiziaria sarebbe comunque non sicura.

La contrattazione potrebbe, tuttavia, prendere atto del problema, e prevedere una soluzione alternativa, quale quella di ammettere esplicitamente la possibilità di stipulare un primo contratto (di fatto “stagionale”, ma giuridicamente) “a-causale”, di durata non superiore all’anno, e poi rinnovarlo stagionalmente, secondo quanto previsto dai menzionati articoli 21, co. 01., 4° per., 19, co. 2., e 21, co. 2., del novellato D.lgs. n. 81/2015.

Deve poi ammettersi che la contrattazione collettiva possa ampliare il novero delle attività stagionali, senza essere vincolata alla “non programmabilità”: l’art. 21, co. 2, del D.lgs. n. 81/2015, infatti, devolve pienamente alla contrattazione collettiva la definizione della nozione di “attività stagionale”.

Ma si ripete: la stagionalità, come definita dal contratto collettivo,rileva solo al fine di escludere la necessità della causale per i rinnovi dei contratti a termine  e per le proroghe eccedenti il 12° mese (come pure il limite di durata massima di 24 mesi, e il c.d. “stop & go”); ma non vale al fine di escludere da detti vincoli il primo contratto “stagionale”.

Insomma, la “stagionalità” sembra essere un elemento che rende possibili le proroghe e i rinnovi a-causali di contratti causali, ma non la stipula di contratti a termine che siano ab initio a-causali (ossia, “stagionali” per la contrattazione collettiva, ma senza che ricorrano i rigidi requisiti di cui all’art. 19, co. 1, del D.lgs. n. 81/2015).

3.2. Ci si chiede, poi, se gli accordi collettivi esistenti, che prevedano durate maggiori di 24 mesi, siano compatibili con le nuove regole, e conservino comunque piena efficacia, pur a fronte della nuova disciplina legislativa che impone la causalità oltre il 12° mese di durata.

A tale proposito, si registra un dibattito dottrinale.

Ci si potrebbe appellare alla clausola di inscindibilità per teorizzare la prevalenza dei contratti collettivi in corso sulla legge difforme. Ma a nostro avviso si tratterebbe di un equivoco: l’efficacia della norma inderogabile gioca allo stesso modo per i contratti individuali e per quelli collettivi, ed è retta dal principio del confronto clausola per clausola, imposto dagli artt. 1418 e 1419 c.c.. L’inscindibilità delle clausole del contratto collettivo vale nel rapporto tra contratto collettivo e contratto individuale (art. 2077 c.c.), non nel rapporto tra legge e contratto collettivo.

Del resto, spinta alle estreme conseguenze, la teoria dell’inscindibilità delle clausole collettive porterebbe a porre nel nulla l’intero contratto collettivo, non certo a sancirne la prevalenza sulle difformi norme legali inderogabili.

Dunque, in assenza di una norma transitoria (analoga, per es., a quella recata dall’art. 11 del D.lgs. n. 368/2001), gli accordi collettivi esistenti che prevedono durate maggiori di 24 mesi cessano di produrre effetti, in parte qua, dalla data di entrata in vigore del decreto dignità.

E’ necessario, però, un importante chiarimento: la sopravvenuta inapplicabilità dei contratti collettivi che prevedano durate dei contratti a termine superiori ai 24 mesi comporta solo che siano nulli, in parte qua, i nuovi contratti individuali a tempo determinato che, in coerenza coi predetti contratti collettivi, prevedano una durata eccedente i 24 mesi; non comporta, però, la nullità dei contratti individuali a suo tempo (ossia, prima del decreto dignità) stipulati in attuazione di quei medesimi contratti collettivi.

Sono, invece, ancora oggi ammissibili gli accordi collettivi che derogano al nuovo limite di 24 mesi in sede di rinnovo: infatti, l’art. 19, co. 2, D.lgs. n. 81/2015, continua a prevedere che, in caso di rinnovo, siano salve le “diverse previsioni dei contratti collettivi”; e non può dubitarsi che detta salvezza valga anche per i contratti collettivi previgenti.

*

4.1. In tema di lavoro somministrato, il decreto dignità manifesta un difetto di mancata comprensione tecnica dell’istituto, il cui baricentro non sta tanto nella temporaneità, ma nella scissione tra datore di lavoro e utilizzatore.

Ciò si comprende bene ove si consideri l’approccio della direttiva 2009/104, incentrata sulla parità di trattamento e sulla non discriminazione, e non sulla “precarietà” temporale, reale o presunta, del rapporto.

La predetta direttiva si autodefinisce come volta a garantire la tutela dei lavoratori tramite agenzia interinale e migliorare la qualità del lavoro tramite agenzia interinale garantendo il rispetto del principio della parità di trattamento di cui all’articolo 5 nei confronti dei lavoratori tramite agenzia interinale e riconoscendo tali agenzie quali datori di lavoro, tenendo conto nel contempo della necessità di inquadrare adeguatamente il ricorso al lavoro tramite agenzia interinale al fine di contribuire efficacemente alla creazione di posti di lavoro e allo sviluppo di forme di lavoro flessibili”.

Da questo equivoco deriva la scorretta assimilazione del lavoro somministrato a tempo determinato, al lavoro a tempo determinato tout court (“diretto”).

E di qui, “a cascata”, la confusione tra giustificazione della somministrazione e giustificazione della temporaneità: che cos’è che, nel lavoro in somministrazione, dev’essere giustificato, il contratto di lavoro a termine o il contratto commerciale di somministrazione a termine ?

A queste domande, i legislatori passati hanno dato diverse risposte, che è utile ricordare:

– per la “legge Biagi” (D.lgs. n. 276/2003), “causale” era il contratto commerciale, la cui temporaneità si rifletteva nel contratto di lavoro (reso legittimo dal contratto commerciale “a monte”);

– per il “Jobs Act”, nessuno dei due, perché si è scelto di non richiedere alcuna giustificazione né per la somministrazione in sé (la scissione tra datore di lavoro e soggetto utilizzatore), né per il lavoro a termine in sé;

– adesso, per il “decreto dignità”, causale dev’essere solo il contratto di lavoro somministrato a tempo determinato, in quanto a tempo determinato, e non in quanto somministrato; donde la necessità che esso sia giustificato esattamente come se fosse un contratto a tempo determinato “diretto”.

4.2. Di qui, ancora, una serie di questioni aperte che non tarderanno a riversarsi nelle aule giudiziarie. La prima di tali questioni è quale sia il contratto da giustificare – se quello di lavoro somministrato a tempo determinato o quello commerciale di somministrazione di lavoro a tempo determinato – , e quale nesso vi sia tra i due contratti.

4.2.1. Come chiarito dall’art. 2, co. 1 ter, della legge n. 87/2018, la giustificazione attiene alle esigenze dell’utilizzatore; è certo, tuttavia, che essa costituisce requisito di validità del contratto di lavoro somministrato e non del contratto commerciale di somministrazione di lavoro. Se ne desume che la causale non vada indicata nel contratto commerciale di somministrazione a tempo determinato, ma nel contratto di lavoro somministrato a tempo determinato stipulato tra agenzia e lavoratore somministrato.

Ci si chiede, allora, se e in quale contratto detta causale vada indicata, nel caso in cui il contratto di somministrazione di lavoro sia a tempo determinato, ma i lavoratori da somministrare vengano assunti dall’agenzia a tempo indeterminato: se, insomma, per dare esecuzione a un contratto commerciale di somministrazione a tempo determinato, l’agenzia di somministrazione possa utilizzare contratti di lavoro somministrato a tempo indeterminato, sfuggendo così ai vincoli del “decreto dignità”.

E la risposta ci pare debba essere positiva, per due ordini di ragioni:

1) il contratto commerciale di somministrazione (continua a) non richiede(re) alcuna causa giustificativa, mentre tra utilizzatore e lavoratore somministrato non esiste alcun contratto da giustificare;

2) l’art. 31, co. 1, ult. per., del novellato D.lgs. n. 81/2015 stabilisce che ”Possono essere somministrati a tempo indeterminato esclusivamente i lavoratori assunti dal somministratore a tempo indeterminato”, ma non esclude che ad un contratto di somministrazione a termine possa darsi esecuzione somministrando lavoratori assunti a tempo indeterminato.

Semmai, si potrebbe osservare che una via più piana e sicura per sottrarsi ai “vincoli” del “decreto dignità” sia quella della pura e semplice stipulazione di un contratto di somministrazione a tempo indeterminato, dal quale l’impresa utilizzatrice possa recedere in qualunque momento con preavviso (o senza preavviso, se così concordato tra le parti), e senza pagamento di alcuna penale.

4.2.2. Ma v’è di più: c’è addirittura da chiedersi a chi si applichi la sanzione per somministrazione irregolare (ossia, la costituzione giudiziale di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con l’utilizzatore) in caso di difetto della giustificazione, posto che la giustificazione riguarda il contratto di lavoro somministrato, e dunque la sua carenza non dovrebbe potersi ripercuotere sull’utilizzatore, che a detto contratto è estraneo.

Più in generale, deve osservarsi che l’art. 38, co. 2, del D.lgs. n. 81/2015, prevede la costituzione del rapporto con l’utilizzatore per una serie di casi di c.d. somministrazione irregolare (violazione della soglia di “contingentamento”, dei divieti di somministrazione, della forma scritta del contratto commerciale di somministrazione) che non riguardano né la causalità, né la durata massima, né i limiti a rinnovi e proroghe; e dunque non si vede perché la violazione della causale, della durata massima e delle regole in materia di rinnovi e proroghe debba comportare l’applicazione della sanzione propria della somministrazione irregolare, e non, invece, la trasformazione in contratto a tempo indeterminato alle dipendenze dell’agenzia di somministrazione.

4.2.3. Resta, poi, sostanzialmente nebulosa la figura della “somministrazione fraudolenta”, la quale, abrogata dal Jobs Act per la sua inafferrabilità concettuale, viene adesso riproposta, con conseguente riattualizzazione delle suddette difficoltà definitorie; anche se, a ben vedere, in linea con la politica di valorizzazione della discrezionalità del giudice, perseguita dal legislatore e, recentissimamente, dalla stessa Corte Costituzionale (in tema di indennità per licenziamento illegittimo del c.d. ”contratto a tutele crescenti”).

Ci si potrebbe chiedere se sia “fraudolenta” la somministrazione di uno o più lavoratori presso un utilizzatore, seguita dalla loro sostituzione allo scadere dei 12 mesi.

Orbene, a noi sembra che impedire (considerandola “fraudolenta”) la “rotazione” dei lavoratori somministrati a tempo indeterminato su più posizioni lavorative, facenti capo a diverse imprese utilizzatrici, sarebbe in contraddizione con la stessa ratio dell’istituto, che è quella di massimizzare le occasioni d’impiego dei lavoratori somministrati a tempo indeterminato; mentre, come s’è chiarito, la “temporaneità” del contratto commerciale di somministrazione di lavoro non richiede e non postula alcuna giustificazione causale, ma si riduce al mero fatto della predeterminazione del termine di scadenza del contratto medesimo.

Semmai, potrebbe dubitarsi della legittimità (o “fraudolenza”) della reiterata assegnazione ad un medesimo utilizzatore, del medesimo lavoratore somministrato assunto a tempo indeterminato dall’agenzia. In effetti, nell’esperienza comparata, la prospettiva di maggiore interesse non è affatto (come da noi) quella della “temporaneità” del lavoro, ma proprio quella della possibile discriminazione ai danni dei lavoratori somministrati permanentemente ad una medesima azienda: come insegna il caso Microsoft/Vizcaino (United States Court of Appeals, Ninth Circuit, 24.7.1997), in cui i lavoratori “affittati” da una staffing firm alla Microsoft venivano esclusi dai benefits (soprattutto previdenziali) concessi dalla stessa Microsoft ai propri employees.

In Italia, peraltro, l’operare della regola della parità di trattamento tra somministrati e dipendenti dell’impresa utilizzatrice, e l’efficace azione della contrattazione collettiva di settore, attenua, anche se non elimina del tutto, il problema, che persiste soprattutto con riferimento alla contrattazione integrativa e agli ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro.

4.2.4. Vero è che il “decreto dignità” – forse inconsapevolmente, se si tiene mente all’iniziale intenzione del Governo di abolire lo staff leasingfinisce per riorientare decisamente l’asse regolativo e il calcolo delle convenienze economiche a favore dello staff leasing.

La somministrazione a tempo indeterminato, infatti, oltre a non richiedere alcuna causale, ad essere priva di limiti temporali, nonché soggetta a soglie di contingentamento più basse:

– si presta ad essere utilizzata anche per soddisfare esigenze temporanee dell’utilizzatore (laddove la somministrazione a termine non può essere utilizzata per soddisfare esigenze stabili);

– si rivela sostanzialmente immune da rischi di riqualificazione del rapporto (anche in comparazione con l’appalto di servizi labour intensive);

– offre al lavoratore la garanzia di un rapporto a tempo indeterminato con sostanziale parità di trattamento;

– offre un quadro normativo, interpretativo e applicativo assai più semplice e stabile.

4.2.5. Tuttavia, l’equivoco di fondo in cui è caduto il legislatore in tema di lavoro somministrato ha provocato, accanto ad apparenti “buchi neri”, anche alcuni “buchi nell’acqua”: come nel caso della disciplina delle proroghe, la quale, nonostante l’integrale riconduzione della somministrazione a termine alla disciplina del lavoro (diretto) a tempo determinato, sancita dal novellato 1° periodo del 2° comma dell’art. 34 del D.lgs. n. 81/2015 (“In caso di assunzione a tempo determinato il rapporto di lavoro tra somministratore e lavoratore è soggetto alla disciplina di cui al capo III, con esclusione delle disposizioni di cui agli articoli 21, comma 2, 23 e 24”), resta invece affidata altrettanto integralmente alle determinazioni della contrattazione collettiva (in atto e futura). Infatti, il “decreto dignità” non ha abrogato il 2° periodo del predetto 2° comma dell’art. 34 del D.lgs. n. 81/2015, il quale continua a prevedere che “il termine inizialmente posto al contratto di lavoro può in ogni caso essere prorogato … nei casi e per la durata previsti dal contratto collettivo applicato dal somministratore”: sicché, su causali e durata delle proroghe dei contratti di lavoro somministrato a tempo determinato la contrattazione collettiva resta sovrana.

4.2.6. Altro esempio di “buco nell’acqua” è la persistente possibilità di cumulare 12 mesi di contratto a termine a-causale, con 12 mesi di contratto di lavoro somministrato a termine a-causale: ciò dovrebbe essere possibile perché, per un verso, non si supera il limite di 24 mesi, e per l’altro, non è superato nemmeno il limite dei  12 mesi, posto che esso opera, in una prima fase, con riferimento all’agenzia, e in una seconda fase, con riferimento all’utilizzatore.

 

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