D.L. 48/23: il welfare squilibrato colpisce ancora
di Andrea Asnaghi – Consulente del lavoro in Paderno Dugnano (Mi)
Fra le misure di sicuro interesse e di applicazione immediata (salvo quanto più avanti) spicca quella contenuta nell’articolo 40 del D.L. 48/2023, di cui è utile riportare il testo per intero. Quello che vogliamo dimostrare, lo anticipiamo da subito, è che la misura appare ingiusta, squilibrata, malpensata e dimostra anche una certa distanza da una buona tecnica espositiva e da un approccio sistematico. Insomma, per parafrasare il titolo di un vecchio spettacolo teatrale, “una norma tutta sbagliata”.
Per non perderci nulla, e farvi apprezzare la criticità in ogni passaggio, riporteremo il testo per intero.
Art. 40 Misure fiscali per il welfare aziendale
1. Limitatamente al periodo d’imposta 2023, in deroga a quanto previsto dall’articolo 51, comma 3, prima parte del terzo periodo, del Testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, non concorrono a formare il reddito, entro il limite complessivo di euro 3.000, il valore dei beni ceduti e dei servizi prestati ai lavoratori dipendenti con figli, compresi i figli nati fuori del matrimonio riconosciuti, i figli adottivi o affidati, che si trovano nelle condizioni previste dall’articolo 12, comma 2, del citato testo unico delle imposte sui redditi, nonché le somme erogate o rimborsate ai medesimi lavoratori dai datori di lavoro per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale. I datori di lavoro provvedono all’attuazione del presente comma previa informativa alle rappresentanze sindacali unitarie laddove presenti.
2. Resta ferma l’applicazione dell’articolo 51, comma 3, del citato testo unico delle imposte sui redditi, in relazione ai beni ceduti e ai servizi prestati a favore dei lavoratori dipendenti per i quali non ricorrono le condizioni indicate nel comma 1.
3. Il limite di cui al comma 1 si applica se il lavoratore dipendente dichiara al datore di lavoro di avervi diritto indicando il codice fiscale dei figli.
Agli oneri derivanti dal presente articolo, valutati in 142,2 milioni di euro per l’anno 2023 e 12,4 milioni di euro per l’anno 2024, si provvede ai sensi dell’articolo 44.
Cominciamo dal titolo: eh no, caro legislatore, non stiamo per nulla parlando di welfare aziendale. Il welfare aziendale, infatti, come dice fra le righe la stessa Agenzia delle Entrate nelle sue circolari, è una serie di prestazioni messe a disposizione dall’azienda verso la totalità o categorie di lavoratori per incontrare i loro bisogni e migliorarne il benessere e la sicurezza sociale. Sono pertanto misure di natura collettiva, a cui impropriamente vengono apparentati una serie di benefit che con il bisogno e con la necessità di accrescere il benessere hanno poco a che fare. Altro connubio sbagliato è quello di accomunare il welfare con la pianificazione fiscale (come di fatto fa il titolo della norma): si confonde cioè il fine (il benessere del lavoratore) con il mezzo (l’agevolazione fiscale). Se si invertono le questioni, il benessere (l’utilità e la finalità della misura) passa in secondo piano, l’importante è l’effetto di risparmio fiscale, che però, come vedremo, costa a tutti noi (e comunque è un brutto modo di porre la questione). Le considerazioni di cui sopra sono tanto vere che l’art. 51, comma 3 del Tuir non riguarda propriamente iniziative di welfare (contenute nel comma 2, di cui è chiara la vocazione sociale) ma piuttosto l’erogazione di beni e servizi indifferenziati e generici per i quali è previsto un limite di esenzione fiscale e previdenziale. Trattasi in buona sostanza di una sorta di pseudo-franchigia riservata alla non considerazione fiscale del valore di omaggi o servizi marginali erogati al lavoratore, quasi una specie di zona franca per non questionare su gentilezze risibili ma ricorrenti nel rapporto di lavoro (la cena aziendale, il regalo a Natale etc.). Tant’è che più che di “welfare”, per quelle somme si parla più genericamente di “benefit”.
Ma andando alla sostanza della norma, questa agevolazione è prevista per i lavoratori dipendenti che siano genitori con figli a carico; non si sa, o forse si saprà solo all’ultimo, se saranno compresi oppure no anche i percettori di reddito assimilato, come co.co.co. o amministratori: la storia non insegna nulla, ci vuole sempre l’interpretazione invece che una scrittura normativa esaustiva.
E già qui i più attenti di voi noteranno un secondo scivolone terminologico: eh sì, perché non c’è proprio bisogno di alcuna specifica per i figli riconosciuti nati fuori dal matrimonio, i quali hanno smesso di essere “figli del peccato” da un pezzo, e precisamente dal 2012; con la legge n. 219 del 2012 e la successiva integrazione a cura del D.lgs. n. 154/2013 vi è la piena equiparazione giuridica di tali figli rispetto a quelli nati all’interno di un matrimonio. Pertanto dire “figli” è più che sufficiente, la specificazione è superflua e fuorviante; è un po’ come dire “legislatore”, è un termine che comprende tutti i legislatori, sia quelli sapienti (sempre più rari), sia quelli che le norme del proprio Paese non le conoscono bene (o non se le ricordano).
Ma poi, proseguiamo, la norma risulta abbastanza poco utile per lo scopo che si è posta (è nel capo IV del Decreto, rubricato come “Misure a sostegno dei lavoratori e per la riduzione della pressione fiscale”).
Innanzitutto, è bene precisare che non è un diritto acquisito dal lavoratore, ma solamente una misura che dipende dalla disponibilità del datore di lavoro ad erogarla. Ora chi si occupa di welfare aziendale, sa bene che se c’è una categoria che in genere beneficia in modo agevole – senza questa nuova norma – del valore welfare messo a disposizione dall’azienda sono proprio i genitori, i quali fra pre-post scuola, rette, mense, trasporti, libri scolastici, gite di classe, abbonamenti ai mezzi pubblici etc. (il tutto sotto forma di rimborso spese, quindi cash) già a metà anno, se non prima, sono arrivati a esaurire il proprio plafond di welfare, anche se superiore a 3.000 euro. In seconda battuta, è poco utile perché, anche per quanto detto poche righe fa, riguarda unicamente le aziende che già si pongono il benessere (o il sostegno economico del lavoratore) come problema e quindi erogano il welfare o prevedono benefit. Di solito sono aziende in cui, per questo ed altri motivi, il dipendente proprio male non sta. Vedo purtroppo più difficile che il sostegno ai genitori arrivi in quelle situazioni (ben più bisognose) in cui un datore adotti un bel contratto-pirata e retribuisca i lavoratori al minimo possibile o al massimo ribasso: ve lo vedete mettere mani al portafoglio in modo volontario quando non lo fa nemmeno se obbligato da leggi e Costituzione? Peraltro non vorrei, casomai lo facesse, che fosse un mezzo maldestro di “retribuzione sostitutiva” (“Gino, visto che hai figli a carico ti va bene se invece di pagarti gli straordinari in nero ti do dei buoni spesa o ti rimborso le bollette? Tanto per te è uguale e così almeno scarico anch’io…”). E qui viene la critica vera alla norma, che si presenta davvero come squilibrata ed ingiusta. Per quale motivo i genitori sono un po’ più uguali degli altri lavoratori, cioè perché viene presentata come misura di fiscalità generale una misura che favorisce solo una parte dei lavoratori? Quelli senza figli a carico, ma magari con situazioni drammatiche alle spalle, non hanno eguali necessità? E quelli che aspettano una benedetta riduzione vera della pressione fiscale (ed altre manovre economiche necessarie) per mettere figli in cantiere e farsi una casa, una famiglia e quelle cose lì? E i single, e quelli con altri familiari a carico? Peraltro, oramai siamo a maggio, anche volendo, anche “dandosi da fare” il figlio prima del 2024 non arriva più… Quindi con una misura non stabile (solo per il 2023), di certo non si incrementa la tanto necessaria e sospirata natalità (e nemmeno il lavoro femminile, perché o il lavoro e i figli già ce li hai – e quindi il problema in qualche modo l’hai risolto – oppure sei ancora al palo, e ci resti). Inoltre, la misura è iniqua e squilibrata perché:
- intervenendo sul comma 3 risultano beneficiati i genitori indipendentemente dalle spese che hanno in quanto genitori (ad esempio, possono godere dell’esenzione fiscale dell’autovettura data in uso promiscuo);
- vengono ad essere “aiutati” anche coloro che non avevano alcun bisogno di essere aiutati: il dirigente con la moglie quadro (o viceversa, la dirigente con il marito quadro) e con figlio in università privata si beccano in famiglia benefit esenti per 6.000 euro, davvero ne avevano bisogno?
- la concessione del benefit è a mera discrezione del datore, pertanto, se il datore non prevede nulla il lavoratore, ancorchè avente “teoricamente” diritto, non avrà nulla;
- la concessione del benefit, a differenza del welfare aziendale, è discrezionale anche rispetto alla collettività, per cui permette al datore interventi assolutamente ad personam (a Tizio do 3.000, a Caio do 1.000, a Sempronio non do nulla); un’ulteriore inversione del concetto di welfare aziendale, che si richiede sia rivolto ad una collettività (Agenzia delle Entrate non sa più come dirlo) e non al singolo. Diciamo che i profili discriminatori appaiono molteplici, lo scopo si perde, l’ingiustizia, salvo casi rari, finisce per acuirsi. Beninteso a spese di tutti, perché il conto (vedi comma 4 della norma) è a carico della fiscalità generale e non è nemmeno così indifferente.
Rispetto al problema del trattamento ad personam è inoltre prevista, nuova nel panorama, una misura surreale: l’informativa da rendere alle RSU se presenti. La norma è, al solito, oscura: i datori di lavoro devono informare le RSU se provvedono a dare attuazione alla misura (è un’opzione del tutto volontaria: forse si poteva usare un’espressione migliore di “dare attuazione”). Ma cosa dovranno fare i datori? Dovranno semplicemente dire che hanno intenzione di fare qualcosa in senso generico o dovranno dare alle RSU la lista dei beneficiari, con tanto di specifica del benefit destinato ad ogni singolo lavoratore? Cioè, tu datore di lavoro fai pure ciò che vuoi, ma poi si scatena la ridda di paragoni e mal di pancia fra i lavoratori, fra chi è stato fortunato, o beneficato, chi no (e magari nasce una qualche piattaforma rivendicativa per il futuro). E le RSU, in nome della riservatezza a cui comunque sono tenute anche loro in materia di dati personali, come potranno trattare queste informazioni? È pur vero che, salvo entità di certe dimensioni (e a volte anche lì), le RSU non sono poi così diffuse, ma alla fine il senso di questa informativa qual è (se c’è)?
Poi vi sono altre complicazioni simpatiche, chiamateli effetti perversi se volete. Un figlio è a carico se nell’anno in questione (cioè nel 2023) è percettore di un reddito fino a una certa soglia (4.000 euro di reddito fiscale, oppure 2.840,51 euro se maggiore di 24 anni). Immagino schiere di figli diffidati dal trovarsi un lavoro integrativo agli studi oppure un lavoro a ottobre (“Ma che, sei matto, per i tuoi stupidi miseri 3.000 euro io e tua madre ne perdiamo il doppio… Lascia stare”). Fantastico risultato. Da una parte si riforma (anche condivisibilmente, almeno nelle intenzioni) un reddito di cittadinanza perché appare favorire meccanismi di inerzia, ma si introducono norme che potrebbero innescare “inerzie di ritorno”.
E infine, il capolavoro. Incertezza, inutilità e asistematicità di una norma in poche righe. Eh sì, perché non è ancora chiaro il trattamento contributivo applicabile ai benefits in oggetto. È una cosa che già abbiamo visto con i 200 euro di bonus carburante 2023 previsto dal D.l. n. 5/2023 la cui legge di conversione confermò, a sorpresa, l’imponibilità contributiva. Anche rispetto a questi “nuovi 3.000” la copertura contributiva, in sede di programmazione finanziaria, non è prevista e la relazione accompagnatoria al Decreto sul punto è molto, molto sibillina.
Da qui gli effetti sopra anticipati. In primis l’incertezza: come è possibile per le aziende programmare un intervento senza sapere quale sarà il costo effettivo? Quindi, finchè non si scioglie il dilemma, tutto resta paralizzato. Per una norma che riveste carattere d’urgenza – tale è per definizione un decreto legge – non appare proprio una genialata. Secondariamente, il rischio inutilità. Esattamente come era accaduto per il Bonus benzina 2023, non è che le aziende siano poi così incentivate ad erogare benefits che saranno pure utili per il lavoratore ma che per loro costano esattamente allo stesso modo (“Ah, è imponibile contributivo? Allora grazie, mi spiace, non se ne fa niente…”). Oppure, se proprio, possono pensare di utilizzarlo in chiave malandrinamente sostitutiva di altre poste retributive (come già detto in precedenza).
Infine due parole sull’asistematicità. Nel 1997 una norma molto chiara (il D.lgs. n. 314 del 1997) sanciva dall’anno successivo come regola generale la benedetta armonizzazione della base imponibile fiscale e previdenziale del lavoro subordinato, salvo poche eccezioni. Il concetto, oltre che di grande civiltà giuridica e di semplificazione operativa (che già è tanta roba), aveva un’importanza fondamentale in quanto permetteva di poter discorrere (da parte di un operatore o di un Ente) di un benefit, di un emolumento o di quant’altro del genere senza dover ricadere in specificazioni di cosa fosse imponibile per un verso o per l’altro, come succedeva prima, cosa che chi ha qualche decennio di esperienza non può che ricordare tristemente. Davvero incomprensibile è pertanto constatare che oggi si ricade in certe prospettive viziose (e per ricaderci bisogna farlo apposta, che è anche peggio).
Ma andiamo a concludere.
Criticare il legislatore non porta certo amicizie e favori (mai), eccepire su una norma che per diversi aspetti rappresenta comunque un vantaggio per molti – anche influenti – non alza certo il livello di popolarità e simpatia, interventi che rimpolpano il calderone magmatico del welfare aziendale e di tutti gli interessi che ci stanno dietro dovrebbero essere salutati con favore da chi, come il sottoscritto, nel welfare aziendale opera con l’assistenza professionale alle aziende che vi ci vogliono impegnarsi. Pertanto, se permettete una chiosa ironica, a chi scrive potrebbe essere rivolta la frase tormentone del Crozza-Razzi pensiero: amico caro, fatti “gli affari” tuoi. Chi scrive appartiene però irrimediabilmente a una razza (maledetta?) per cui vedere realizzate norme intelligenti, equilibrate, giuste, semplici, sistematiche, chiare (indipendentemente ed anzi completamente al di fuori da qualsiasi schieramento “di qua” o “di là”) fa parte … degli affari propri. Avendo per giunta scelto un mestiere cruciale – così come cruciale è il lavoro nella vita delle persone, anche persino quando lo negano – in cui la sofferenza per norme ideologiche o strampalate si fa ancora più acuta. Se però una cosa bisogna riconoscere a questo Decreto è una certa disponibilità all’ascolto, tanto che rispetto a prime versioni circolate una qualche modifica migliorativa del testo alla fine partorito c’è stata.
Siamo palesemente in una situazione “de iure condendo”. Quindi offriamo queste riflessioni non con lo spirito della contrapposizione, ma della collaborazione all’emendamento in melius. La speranza è l’ultima a morire.